Capitolo III

Vita di Platone

Prima di raggiungere la sacra Agorà, era necessario fare una sosta in un luogo appartato per la purificazione rituale, dato che ci eravamo trovati in presenza di un cadavere. Una volta liberi di attraversare l’Agorà, comprai delle focaccine di pane e del formaggio morbido da spalmarvi sopra. «Sarebbe meglio che venissi a casa mia», suggerii. «Circola troppa gente al Liceo».

Proseguimmo, perciò, verso tutte le comodità che la mia casa offriva. Mandai Trifos, lo schiavo che normalmente stava alla porta, a fare una commissione per evitare che origliasse. Dissi alle donne di portare del vino leggero e poi di stare alla larga, perché Aristotele ed io avevamo degli affari da discutere. Consumammo il nostro pasto, in modo poco ortodosso, nell’andron, sebbene fosse alquanto caldo e polveroso, mentre fuori sarebbe stato più piacevole. Dovevamo digerire qualcosa di più del nostro modesto pranzo.

«Credi che quella lettera sia vera?», chiesi. «Quella dell’“Ignoto Amico”?».

«È senza dubbio una lettera. Quali possano essere le motivazioni dell’autore, o se sia vero quello che dice, non sono in grado di dirlo. Così come non sono in grado di dire chi sia».

«Certo non desideri andare in Sicilia!».

«No. Intendiamoci, ne abbiamo sentito parlare molto da Platone. Avrebbe dovuto scrivere un libro sui suoi viaggi. Fu imprigionato. Potrebbero esserci lettere superstiti e mai raccolte prima. Potrebbero essere stati ritrovati documenti riguardanti quel periodo, immagino. Ho idea che qualcuno dei suoi giorni là non sia stato proprio piacevole».

«Posso capirlo», dissi. «Anch’io ho vissuto la stessa esperienza per un periodo, in Egitto». E mi tornarono in mente certe giornate tediose, benché cariche di tensione, trascorse recluso in una noiosa stanzetta a Menfi. Confinato da Cleomenes, satrapo d’Egitto, nel suo palazzo. La sua immagine s’insinuò tra i miei pensieri: il naso pronunciato, la tiara ricamata a cingere come un diadema i capelli grigi, il mantello purpureo. E la sua scorta di Sette Scorpioni.

«Credi che quella lettera sia solo un cumulo di menzogne?», chiesi. «E se non fosse vero che qualcuno custodisce un tesoro o un mucchio di lettere pericolose?».

«Me lo sono chiesto in continuazione mentre tornavamo a casa», ammise Aristotele. «Se fosse falsa, lo scopo sarebbe l’estorsione. E in quel caso, con ogni probabilità, la persona esigerebbe subito del denaro. Spererebbe senz’altro che lo sgomento spingesse chi la legge a versare subito oro o argento per scongiurare la minaccia. Questa lettera chiede molto di più: chiede al destinatario di andare in Sicilia e cercare una persona ancora ignota».

«C’è sotto qualcosa di pericoloso», dissi. «E non solo in Sicilia. Il messaggero è stato ucciso ad Atene! Nel cuore dell’Accademia! Sulla soglia di Senocrate».

«Sì. E ucciso da chi? Be’, è una questione che Senocrate non mi è parso intenzionato a sollevare. Io la trovo estremamente interessante. È possibile che l’assassino sia lo schiavo del suo padrone? O potrebbe addirittura essere un membro dell’Accademia?».

«O un inseguitore forestiero che si è dileguato?», aggiunsi.

«Mmmh, sì. Si è “dileguato”, o magari ha cambiato aspetto. Ci sono parecchi dettagli importanti che riguardano i due siciliani, Stefanos». Egli si chinò in avanti. «Ricordi, Senocrate ha tolto l’anello all’uomo assassinato. Io non ho potuto oppormi. Non è insolito togliere subito dei gioielli ad un cadavere. Per evitare che un oggetto prezioso o un cimelio di famiglia venga rubato, e passi, invece, all’erede legittimo. Senocrate non ha fatto commenti su alcun fenomeno legato a questa precauzione. Io, invece, ho notato qualcosa. Sotto l’anello la pelle non era più chiara, come di solito accade quando un tale ornamento viene indossato tutti i giorni. La pelle del morto era abbronzata dal sole. Le sue mani non erano irruvidite o incallite, ma erano state esposte all’aria aperta. Ora, descrivimi l’altro siciliano».

«Lo schiavo? Lo schiavo Eumeo era – è – più vecchio del defunto», dissi un po’ incerto, richiamando alla mente la sua immagine. «Sembra di mezza età. Più robusto del suo padrone, ma in realtà, ora che ci penso, il presunto padrone Stoico non era più alto. Eumeo ha molti meno capelli, è quasi calvo. E ha la carnagione chiara, non tanto sul viso, ma sulle braccia e addirittura sulle mani. Le mani erano pulite, e le unghie in buono stato».

«“Più robusto”. Da cosa lo deduci?».

«Sotto la tunica, molto ruvida e ampia, la pancia era prominente, le spalle piuttosto larghe. Si direbbe un uomo robusto di mezza età».

«Si direbbe di sì, già. Ma non sempre le nostre supposizioni sono esatte. Abbiamo due uomini più o meno della stessa altezza, e probabilmente dalla corporatura simile. Un uomo vivo quasi sempre sembra più leggero di un cadavere. Un uomo privo di vita è vergognosamente ingombrante, e noi abbiamo dovuto spostarlo. Un peso morto, quando smette di respirare. L’uomo che si fa chiamare “Eumeo”, in effetti, potrebbe essere un po’ più pesante, ma non di molto. Certo, d’ora in poi sarà più forte e robusto d’una carcassa avvizzita».

«Che si fa chiamare...? Ah!». Un’improvvisa illuminazione. «Ma certo. Tu pensi che non possiamo credere alla versione dello schiavo riguardo all’identità di entrambi o a quanto è accaduto».

«Come sappiamo che era lui “lo schiavo”?».

«Era sporco, rozzo e analfabeta».

«Ma questi attributi sono molto diffusi. E, in effetti, fingere d’essere analfabeti è quasi altrettanto facile che esserlo. Con un po’ di pratica. L’essere “sporco” è solo una condizione temporanea. Tu e io siamo stati sporchi».

«Ora che ci penso, l’uomo di nome Eumeo era alquanto sicuro di sé».

«Esatto. L’uomo di nome “Eumeo” aveva il controllo della situazione. C’è quasi della sfacciataggine nel suo nome, quello dello schiavo di Odisseo, il buon guardiano di porci. Magari si è anche divertito a scegliersi questo falso soprannome. Il suo cosiddetto “padrone”, il cadavere che siamo stati indotti a chiamare “Stoico”, portava dei gioielli cui forse non era abituato. Però, l’uomo assassinato era abituato ad esporsi al sole e al vento. È – o era – snello e giovane, sarebbe stato un messaggero agile. La mia teoria è che i due uomini si siano scambiati gli abiti. Magari persino i nomi. È possibile che “Eumeo” sia in realtà “Stoico”?».

«Forse l’uomo più anziano lo ha drogato e lo ha costretto a... No, non avrebbe funzionato. Il più giovane doveva essere in grado di camminare e parlare, prima d’essere ucciso».

«Sì. Ha scambiato i propri vestiti volontariamente, ma ignaro del pericolo. E chi è stato ad ucciderlo?».

«Suppongo che la risposta più azzeccata sarebbe il suo compatriota siciliano, il suo padrone travestito da schiavo».

«Un’ipotesi valida. Il giovanotto potrebbe essere stato ucciso perché l’assassino si è reso conto che sapeva troppo. Magari sapeva troppo, diciamo, sull’autore di quella lettera? Sentendola leggere ad alta voce, “Stoico” avrebbe potuto fare dei commenti su chi l’ha scritta, sul misterioso custode di un tesoro di segreti. Non sto dicendo d’essere certo che quest’Eumeo sia l’assassino, ma è molto probabile che avesse motivi sufficienti per sbarazzarsi del suo compagno, rispetto a chiunque altro viva o lavori all’Accademia. Anche se dobbiamo tenere la mente aperta a questa possibilità. Eumeo può aver avuto dei complici».

«Non abbiamo mai trovato l’arma», osservai.

«Sì. Ho cercato di convincere l’uomo più anziano a cambiarsi d’abito, ma Senocrate si è messo in mezzo. Però, abbiamo l’anello indossato dal più giovane, se riusciamo a persuadere Senocrate a mollarlo».

«Questa è gente pericolosa!», esclamai. «Sono contento che non intendi nemmeno avvicinarti alla Sicilia».

Il giorno dopo mi trovavo anch’io al Liceo; c’ero andato, insieme a mio fratello minore Teodoro, per assistere a una lezione di Teofrastos su alcune piante della nostra regione e su altre piante esotiche. Teodoro era molto sveglio e curioso. Speravo costantemente di destare il suo interesse per qualche disciplina del Liceo, ma lui era molto più attratto dalla carriera militare. Era ancora troppo giovane, ma poiché diceva speranzoso «Non manca molto ormai!», acconsentì ad ascoltare questa lezione perché, a suo dire, se fosse partito come soldato per luoghi stranieri, sarebbe stato un bene sapere qualcosa delle piante locali, per nascondervisi in mezzo, o usarle come medicamenti.

Dopo la spiegazione di Teofrastos – chiara a precisa benché poco eccitante – Teodoro se ne andò in compagnia di certi suoi amici, e io raggiunsi Aristotele. Il Maestro aveva cercato Teofrastos, il suo braccio destro, e un altro collega, il saggio e arguto Eudemos di Rodi. Aristotele, però, aveva un altro compagno non tanto facile da scrollarsi di dosso, il giovane allampanato di nome Eusebio.

«Bella lezione, vero?», dissi senza convinzione, tanto per dire qualcosa.

«Suppongo di sì, a modo suo», disse Eusebio scandendo bene le parole, ma con voce un po’ monotona. «Io, però, non considero quel genere di nozioni vera filosofia, utile per quanto sia. Le piante... semplice materia! Io preferirei discutere di Bellezza e Verità».

«Le tre cose non sono del tutto separate», osservò Aristotele con una piccola risata. «Dobbiamo interessarci a ciò che esiste nel mondo, mentre ci sforziamo di raggiungere la bellezza suprema. Vivendo a contatto col mondo, comprendiamo cosa sia vero e cosa no. Ora, ragazzo mio, ho bisogno di parlare un po’ con i miei colleghi qui, nella mia stanza privata. Ma tu di certo staresti meglio all’aperto, in una così bella giornata».

Mi venne in mente che al ragazzo mancava suo padre, e che cercava di trovare un sostituto in Aristotele. Finalmente se ne andò, chiudendo la porta alle sue spalle. Aristotele si voltò verso di noi.

«Bene», esordì, «ecco una bella situazione! Stefanos è già al corrente, era presente. Ma non gli dispiacerà se espongo di nuovo i fatti». E raccontò a Teofrastos ed Eudemos tutto ciò che era accaduto a casa di Senocrate, un resoconto che fui in grado di confermare.

«Voglio che promettiate di non raccontare questa storia a nessun altro membro del Liceo», raccomandò Aristotele. Egli illustrò con enfasi la minaccia alla reputazione di Platone. «Spaventoso!», esclamò Teofrastos. Il viso di Eudemos assunse un’espressione alquanto seria.

«Riflettiamo razionalmente e con calma», implorò Teofrastos. «Per tornare alle cause prime e all’origine dei fatti, cosa sappiamo esattamente dei problemi di Platone con la Sicilia? Da tanto tempo gira voce che fu venduto come schiavo. Magari è un’invenzione? O si basa solo su delle chiacchiere?».

«Io ci credo», disse Aristotele. «Io credo davvero che Platone sia stato venduto come schiavo per volontà e ordine di Dionisio il Vecchio. Lo stesso Platone lo raccontò personalmente, ma solo una o due volte. Il ricordo gli aveva lasciato una ferita profonda, immagino. Quel sovrano, Dionisio I, all’inizio fu enormemente affascinato da Platone. Gli elargì un’accoglienza regale e magnifici doni. Tuttavia, benché prima gli avesse riservato un trattamento principesco, man mano divenne molto insofferente nei suoi confronti. “Nessuno mi libererà di questo esasperante filosofo?”. Fu questo, a quanto pare, ciò che chiese il tiranno. Uno dei suoi cortigiani suggerì al re di deportare il loquace ateniese. E questo fu ciò che egli decise di fare...».

«E lo rispedì a Taras, immagino. Hai detto che il filosofo era giunto presso Dionisio dall’Italia».

«Dionisio non lo rispedì in Italia. No, lo fece portare su un’apposita nave che sarebbe dovuta partire direttamente per il Pireo. E poi, quando Platone si stava avvicinando all’Attica, la nave fu catturata. Gli legarono le mani e fu condotto ad Egina».

«Dev’essere accaduto nel periodo in cui quell’isola era in guerra con Atene», osservò Teofrastos.

«Esatto. Egina aveva bisogno di denaro. Catturare prigionieri in cambio di un riscatto era un buon espediente. Malgrado le sue proteste, Platone fu portato lì come prigioniero di guerra e venduto come schiavo. Platone parlò di questo evento con enorme disgusto, con orrore. Gli aveva lasciato un amaro ricordo. In verità, questa disavventura non durò a lungo. Fu messo in mostra sulla piazza del mercato, e per un enorme colpo di fortuna un vecchio studente e amico di nome Anniceride lo vide là».

«E questo Anniceride lo riscattò?».

«Sì, per venti mine. E così riuscì a tornare in patria».

«Una simile disavventura potrebbe accadere a chiunque viaggi per mare. La guerra e i pirati possono causare dei guai», aggiunsi. «Platone sperimentò un’enorme sfortuna seguita da una grande fortuna».

«Lui non la pensava così», dichiarò Aristotele. «Non credeva che la sua cattura fosse stata un caso. Lui sapeva – o era più che convinto – che fosse stata causata da un piano premeditato. Macchinazioni di Dionisio. Perché gli altri uomini a bordo della nave, inclusi il capitano e l’equipaggio, non furono affatto venduti come schiavi. Dopo essere stati nutriti e alloggiati, ebbero il permesso di partire. E non raggiunsero il Pireo, dove Platone in seguito cercò di rintracciare quell’equipaggio. Questi uomini tornarono in Occidente».

«Che fortuna per Platone aver incontrato un vecchio studente e amico facoltoso!».

«Sì», concordò Teofrastos. «È curioso, Anniceride era completamente diverso da Platone. Era ricco e incline all’ostentazione. Appassionato di cavalli e corse con i carri. Sfoggiava la sua abilità di auriga con Platone, così dicono. Correva intorno all’Accademia come se fosse alle Olimpiadi! Platone gli diceva di non sprecare tempo con quegli stupidi passatempi».

«Quest’episodio nell’Agorà di Egina stuzzica molto il mio interesse», disse Aristotele. «Tanto per cominciare, dimostra che cose importanti possono avvenire in maniera del tutto inattesa e involontaria. Anniceride si recò ad Egina. Ma non esiste alcuna prova che vi si recò – o vi fu mandato – allo scopo di salvare Platone. Fu un caso. Anniceride arrivò, vide Platone, lo riscattò e passò oltre. Molte vicende umane, anche le più importanti, non sono il risultato di un saggio proposito».

«E in questo caso», aggiunse Teofrastos, «il vero piano, il brillante per quanto crudele proposito di Dionisio fu sventato, sebbene solo in parte, da eventi casuali».

«Un po’ come in una commedia», osservò Aristotele, «ma non ditelo a Menandro!».

«No», concordò Teofrastos, «Menandro farebbe apparire il povero Platone in una farsa. Dionisio I non scriveva anche lui opere teatrali?».

«Sì, si distinse come pessimo poeta e aspirante drammaturgo», rise Aristotele. «È così che morì, sapete? Alla fine scrisse un’opera che fu effettivamente messa in scena e gareggiò durante le festività invernali, le Lenee. La sua opera, Eracle liberato, vinse il primo premio! Quando la notizia giunse a Siracusa, il tiranno fu così euforico, festeggiò bevendo così sfrenatamente da cadere in terra morto!».

«Questa sì che è una bella storia». Risi di gusto. «Gli dèi sono giusti».

«Qualche volta», concordò Aristotele.

«E qualche volta no», dichiarò Teofrastos.