Capitolo II

Omicidio all’Accademia

Era il corpo di un giovane snello nel fiore degli anni. Persino in quell’istante di orrore fui colpito dall’eleganza dei suoi abiti e dalla sua barba ben curata. Accasciandosi dentro la stanza, cadde a faccia in giù, le gambe ancora oltre la soglia. Aristotele si affrettò a girarlo e a sentirgli il cuore.

«È ancora...».

Il giovane aprì gli occhi e ci guardò. Giuro che ci guardò, e parve sconcertato da ciò che vide. Un lieve respiro palpitò sulle sue labbra.

«Dove...?». Un suono flebile come un soffio, più sommesso di un sussurro. «Dov’è...?».

«Dov’è cosa, mio buon uomo?», chiese Senocrate ad alta voce, come se il ferito fosse sordo o stupido, non semplicemente moribondo.

«Ah...». Le parole gli rimasero in gola. Gli occhi gli si rovesciarono all’indietro. Un lieve fremito, il volto ricadde nuovamente sul pavimento, poi più nulla.

«È andato», disse Aristotele.

«È terribile! Che sventura!». Senocrate era agitato. «Presto, toglietelo dalla soglia». Trascinammo il giovane corpo portandolo all’interno. Senocrate chiuse da solo la porta di casa. «Portatelo via!», ci esortò. «Nessuno deve vederlo finché non decidiamo cosa fare. Portatelo nella stanza accanto».

Lo schiavo che ci aveva fatto entrare non si vedeva da nessuna parte. Meglio così. Arrancammo col nostro fardello verso la stanza attigua. C’era un sottile materasso sul pavimento, e vi scaricammo sopra lo sventurato cadavere. Gli schiavi sono inclini ai pettegolezzi e le voci circolano. Ma di sicuro delle voci sarebbero circolate comunque. Il povero giovane giaceva lì, con un braccio teso. Portava al dito un anello d’argento. Adesso vedevamo anche un sottile rivolo di sangue. I nostri occhi lo seguirono fino a una ferita ad un fianco.

«Tieni», Senocrate mi ficcò in mano uno straccio. «Asciugalo, pulisci!», disse indicando la soglia e la stanza precedente, in cui quest’uomo era entrato in maniera così poco cerimoniosa. Infastidito che mi fosse assegnato un compito così umile e spiacevole, obbedii al mio vecchio benché non amato insegnante senza fiatare. La ferita fatale non aveva causato un flusso di sangue così abbondante come ci si sarebbe potuti aspettare. Senocrate tornò e si soffermò davanti al cadavere. Alla fine, afferrò la mano che sfoggiava l’anello d’argento con una piccola pietra bruna al centro e glielo sfilò dal dito immobile. «Dobbiamo stare attenti che gli oggetti di valore non vadano perduti», spiegò, lasciando cadere la mano.

«Bene, e adesso che facciamo?», chiese Aristotele. «Un omicidio all’Accademia. Chi se lo sarebbe aspettato?».

«Ssshhh!», intimò Senocrate. Rientrò in punta di piedi nella stanza di prima e si sedette sulla sua sedia. Noi facemmo lo stesso. Poi sentimmo il suono di una voce e dei passi che si avvicinavano.

«Eccovi!». Lo schiavo parlò in tono alquanto irriverente, notai. Lo stesso schiavo che ci aveva fatto entrare aveva aperto la porta. Alle sue spalle si profilò una persona più alta.

«Spero d’essere in tempo», disse costui. Entrò nella stanza camminando normalmente. «Oh! Della gente, già qui! Mi dispiace, onorevoli signori». Questa persona dall’aspetto ordinario non portava abiti eleganti. Indossava una rozza tunica tessuta in casa, fuori misura, informe, e non troppo pulita.

Il nuovo arrivato s’inchinò con un gesto sgraziato e si raddrizzò. «Sono Eumeo, schiavo di Stoico di Siracusa», spiegò. «Vengo come suo messaggero. Egli vi raggiungerà tra poco e potrà spiegarvi tutto. Io sono stato mandato avanti per avvisarvi del suo arrivo. E per portare la borsa».

In effetti, l’uomo portava una borsa. Piuttosto piccola, ma di buon cuoio.

«Posso aspettare il mio padrone fuori», aggiunse Eumeo.

Ero certo che, in tutto questo tempo, Senocrate si era domandato se raccontare o no a questo nuovo arrivato quanto era successo. Si riusciva quasi a sentire il suono dei pensieri che gli ribollivano in testa. Sarebbe stato più sicuro o meno sicuro dirglielo subito? Un cadavere tenuto nascosto può alimentare dei sospetti su una casa. Era rischioso raccontare l’accaduto a questo schiavo?

«Credo che faresti meglio a dirci cosa c’è nella sacca che hai portato in casa», disse Senocrate.

«Be’», fece Eumeo, «non so esattamente cosa dire. Una specie di lettera, mi pare abbia detto. Ma Stoico può spiegare tutto. Lui sa leggere alla perfezione».

«Fammi vedere», ordinò Senocrate stendendo una mano. Comprensibilmente, lo schiavo esitò.

«Non posso dare a nessuno il permesso di leggerla, finché non lo dice Stoico».

Un’occhiata da Aristotele, e Senocrate prese una decisione.

«Temo, mio buon uomo, che Stoico non dirà mai più nulla. Vieni a vederlo, sempre che l’uomo che abbiamo qui sia il tuo Stoico». Egli condusse lo schiavo nella stanza sul retro, dove l’uomo poté esaminare il cadavere.

«Per gli dèi! Padron Stoico! Cosa gli è accaduto? Oh! C’è del sangue!».

«Sì. A quanto pare quest’uomo è stato aggredito mentre veniva qui. È morto».

«Per gli dèi! Che facciamo adesso?». Eumeo si accasciò, accovacciandosi sul pavimento con la schiena contro il muro. Chinando il capo, si strofinò gli occhi e poi la testa, dai peli radi e irsuti color grigio topo. «Che disgrazia, una cosa terribile! E come facciamo a riportare il corpo in Sicilia? Dev’essere sepolto in patria, è quel che vorrà la famiglia. Oh, e io? Daranno la colpa a me, lo so!». Il viso sporco si distorse in una maschera di dolore, in un sincero strazio.

«Calmati, per favore», consigliò Aristotele. «È senza dubbio angosciante. Magari vuoi fare un bagno e cambiarti d’abito prima di continuare».

«Oh, non possiamo prenderci la briga di cose del genere in questo momento!», sbottò Senocrate irritato. «In piedi, tu! Penseremo più avanti a come trasportare il cadavere. Adesso devo vedere il documento per portarmi il quale il tuo padrone ha sacrificato la sua vita».

Egli avanzò risolutamente verso la borsa. Guardando la stanzetta, il cadavere e i tre uomini che lo circondavano, Eumeo sospirò e consegnò la sacca. Le sue mani, notai, non presentavano tracce di sangue, ma nessuno avrebbe potuto affermare che si fosse lavato di recente. Non saprei dire invece se la borsa fosse sporca di sangue o no; e comunque, una macchia su quella sacca, non appena essa fosse stata toccata da qualcuno di noi tre, non avrebbe provato più nulla. Afferrando la borsa, Senocrate si precipitò fuori dalla camera in cui giaceva il cadavere, e noi tutti lo seguimmo.

«Stefanos, tieni d’occhio questa persona, assicurati che non fugga!». Il Maestro dell’Accademia mi ordinò di fare da carceriere allo schiavo, ma l’uomo non dava segno di voler fuggire. Aveva il viso pallido e le ginocchia tremanti.

Senocrate tirò fuori dalla sacca una serie di tavolette di buon legno di pioppo. Ruppe il sigillo e aprì la prima. «Sembra piuttosto lunga», osservò dubbioso, scrutandola con gli occhi socchiusi. «Aristotele, forse sarebbe meglio che la leggessi tu».

Aristotele prese le tavolette. I sottili pannelli di legno erano coperti da uno strato di cera di buona qualità, incisa con una grafia sottile e filiforme.

Al potente Senocrate, direttore dell’Accademia di Atene

Saluti!

Voi non mi conoscete, e il mio nome vi sarebbe poco utile al momento. Ma invio questo messaggio tramite un fidato messaggero, nella speranza che giunga a voi o al vostro collega, anch’egli un tempo amico di Platone, lo stimato Aristotele di Stagira, attualmente residente ad Atene.

«Che strano modo di esprimersi ha l’autore di questa lettera!», non potei fare a meno di osservare.

Per voi che eravate amici dei grandi e celebrati sovrani, Dionisio I e II, e anche dell’amabile Dione dal triste destino, non sarà senza importanza che vi vengano ricordati tutti. Proprio ora in Sicilia un individuo infido custodisce un tesoro di documenti e oggetti preziosi che appartenevano ad entrambi i re. Sarebbe pericoloso se esso cadesse in mani sbagliate. La Sicilia è molto incline a complotti e faziosità. Ho timore di divulgare anche solo la notizia dell’esistenza di un simile cumulo di veleni a chiunque sull’isola, dopo la triste dipartita di Timoleonte. Vi supplico, venite in Trinacria, a Siracusa, e impossessatevi di nascosto di questo tesoro venefico. Esso non deve cadere nelle mani sbagliate. Tale deplorevole evenienza potrebbe non solo seminare scompiglio tra molti nel nostro paese, ma senza dubbio arrecherebbe un enorme danno alla memoria del potente e nobile Platone. La sua reputazione dipende dall’occultamento di tali riservati e potentissimi documenti, e di alcuni altri oggetti. Non lasciate che il suo nome sia distrutto per sempre! In nome degli dèi, ascoltate quest’appello. Venite, per il bene di colui che avete amato come un padre. È la compassione che vi invoca. Salvate la memoria di quanti sono morti e non possono più difendersi. Proteggete la pace futura, sia qui che ad Atene.

Accogliete la calorosa supplica di uno che augura ogni bene a voi e alla filosofia, uno che deve pregare per il benessere di Siracusa e della nostra grande isola, che abbonda di tante benedizioni e meriti, e tuttavia è costantemente minacciata. Noi preghiamo per ottenere il favore degli dèi e giustizia dall’umanità. Accorrete subito, finché la Sicilia è ancora in pace. Se non coglierete quest’opportunità di scacciare il male e garantire il bene, siate certi che lo rimpiangerete per sempre. Non conservate quest’epistola, ma portate il secondo documento con voi a Siracusa.

I migliori auspici dal vostro Ignoto Amico.

«Davvero una strana supplica!», osservò Aristotele. «Perché non sappiamo nemmeno chi ne sia l’autore, o esattamente quali orrori potrebbero essere impediti sottraendo a un pazzo una serie di prove di... di cosa?».

Aristotele stava riponendo la lettera dentro la sacca di cuoio. Mi accorsi che sotto c’era dell’altro, un secondo documento. Ma lui non vi fece alcun accenno, e nemmeno Senocrate ci fece caso.

«Oh, devi andare», gridò Senocrate voltandosi verso Aristotele. «Va’ a Siracusa, ti prego! Salva il grande Platone! Abbi pietà del suo nome e della sua fama! E salva la Sicilia. Io non posso, ma tu puoi».

Quest’esortazione rianimò un po’ lo schiavo forestiero, sempre che lo fosse davvero.

«Oh, sarebbe un bene», esclamò. «Se questo signore mi riaccompagnasse a casa, potrei spiegare molto meglio la questione del cadavere. Magari potrebbe metterci una buona parola».

«Come puoi riportare il cadavere fin lì?», chiesi sinceramente incuriosito.

«Be’», rispose Eumeo pensieroso, «è magro, padron Stoico. Magari potremmo usare una giara grande. Mettercelo dentro piegato in due e versarvi sopra del vino forte. Un bel tappo, e poi a Ortigia i suoi amici potrebbero portarsi via la giara e svuotarla, se volessero, per seppellirlo come si deve».

«Sembri in grado di liberarti del problema e del tuo padrone con una velocità formidabile», osservò Senocrate.

Lo schiavo fece spallucce. «Qualcuno lo ha già fatto. Nessuna grande famiglia desidera negare al suo discendente una degna sepoltura».

«So che tu, Senocrate, Maestro dell’Accademia, hai tanti servitori ed aiutanti qui che possono assisterti per faccende e problemi del genere», disse Aristotele. «Mi rincresce lasciarti mentre sei alle prese con queste seccature, ma non vedo come Stefanos e io possiamo esserti di aiuto».

«Non puoi andartene!», esclamò Senocrate, saltando in piedi. Sembrava alquanto terrorizzato. «Cosa devo fare? Chi dovrei informare?».

«Io cercherei di informare Licurgo, e con discrezione», suggerì Aristotele. «Se volessi rivolgerti ad Antipatro, ciò richiederebbe tempo e farebbe molto scalpore. Io rimanderei lo schiavo Eumeo indietro con la sua grande giara. Senza perdere tempo».

«Ma... Aristotele... ti prego!». Senocrate tese le mani aperte in un gesto di supplica. «Ti prego! Io non posso andare in Sicilia. Non sono abbastanza in salute, non sono in grado... Ma qualcuno deve andare a salvare la reputazione di Platone! E della mia scuola, e di tutti quanti! Mettere a tacere qualsiasi pettegolezzo malevolo».

«Qualcuno potrebbe fare tutte queste cose, oppure no», disse Aristotele. «Perché non dovrebbe essere uno dei tuoi studenti o assistenti ad agire in tua vece? Se non desideri andare tu di persona. Ti auguro buona giornata, e una felice soluzione a tutti i tuoi problemi».

E sollevati uscimmo dalla porta, assicurandoci di non toccarne la soglia consumata, macchiata da un minuscolo schizzo di sangue che solo un occhio acuto – o curioso – avrebbe potuto individuare. Fuori, all’aria fresca, lontano dall’Accademia, e sulla strada del ritorno verso l’Agorà.