Nina si fece una doccia e, dopo aver disfatto i bagagli, scese al piano inferiore. In cucina trovò sua madre già seduta a tavola, con davanti una bottiglia di cristallo intagliato. «Ho pensato che potremmo bere qualcosa. Vodka» disse.
Nina la fissò. Era uno di quei momenti in cui si scorge qualcosa di inaspettato, come un volto nell’oscurità. In trentasette anni, sua madre non le aveva mai offerto da bere. Esitò.
«Se preferisci di no…»
«No. Voglio dire, sì» rispose, guardandola mentre versava due bicchierini colmi di vodka.
Scrutò il suo bel volto in cerca di qualcosa, una smorfia, un sorriso. Qualcosa. Ma quegli occhi azzurri non svelavano nulla.
«In cucina c’è puzza di fumo.»
«Ho bruciato la cena. Peccato che tu non mi abbia insegnato a cucinare» rispose Nina.
«Riscaldare non significa cucinare.»
«Tua madre ti ha insegnato a cucinare?»
«L’acqua bolle. Butta i tagliolini.»
Nina si avvicinò al fornello e mise nella pentola un po’ dei tagliolini fatti in casa di sua madre. Il manzo alla Stroganoff stava sobbollendo in un’altra casseruola. «Ehi, sto cucinando» disse, afferrando un cucchiaio di legno. «Danny si ammazzerebbe dalle risate. Direbbe: “Fai attenzione, tesoro. La gente deve mangiarla quella roba”.» Aspettò di sentirsi chiedere chi fosse Danny, ma in cambio ebbe solo silenzio, seguito da un lento ticchettio.
Quando si voltò, vide che sua madre stava tamburellando sul tavolo con una forchetta.
Tornò a tavola e si mise a sedere davanti a lei. «Salute» disse, alzando il bicchiere.
Sua madre sollevò il bicchierino pieno, lo fece tintinnare contro il suo e buttò giù la vodka in un unico sorso.
Nina la imitò. Seguì qualche minuto di silenzio. «E adesso che facciamo?» domandò.
«I tagliolini.»
Si precipitò verso il fornello. «Galleggiano» disse.
«Sono pronti.»
«Un’altra lezione di cucina. Magnifico» esclamò, versando il contenuto della pentola in un colapasta nel lavandino. Quindi preparò due piatti, prese l’insalata e tornò a tavola, portando con sé una bottiglia di vino.
«Grazie» disse sua madre. Chiuse gli occhi in preghiera per un istante, quindi impugnò la forchetta.
«L’hai sempre fatto?» domandò Nina. «Hai sempre pregato prima di cena?»
«Smettila di studiarmi, Nina.»
«Perché sono quelle cose che di solito un genitore trasmette ai figli. Non ricordo di avere mai pregato prima di cena, se non nelle feste importanti.»
Sua madre iniziò a mangiare.
Avrebbe voluto continuare a interrogarla, ma quando le arrivò alle narici il profumo invitante del manzo alla Stroganoff – succulenti tocchetti di carne ben rosolati e cotti per ore e ore in una salsa preparata con sherry, timo fresco, panna e funghi –, lo stomaco cominciò a brontolare. Quindi si tuffò letteralmente in quel piatto che le ricordava così tanto la sua infanzia. «Grazie al cielo nel congelatore hai cibo sufficiente per una nazione affamata» osservò, versando un bicchiere di vino a entrambe. Non ottenendo alcuna risposta, aggiunse: «Grazie per averlo detto, Nina».
Cercò di concentrarsi sul cibo, ma fu sopraffatta dal silenzio. Non era mai stata una donna paziente. Strano: poteva restare immobile per ore in attesa dello scatto perfetto, ma senza la macchina fotografica fra le mani, aveva sempre bisogno di tenersi occupata. Alla fine non ce la fece più. «Basta» esclamò, così bruscamente che sua madre alzò lo sguardo. «Non sono Meredith.»
«Lo so bene.»
«Eri troppo rigida con noi quando eravamo bambine e Mere… be’, lei è rimasta incastrata qui e non è cambiata granché. Io sono andata via. E sai una cosa? Non mi fai più paura, e non mi ferisci più come prima. Sono qui per prendermi cura di te. Se Mere l’avrà vinta, resterò qui finché non ti sarai trasferita nel Paradiso degli Anziani. E non ho certo intenzione di consumare ogni pasto sotto un cono del silenzio.»
«Sotto a cosa?»
«Quando ero piccola, si chiacchierava a tavola. Me lo ricordo. Ridevamo, perfino.»
«Lo facevate voi tre.»
«Perché non hai mai prestato attenzione a me e a Meredith?»
«Adesso stai fantasticando» rispose, bevendo un sorso di vino. «Mangia.»
«Va bene, mangio. Ma dobbiamo parlare, punto e basta. E siccome sei una schiappa nel fare conversazione, comincio io. Il mio film preferito è La mia Africa. Adoro guardare le giraffe che avanzano all’ora del tramonto nel Serengeti, e devo ammettere che a volte, con mia sorpresa, mi manca la neve.»
Sua madre bevve un altro sorso di vino.
«Potrei chiederti delle favole» aggiunse. «Potrei chiederti perché le conosci parola per parola o perché ce le raccontavi soltanto con la luce spenta o perché papà…»
«Il mio autore preferito è Puškin. Anche se quella con cui mi identifico di più è Anna Achmatova. Mi mancano… le vere belye nochi. E il mio film preferito è Il dottor Zivago.» Il suo accento si addolciva nel pronunciare le parole russe, trasformandole in una specie di melodia.
Nina la guardò. «Quindi, dopotutto abbiamo qualcosa in comune» disse, afferrando il bicchiere di vino.
«Che cosa?»
«Adoriamo le grandi storie d’amore senza lieto fine.»
All’improvviso sua madre si ritrasse dal tavolo e si alzò. «Grazie per la cena. Adesso sono stanca. Buonanotte.»
«Te lo chiederò di nuovo, lo sai» aggiunse Nina, mentre lei le passava accanto. «Della favola, intendo.»
Sua madre si fermò un istante, fece un passo incerto e poi ricominciò a camminare. Girò l’angolo e salì le scale. Quando Nina sentì chiudersi la porta della camera da letto, alzò gli occhi al soffitto. «Hai paura, vero?» disse ad alta voce, riflettendo fra sé e sé. «Ma di cosa?»
Avvolta nel suo vecchio accappatoio, Meredith si dondolava lentamente, seduta in veranda su una poltrona di vimini. I cani erano avvinghiati tra loro accanto ai suoi piedi. Sembravano addormentati, ma di tanto in tanto uno di loro guaiva, alzando lo sguardo. Sentivano che qualcosa non andava. Jeff non c’era più.
Non riusciva a credere che le avesse fatto una cosa simile in un momento come quello, all’indomani della morte di suo padre e con sua madre in piena crisi. Avrebbe volto aggrapparsi a quella rabbia, ma era effimera e difficile da afferrare. Nella mente le si presentava di continuo la stessa scena…
Lei, Jeff e le ragazze, seduti tutti insieme a cena.
Jillian con il naso sprofondato in un libro e Maddy che batteva il piede a terra, impaziente di andare. Ma tutta quell’irrequietezza giovanile svaniva di colpo davanti alle parole di Jeff: “Ci stiamo separando”.
Forse non avrebbe detto proprio così. O, forse, si sarebbe tirato indietro, lasciando a lei il compito di pronunciare quelle parole avvelenate. Di certo questo sarebbe stato coerente con i loro ruoli genitoriali: Jeff era il “compagnone”, lei quella che dettava le regole.
Maddy sarebbe scoppiata in un pianto incontrollato.
Quelle di Jillian sarebbero state lacrime silenziose, strazianti.
Fece un sospiro profondo, tremante. Adesso capiva perché le mogli infelici restavano con i loro mariti: per la scena che aveva appena immaginato e per il dolore che ne derivava.
In lontananza scorse il primo scintillio ramato dell’alba. Aveva trascorso la notte lì fuori. Si strinse nell’accappatoio e tornò in casa, quindi iniziò a gironzolare per le stanze, prendendo in mano diversi oggetti per poi rimetterli al loro posto: il premio in cristallo guadagnato da Jeff l’anno precedente per il giornalismo d’inchiesta… gli occhiali da lettura che aveva cominciato a usare di recente… la fotografia che li ritraeva insieme a lago Chelan, l’estate scorsa. Fino ad allora, guardando quella foto, aveva sempre visto soltanto una cosa: quanto lei stava invecchiando. Adesso, invece, notò il modo in cui Jeff la abbracciava, il suo sorriso luminoso.
Posò la fotografia e andò al piano superiore. Il letto era invitante, ma Meredith non riuscì nemmeno ad avvicinarsi a quell’enorme materasso con impressa la forma del marito. E il suo profumo. Invece, indossò i suoi abiti sportivi e uscì. Continuò a correre finché il respiro si tramutò in sofferenza e i polmoni in gelatina.
Tornata a casa, si infilò direttamente nella doccia e rimase lì finché l’acqua divenne fredda.
Infine si vestì, certa che nessuno, guardandola, avrebbe potuto capire che la sera prima era stata lasciata dal marito.
Quando fu in cucina con le chiavi dell’auto in mano, si rese improvvisamente conto che era sabato.
Il magazzino era chiuso. Buio e freddo. Be’, nulla le vietava di andare in ufficio comunque, di sprofondare nei rapporti sugli insetti e sulle potature, nei prospetti di coltivazione e nelle quote di vendita. Ma sarebbe stata sola, nel silenzio, con i suoi soli pensieri a distrarla.
«Non se ne parla.»
Alla fine uscì e salì in auto ma, anziché in città, si diresse a Belye Nochi.
La luce del soggiorno era accesa e il comignolo fumava. Ovviamente Nina era sveglia. Funzionava ancora con l’orario africano.
Meredith fu travolta da un’ondata di autocommiserazione. Quanto avrebbe voluto confidarsi con sua sorella, affidare il proprio dolore a qualcuno che sapesse trovare le parole per mitigarlo o trasfigurarlo.
Ma Nina non era la persona giusta. E non si sarebbe confidata neanche con le sue amiche. Era già abbastanza umiliante e doloroso così, senza essere sulla bocca di tutti. Oltretutto, non era da lei parlare dei suoi problemi. Era rimasta sola anche per questo, no?
Spalancò la portiera e scese dall’auto.
In casa c’era ancora odore di bruciato. Vide la pila di piatti sporchi nel lavello e la bottiglia aperta di vodka sul bancone.
La rabbia montò all’istante. Acuta. Esagerata. Ma quel sentimento era un bene. Poteva aggrapparsi a esso, lasciare che la divorasse. Si scagliò sui piatti con tanto fervore da far sferragliare le pentole mentre le gettava nell’acqua saponata.
«Cavolo» disse Nina, entrando nella stanza. Indossava un paio di boxer da uomo e una vecchia maglietta dei Nirvana. I capelli neri erano sparati in aria e il volto era stropicciato in un sorriso. Somigliava a Demi Moore in Ghost: incredibilmente carina. «Non credevo che il lancio della pentola fosse il tuo sport preferito.»
«Credi che non abbia niente di meglio da fare che sistemare i tuoi casini?»
«È un po’ presto per le scenate.»
«Ma certo, scherzaci su. Che ti importa?»
«Meredith, cosa succede? Stai bene?»
Per poco non cedette. Il tono dolce di sua sorella, quella domanda inaspettata… Fu sul punto di rispondere: “Jeff mi ha lasciata”.
E poi?
Fece un sospiro profondo e piegò l’asciugamano in tre parti perfette prima di appenderlo alla maniglia del forno. «Tutto a posto.»
«Non si direbbe.»
«Francamente, Nina, non mi conosci abbastanza per dirlo. Come stava la mamma ieri sera? Ha mangiato?»
«Abbiamo bevuto vodka insieme. E vino. Ci crederesti?»
Quelle parole le provocarono una fitta lancinante, e impiegò qualche istante per capire che si trattava di gelosia. «Vodka?»
«Lo so. Anch’io sono rimasta di sasso. E ho scoperto che il suo film preferito è Il dottor Zivago.»
«Non credo che l’alcool sia l’ideale per lei, non ti pare? Insomma, per metà del tempo non sa nemmeno dove accidenti si trova.»
«Però sa chi è. Ed è questo che voglio scoprire. Se solo riuscissi a convincerla a raccontarci le favole…»
«Al diavolo le favole» ribatté Meredith, più bruscamente del dovuto. Davanti all’espressione sorpresa di Nina, si rese conto che forse aveva gridato. «Comincerò a preparare le sue cose per il trasloco del mese prossimo. Penso che starà meglio là con la sua roba intorno.»
«Non starà bene» rispose Nina. Sembrava arrabbiata, adesso. «Puoi fare tutto in modo preciso, ordinato e organizzato, ma la stai comunque rinchiudendo.»
«Pensi di restare, Nina? Per sempre? Perché, in questo caso, annullerò la prenotazione.»
«Sai che non posso farlo.»
«Già, certo, puoi criticare, ma non puoi farci niente.»
«Adesso sono qui.»
Meredith lanciò un’occhiata al lavandino pieno di acqua saponata e alle stoviglie messe ad asciugare sullo scolapiatti. «E mi sei proprio d’aiuto, già. Ora, se vuoi scusarmi, vado a prendere qualche scatolone in garage. Comincerò dalla cucina. Se vuoi darmi una mano, sei la benvenuta.»
«Non ho intenzione di infilare la sua vita negli scatoloni, Mere. Non voglio rinchiuderla. Al contrario. Voglio che si apra con noi. Non capisci? Non ti importa?»
«No» rispose, oltrepassandola con uno spintone. Uscì di casa e andò in garage. Nell’attesa che il portone automatico si aprisse, faticava a respirare. Una strana sensazione cominciò a montare dentro di lei, finché avvertì un dolore al petto e un formicolio al braccio e pensò: “È un infarto”.
Si piegò in due e riempì i polmoni d’aria – dentro e fuori, dentro e fuori –, finché non si sentì meglio. Avanzò nell’oscurità del garage, lieta di aver mantenuto il controllo e di non essersi lasciata andare davanti a Nina. Ma, quando accese la luce, si trovò davanti la Cadillac di suo padre. La decappottabile del 1956 che era il suo orgoglio e la sua gioia.
“Si chiama Frankie, come Sinatra. Sul sedile anteriore di Frankie ho rubato il mio primo bacio…”
La vecchia Frankie aveva accompagnato la loro famiglia in decine di viaggi: a nord, nella Columbia Britannica; a est, nell’Idaho; a sud, nell’Oregon. Sempre in cerca di avventure. Durante quei lunghi tragitti polverosi, mentre suo padre e Nina cantavano sulle note di John Denver, Meredith si sentiva completamente invisibile. Non amava esplorare strade nuove, svoltare nel posto sbagliato, restare senza carburante. Eppure sembrava che andasse a finire sempre in quel modo, con suo padre e Nina che sghignazzavano come bucanieri a ogni avventura.
“Chi ha bisogno di indicazioni?” diceva papà.
“Noi no” rispondeva Nina, sobbalzando sul sedile fra le risate.
Meredith avrebbe potuto unirsi a loro, o almeno fingere, ma non lo faceva. Restava seduta a leggere sul sedile posteriore, cercando di non prendersela quando si staccava un coprimozzo o il motore si surriscaldava. E, quando si accampavano per la notte, suo padre andava sempre da lei e, fumando la pipa, le diceva: “Forse la mia ragazza preferita ha voglia di fare due passi…”.
Quei dieci minuti di passeggiata compensavano mille chilometri di pessime strade.
Sfiorò il cofano rosso ciliegia, liscio e scintillante. Nessuno guidava quell’auto da anni. «La tua ragazza preferita vorrebbe fare due passi» sussurrò.
Lui era la sola persona a cui avrebbe raccontato i fatti della sera precedente…
Con un sospiro, si avvicinò al banco di lavoro di suo padre e si guardò intorno finché non individuò tre grossi scatoloni. Quindi tornò in cucina, li posò sul pavimento di parquet e aprì l’armadietto più vicino. Era prematuro riempire gli scatoloni, lo sapeva, ma era sempre meglio che stare da sola nella sua casa vuota.
«Vi ho sentite litigare.»
Meredith chiuse lentamente l’armadietto e si voltò.
Sulla porta c’era sua madre. Indossava la camicia da notte bianca, con una coperta di lana nera avvolta intorno alle spalle a mo’ di mantello. La luce dell’ingresso filtrava attraverso il tessuto, delineando le gambe sottili.
«Mi dispiace» disse Meredith.
«Tu e tua sorella non siete unite.»
Si trattava di un’affermazione più che di una domanda, com’era giusto che fosse, ma Meredith avvertì una nota pungente nel suo tono, una sorta di giudizio. Per una volta, sua madre non stava guardando un punto alle sue spalle o accanto a lei, ma la fissava direttamente come se la vedesse per la prima volta.
«No, mamma, non siamo unite. Non ci vediamo praticamente mai.»
«Ve ne pentirete.»
“Grazie, Yoda” pensò. «Va bene, mamma. Ti preparo un tè?»
«Quando io non ci sarò più, non avrete nessun altro.»
Meredith si alzò e si avvicinò al samovar. Era l’ultima cosa a cui aveva voglia di pensare quel giorno, la morte di sua madre. «Si scalderà in un attimo» disse, senza voltarsi.
Un attimo dopo la sentì allontanarsi e si ritrovò di nuovo da sola.
Nina decise di prendere sua madre per sfinimento. La sceneggiata in cucina di santa Meredith martire aveva dimostrato una cosa: il tempismo era essenziale. Ogni pagina di giornale strappata o tintinnio di pentola significava che un altro pezzo della vita di sua madre veniva impacchettato e messo via. Se Meredith avesse continuato così, presto non sarebbe rimasto nulla.
Ma la volontà di suo padre era stata un’altra, e adesso quella volontà era anche la sua. Desiderava ascoltare la favola della contadina e del principe per intero. In realtà, non ricordava qualcosa che avesse desiderato di più.
A colazione, andò in cucina, girò prudentemente intorno a quel pezzo di ghiaccio di sua sorella e, ignorandola, preparò una tazza di tè dolce e una fetta di pane tostato, quindi li portò a sua madre al piano di sopra. La trovò a letto, con le mani nodose appoggiate rigidamente sulla coperta all’altezza dello stomaco. I capelli bianchi tutti scompigliati facevano pensare a una notte agitata. Con la porta aperta, entrambe riuscivano a sentire Meredith impegnata a impacchettare gli utensili in cucina.
«Potresti aiutare tua sorella.»
«Potrei. Se pensassi che devi andartene. Ma non lo penso.» Così dicendo, le porse il tè e il pane tostato. «Sai cosa mi è venuto in mente mentre ti preparavo la colazione?»
Sua madre sorseggiò il tè dalla raffinata tazza in vetro con montatura d’argento. «Immagino che me lo dirai comunque.»
«Che non so se preferisci il miele, la marmellata o la cannella.»
«Vanno bene tutti.»
«Il punto è che non lo so.»
«Ah, è quello il punto» rispose con un sospiro.
«Stai di nuovo guardando altrove.»
L’altra non disse nulla, limitandosi a bere un altro sorso di tè.
«Voglio ascoltare la favola. Quella della contadina e del principe. Tutta quanta. Per favore.»
Sua madre posò la tazza sul comodino e scese dal letto. Passandole accanto come se fosse invisibile, uscì dalla stanza, attraversò il corridoio e andò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle.
A pranzo fece un altro tentativo. Stavolta sua madre prese il suo panino e uscì.
Nina la seguì e si mise a sedere sulla panchina accanto a lei. «Dico sul serio, mamma.»
«Sì, Nina, lo so. Vattene, per favore.»
Nina restò per altri dieci minuti, giusto per ribadire il concetto, poi si alzò e tornò dentro.
In cucina, Meredith era ancora alle prese con uno scatolone di pentole e tegami. «Non te la racconterà mai» disse al suo ingresso.
«Grazie mille» rispose, prendendo la macchina fotografica. «Continua pure a impacchettare la sua vita. So quanto ti piace vedere tutto ordinato ed etichettato. Sei un vero spasso. Francamente, Mere, come fanno Jeff e le ragazze a sopportarlo?»
Nina tornò in casa alle sei passate. Gli ultimi bagliori ramati della sera conferivano ai fiori di melo un riverbero opalescente, e nella valle regnava un’atmosfera ultraterrena.
La cucina era vuota, con l’eccezione degli scatoloni ben impilati ed etichettati, sistemati ordinatamente nello spazio tra la dispensa e il frigorifero.
Guardando fuori dalla finestra, vide che l’auto di sua sorella era ancora lì. Probabilmente Meredith si trovava in un’altra stanza, sommersa da scatoloni e fogli di giornale.
Aprì il congelatore e iniziò a frugare tra infinite file di contenitori. Zuppa di polpette, stufato di pollo con gnocchi, pierogi, moussaka di agnello e verdure, costolette di maiale brasate nel sidro, pancake di patate, peperoni rossi alla paprica, pollo alla Kiev, manzo alla Stroganoff, strudel, involtini di prosciutto e formaggio, tagliolini fatti in casa e pane di ogni genere. In garage c’era un altro congelatore, altrettanto pieno, e la dispensa nel seminterrato era zeppa di conserve domestiche di frutta e verdura.
Nina scelse uno dei suoi piatti preferiti: un delizioso brasato di manzo a cottura lunga, ripieno di bacon e rafano. Scongelò l’arrosto nel microonde, con tanto di tuberi e succulento brodo di manzo, quindi trasferì il tutto in una teglia e la infornò a 180 gradi. Non poteva aver sbagliato di molto, pensò. Infine riempì una pentola d’acqua per i tagliolini fatti in casa. Poche cose al mondo erano più buone di quei tagliolini.
Infornata la cena, preparò la tavola per due e si versò un bicchiere di vino. Il profumo delle pietanze avrebbe attirato sua madre in cucina.
Come previsto, alle sei e quarantacinque, la vide scendere le scale.
«Hai preparato la cena?»
«L’ho riscaldata» rispose, dirigendosi in sala da pranzo.
Sua madre guardò la carta da parati distrutta, ancora macchiata di sangue ormai nero. «Mangiamo in cucina» disse.
Nina non ci aveva pensato. «Oh, certo.» Sparecchiò i due posti e trasferì tutto sul piccolo tavolo di quercia incastrato in una nicchia della cucina. «Ecco fatto, mamma.»
A quel punto entrò Meredith e, notando la tavola per due, fece una smorfia seccata. O forse era sollievo. Con lei era difficile capirlo.
«Vuoi cenare con noi?» le chiese Nina. «Credevo che dovessi tornare a casa, ma qui ce n’è per tutti. Conosci la mamma. Cucinava sempre per un esercito.»
Meredith lanciò un’occhiata oltre la finestra, in direzione della sua casa. «Certo» rispose infine. «Stasera Jeff non torna… fino a tardi.»
«Va bene» disse Nina, scrutandola con attenzione. Era strano che si fermasse per cena. Di solito correva a casa appena possibile. «Magnifico. Dai, siediti.» Appena Meredith ebbe preso posto, Nina apparecchiò rapidamente per un’altra persona, quindi portò la bottiglia di cristallo. «Cominciamo con un bicchierino di vodka.»
«Che cosa?» esclamò Meredith, alzando lo sguardo.
Sua madre prese la bottiglia e versò tre bicchieri. «Non serve discutere con lei» osservò.
Nina si mise a sedere e sollevò il bicchiere. Sua madre lo toccò col suo e Meredith, con riluttanza, la imitò. Quindi bevvero.
«Siamo russe» osservò Nina all’improvviso, guardando sua sorella. «Possibile che non ci abbia mai pensato prima?»
Meredith scrollò le spalle con palese disinteresse. «Vi servo io» disse, alzandosi. Qualche istante dopo, tornò con i piatti.
Anya chiuse gli occhi in preghiera.
«Tu te lo ricordi?» le domandò Nina. «La mamma che prega?»
Stavolta Meredith alzò gli occhi al cielo e impugnò la forchetta.
«Okay» aggiunse sua sorella, ignorando il silenzio imbarazzante che regnava a tavola. «Meredith, dal momento che sei qui, devi adattarti a una nuova tradizione che abbiamo inaugurato io e la mamma. È una vera rivoluzione. Si chiama “conversare a tavola”.»
«Quindi dobbiamo parlare, giusto?» chiese Meredith. «E di cosa?»
«Comincio io, così capisci come funziona. La mia canzone preferita è Born to be Wild, il mio ricordo d’infanzia più bello è la gita a Yellowstone, quando papà mi ha insegnato a pescare.» Poi guardò Meredith. «E mi dispiace di aver reso la vita difficile a mia sorella.»
Sua madre posò la forchetta. «La mia canzone preferita è Somewhere Over the Rainbow, il mio ricordo più bello è il giorno in cui ho guardato i bambini fare gli angeli di neve nel parco. E mi dispiace che voi due non siate amiche.»
«Noi siamo amiche» disse Nina.
«È un’idiozia» osservò Meredith.
«No» rispose sua sorella. «L’idiozia è guardarsi in faccia senza parlare. Tocca a te.»
Meredith emise il suo classico sospiro di sopportazione. «E va bene. La mia canzone preferita è Candle in the Wind, la versione per la principessa Diana, non l’originale. Il mio ricordo d’infanzia più bello è quando papà mi ha portata a pattinare al Miller’s Pond e… mi dispiace di aver detto che non siamo unite, Nina. Ma non lo siamo. Quindi, forse, mi dispiace anche per questo.» Dopo quelle parole annuì, come se avesse spuntato una voce nella sua lista delle cose da fare. «Adesso mangiamo. Sto morendo di fame.»