Ore 13,38
Robert Armstrong e un sergente della polizia in uniforme scesero dalla macchina e si incamminarono tra la folla, nelle fauci della Princes Arcade, con le gioiellerie e i negozi di oggetti da collezione, di macchine fotografiche e di radio, pieno dei più recenti prodigi dell’elettronica, che occupavano il piano terreno dell’antiquato palazzone di Central. Si diressero verso gli ascensori, mescolandosi alla gente in attesa. Finalmente riuscirono a infilarsi in un ascensore. L’atmosfera era pesante, fetida e nervosa. I cinesi li guardavano di sottecchi, a disagio.
Al settimo piano, Armstrong e il sergente uscirono. Il corridoio era stretto e sporco, fiancheggiato ai due lati dalle porte degli uffici. Armstrong si fermò un momento a consultare il tabellone. La stanza 720 era indicata come “Ping-sing Wah Developments”, la 721 come “Asian and China Shipping”. Si avviò a passo pesante lungo il corridoio, con il sergente Yat al fianco.
Quando svoltarono l’angolo, un cinese di mezza età, in camicia bianca e calzoni neri, stava uscendo dalla stanza 720. Li vide, impallidì, e rientrò prontamente. Quando Armstrong arrivò alla porta, si aspettava che fosse chiusa a chiave: ma non lo era. La spalancò appena in tempo per vedere l’uomo dalla camicia bianca che scompariva dalla porta posteriore, mentre un altro lo seguiva con la stessa precipitazione. La porta sbatté.
Armstrong sospirò. C’erano due segretarie sciupate nell’ufficio in disordine, che comprendeva tre stanze stipate di mobili. Lo guardavano sbalordite. Una era rimasta con i bastoncini a mezz’aria, mentre mangiava un piatto di pollo e spaghettini di farina di riso. Gli spaghetti scivolarono dai bastoncini e ricaddero nel brodo.
“Buon pomeriggio” disse Armstrong.
Le due donne lo guardarono a bocca aperta, poi guardarono il sergente e tornarono a fissare lui.
“Dove sono il signor Lim, il signor Tak e il signor Lo, per favore?”
Una delle ragazze alzò le spalle e l’altra, indifferente, ricominciò a mangiare. Rumorosamente. L’ufficio era sporco e in disordine. C’erano due telefoni, carte sparse dovunque, bicchieri di plastica, piatti e ciotole sporchi e bastoncini usati. Una teiera con relative tazze. I bidoni dell’immondizia erano pieni.
Armstrong tirò fuori il mandato di perquisizione e lo mostrò.
Le ragazze lo fissarono.
Irritato, Armstrong chiese in tono aspro: “Parlate inglese?”
Le ragazze sussultarono. “Sì, signore” dissero all’unisono.
“Bene. Date i vostri nomi al sergente e rispondete alle sue domande. Il…” In quel momento la porta in fondo si riaprì e i due uomini vennero spinti avanti dai due poliziotti in uniforme che li avevano aspettati, in agguato. “Ah, bene. Ottimamente. Grazie, caporale. Dunque, voi due dove stavate andando?”
I due uomini cominciarono subito a protestare la loro innocenza, in fluente cantonese.
“Silenzio!” ringhiò Armstrong. I due tacquero. “Datemi i vostri nomi!” I due lo fissarono. In cantonese, disse: “Datemi i vostri nomi e non azzardatevi a mentire o mi arrabbierò sul serio.”
“Lui è Tak Chou-lan” disse quello dai grossi denti, indicando l’altro.
“E lei come si chiama?”
“Ehm… Lo Tup-sop, signore. Ma non ho fatto nien…”
“Lo Tup-sop? Non Lo Tup-lin?”
“Oh, no, signor sovrintendente, quello è mio fratello.”
“Dov’è?”
L’uomo dai denti di coniglio alzò le spalle. “Non lo so. La prego, che co…”
“Dove stavate andando così di fretta, Lo Denti di Coniglio?”
“Mi ero ricordato di un appuntamento, signore. Oh, era importantissimo. È urgente, e ci rimetterò una fortuna, signore, se non vado immediatamente. Per piacere, adesso posso andare, onorevole si…”
“No! Ecco il mandato di perquisizione. Controlleremo e porteremo via tutti i documenti che…”
I due uomini cominciarono a protestare vivacemente. Ancora una volta, Armstrong li zittì. “Volete che vi portiamo subito al confine?” I due impallidirono e scossero la testa. “Bene. Dunque, dov’è Thomas K.K. Lim?” Nessuno dei due rispose, e Armstrong puntò il dito verso il più giovane. “Lei, signor Lo Denti di Coniglio! Dov’è Thomas K.K. Lim?”
“In Sud America, signore” disse nervosamente Lo.
“Dove?”
“Non lo so, signore. Abbiamo solo l’ufficio in comune. Quella è la sua fottuta scrivania.” Lo Denti di Coniglio indicò nervosamente l’angolo. C’erano una scrivania in disordine, uno schedario e un telefono. “Non ho fatto niente di male, signore. Lim il Forestiero è uno straniero della Montagna d’Oro. Il quarto cugino di Tak, qui, gli affitta solo un po’ di posto, signore. Lim il Forestiero va e viene come gli pare e non ha niente da spartire con me. È un criminale? Se è successo qualcosa, io non ne so niente!”
“E allora cosa ne sapete del furto dei fondi del programma CARE?”
“Eh?” I due lo guardarono a bocca aperta.
“Gli informatori ci hanno dato le prove che state tutti rubando il denaro destinato a donne e bambini che muoiono di fame!”
I due ricominciarono a protestare la loro innocenza.
“Basta! Deciderà il giudice! Andrete al comando centrale e farete le vostre deposizioni.” Poi Armstrong passò di nuovo all’inglese. “Sergente, li porti al comando. Caporale, noi…”
“Onorevole signore” cominciò Lo Denti di Coniglio in un inglese nervoso ed esitante. “Se posso parlare, in ufficio, prego?” Indicò l’altro ufficio, altrettanto ingombro e disordinato.
“Sta bene.”
Armstrong seguì Lo. L’uomo chiuse la porta, innervosito, e cominciò a parlare in cantonese, in fretta e sottovoce. “Non sono a conoscenza di alcuna irregolarità, signore. Se c’è qualcosa di losco, allora sono quegli altri due fornicatori. Io sono soltanto un onesto uomo d’affari che vuole guadagnare denaro e mandare i suoi figli all’università in America e…”
“Sì. Certo. Cosa voleva dirmi in privato prima di andare al comando centrale della polizia?”
L’uomo sorrise nervosamente, andò alla scrivania e girò la chiave di un cassetto. “Se qualcuno è colpevole non sono io, signore. Non so niente di niente.” Aprì il cassetto, pieno di banconote rosse da 100 dollari, molto sciupate, divise in pacchetti da 1000 dollari. “Se mi lascia andare, signore…” Alzò la testa con un sorriso, tastando le banconote.
Armstrong sferrò fulmineamente un calcio e il cassetto si chiuse di colpo, imprigionando le punte delle dita di Lo, che lanciò un ululato di dolore, e poi spalancò il cassetto con la mano indenne. “Oh, oh, oh, le mie fott…”
Armstrong si accostò al cinese impietrito. “Stia a sentire, escremento di carne di cane, è vietato dalla legge cercare di corrompere un poliziotto, e se va a raccontare che si è schiacciato le dita per colpa mia, ridurrò personalmente il suo fottuto Sacco Segreto in tanta carne trita!”
Si appoggiò alla scrivania, con il cuore che martellava, la nausea che gli stringeva la gola, infuriato dalla tentazione e dalla vista di tutto quel denaro. Come sarebbe stato facile prenderlo e saldare i suoi debiti e averne ancora a sufficienza per giocare in Borsa e alle corse, e poi lasciare Hong Kong prima che fosse troppo tardi…
Così facile. Sarebbe tanto più facile prenderlo che resistere… questa volta e tutte le altre mille volte. Devono esserci 30 o 40.000 dollari solo in quel cassetto. E se c’è un cassetto pieno, ce ne saranno anche altri, e se faccio pressione su questo bastardo sputerà anche dieci volte di più.
Bruscamente, allungò il braccio e afferrò la mano dell’uomo. Quello gridò di nuovo. Un polpastrello era schiacciato, e Armstrong pensò che Lo avrebbe perduto un paio di unghie e avrebbe sofferto parecchio, ma tutto sarebbe finito lì. Era infuriato con se stesso per aver perso la calma, ma era stanco, e sapeva che non si trattava soltanto della stanchezza. “Che cosa sa di Tsu-yan?”
“Cosa? Io? Niente. Tsu-yan, chi?”
Armstrong l’afferrò e lo scosse. “Tsu-yan! Tsu-yan, il trafficante d’armi!”
“Niente, signore!”
“Bugiardo! Tsu-yan che va a trovare il signor Ng nell’ufficio accanto!”
“Tsu-yan? Oh, lui? Trafficante d’armi? Non sapevo che fosse un trafficante d’armi! Ho sempre creduto che fosse un uomo d’affari. È un altro settentrionale come Ng il Fotografo e…”
“Chi?”
“Ng il Fotografo, signore. Vee Cee Ng della porta accanto. Lui e questo Tsu-yan non vengono mai qui e non ci rivolgono neanche la parola… Oh, ho bisogno di un dottore… oh, la mia mano…”
“Dov’è Tsu-yan, adesso?”
“Non lo so, signore… oh, la mia fottuta mano, oh, oh, oh… giuro per tutti gli dei che non lo conosco… oh, oh, oh…”
Irritato, Armstrong lo spinse su una sedia e spalancò la porta. I tre poliziotti e le due segretarie lo guardarono in silenzio. “Sergente, porti questo individuo al comando e lo denunci per aver cercato di corrompere un poliziotto. Guardi qui…” Lo chiamò con un cenno e gli indicò il cassetto.
Il sergente Yat sgranò gli occhi. “Dew neh loh moh!”
“Lo conti e faccia firmare ai due uomini l’ammontare esatto, lo porti al comando insieme a loro e lo depositi.”
“Sì, signore.”
“Caporale, comincia a frugare negli schedari. Io vado nell’ufficio accanto. Torno fra poco.”
“Sì, signore.”
Armstrong uscì. Sapeva che quel denaro sarebbe stato contato rapidamente, e così pure tutto quello che c’era negli uffici – se quel cassetto era pieno, doveva essercene ancora – e poi la somma da depositare ufficialmente sarebbe stata stabilita in fretta tra il sergente Yat, Lo e Tak, e il resto se lo sarebbero divisi tra loro. Lo e Tak avrebbero creduto che lui si sarebbe preso una grossa fetta e i suoi uomini l’avrebbero giudicato pazzo perché non la prendeva. Non aveva importanza. Quello era denaro rubato e il sergente Yat e i suoi uomini erano tutti bravi poliziotti e la paga era del tutto inadeguata alle loro responsabilità. Un po’ di h’eung yau non avrebbe fatto male, per loro sarebbe stata tanta manna.
No?
In Cina bisogna essere pratici, si disse rabbiosamente mentre bussava alla porta 721 ed entrava. Una graziosa segretaria alzò la testa dal pranzo… una ciotola di riso bianco con pezzetti di maiale arrosto e broccoli fumanti.
“Buon pomeriggio.” Armstrong mostrò il documento d’identificazione. “Vorrei vedere il signor Vee Cee Ng.”
“Mi dispiace, signore” disse la ragazza in buon inglese, con aria inespressiva. “È fuori. È andato a pranzo.”
“Dove?”
“Al suo club, credo. Non… oggi non tornerà fino alle cinque.”
“Quale club?”
La ragazza glielo disse. Armstrong non l’aveva mai sentito nominare, ma questo non voleva dir nulla, perché c’erano centinaia di club privati cinesi dove si pranzava, si cenava e si giocava a mah-jong.
“Lei come si chiama?”
“Virginia Tong. Signore” soggiunse la ragazza, come per un ripensamento.
“Le dispiace se do un’occhiata in giro?” Armstrong notò un lampo di nervosismo negli occhi della ragazza. “Ecco il mandato di perquisizione.”
Lei lo prese, lo lesse, e lui pensò: promossa a pieni voti, cara signorina. “Crede di poter attendere fino alle cinque?” gli chiese lei.
“Darò un’occhiata subito.”
La ragazza alzò le spalle, si alzò e aprì l’ufficio interno. Era piccolo, e non c’erano altro che scrivanie in disordine, telefoni, schedari, manifesti e tabelle dei movimenti delle navi. C’erano due porte interne e un’uscita posteriore. Armstrong aprì una porta, dalla parte del 720, ma trovò solo una latrina umida e fetida e un lavabo sporco. La porta posteriore era chiusa a catenaccio. L’aprì e uscì sul lurido pianerottolo delle scale di servizio che servivano anche come uscita di sicurezza in caso d’incendio e di altre emergenze. Tirò di nuovo il catenaccio, mentre Virginia Tong continuava a tenerlo d’occhio. L’ultima porta in fondo era chiusa a chiave.
“Può aprirla, per favore?”
“L’unica chiave l’ha il signor Vee Cee, signore.”
Armstrong sospirò. “Ho un mandato di perquisizione, signorina Tong, e il diritto di sfondare a calci la porta, se è necessario.”
Lei si limitò a fissarlo, perciò Armstrong alzò le spalle, si scostò e si accinse a prendere a calci la porta.
“Un… un momento, signore” balbettò la ragazza. “Vedrò… vedrò se… se ha lasciato la chiave prima di uscire.”
“Bene. Grazie.” Armstrong la guardò aprire un cassetto per simulare una ricerca, poi un altro cassetto e un altro ancora. Infine, consapevole della sua impazienza, la ragazza trovò una chiave sotto una cassetta portadenaro. “Ah, eccola!” esclamò come se fosse avvenuto un miracolo. Armstrong notò che stava sudando. Bene, pensò. Lei aprì la porta e si scostò. La porta dava direttamente su un’altra. Armstrong l’aprì e si lasciò sfuggire un fischio. La stanza era grande, lussuosa, con folti tappeti, eleganti divani in pelle e mobili di legno di rosa e splendidi quadri. Entrò. Virginia Tong lo osservava dalla soglia. La splendida scrivania d’antiquariato, in legno di rosa con il piano di cuoio, era spoglia e pulita e lucida, e sopra c’erano un vaso di fiori e alcune fotografie in cornice, tutte di un cinese raggiante che conduceva per le briglie un cavallo da corsa inghirlandato, e un’altra dello stesso cinese in smoking che stringeva la mano al governatore, con Dunross lì accanto.
“Quello è il signor Ng?”
“Sì, signore.”
Su un lato c’erano un hi-fi di ottima marca, e un alto mobile-bar. E c’era anche un’altra porta. Armstrong spinse l’uscio socchiuso. Una stanza da letto elegante, molto femminile, con un enorme letto matrimoniale sfatto, specchi sul soffitto e accanto un bagno degno di una rivista d’arredamento con profumi, lozioni dopobarba, luccicante rubinetteria moderna e molti secchi d’acqua.
“Interessante” disse, e guardò la ragazza.
Lei non disse nulla. Attendeva.
Armstrong notò che portava calze di nailon, ed era molto elegante, con le unghie e i capelli ben curati. Scommetto che è un drago, e che costa cara. Le voltò le spalle e si guardò intorno, pensieroso. Evidentemente, l’appartamentino era stato ricavato dagli uffici adiacenti. Bene, si disse con un po’ d’invidia, se sei ricco e vuoi un nido privato e segreto annesso al tuo ufficio per spassartela il pomeriggio, non c’è nessuna legge che lo vieti. Nessuna. E nessuna legge vieta d’avere una segretaria carina. Fortunato bastardo, anche a me non dispiacerebbe avere un posticino così.
Aprì distrattamente un cassetto della scrivania. Era vuoto. Tutti i cassetti erano vuoti. Poi andò a frugare i cassetti della camera da letto, ma non trovò niente d’interessante. In un armadio c’erano una macchina fotografica d’ottima marca e l’attrezzatura portatile per l’illuminazione, ma niente di sospetto.
Tornò nell’ufficio, convinto di non essersi lasciato sfuggire nulla. La ragazza continuava a fissarlo e, anche se cercava di nasconderlo, Armstrong la sentiva innervosita.
È comprensibile, si disse. Se fossi in lei e il mio principale fosse fuori e un fetente quai loh venisse a curiosare, sarei nervoso anch’io. Non c’è niente di male, ad avere un nido privato come questo. Tanti ricchi li hanno, qui a Hong Kong. Il suo sguardo fu attratto dal bar in legno di rosa. La chiave nella serratura lo tentò. L’aprì. Niente di fuori dell’ordinario. Poi i suoi occhi acuti ed esperti notarono lo strano spessore degli sportelli. Li esaminò un momento e aprì i doppi fondi. E restò a bocca aperta.
Le pareti interne del mobile-bar erano coperte da dozzine di fotografie di Porte di Giada in tutto il loro fulgore. Ogni foto era incorniciata e contrassegnata da un cartellino dattiloscritto con un nome e una data. Involontariamente, Armstrong si lasciò sfuggire una risata d’imbarazzo, poi si voltò. Virginia Tong era sparita. Diede una rapida occhiata ai nomi. Quello di Virginia Tong era il terzultimo.
Armstrong dominò a stento un altro parossismo d’ilarità. Scosse la testa. Cosa non farebbero certuni per divertirsi… e certe signore per incassare denaro… Ng il Fotografo, eh? Dunque era così che s’era guadagnato il soprannome.
Superato il trauma iniziale, studiò le fotografie. Erano state scattate tutte con lo stesso obiettivo e dalla stessa distanza.
Buon Dio, pensò dopo un minuto, sbalordito, c’è davvero parecchia differenza tra… Voglio dire, se riesci a dimenticare quello che stai guardando e ti limiti a guardare e basta, ecco, c’è una differenza fantastica nella forma e nelle dimensioni del tutto, la posizione e la protuberanza della Perla sul Gradino, la qualità e la quantità del pelo pubico e… ayeeyah, quella è bat jam gai. Lesse il nome. Mona Leung… dove l’ho già sentito? Che strano… di solito, i cinesi ritengono che la mancanza del pelo pubico porti sfortuna. Ma perché… oh, mio Dio! Fissò il cartellino accanto, per essere ben sicuro. Nessun errore. Venus Poon. Ayeeyah, pensò, euforico, dunque questa è la sua, ecco com’è veramente, la stellina della televisione che ogni giorno irradia quella sua dolce, virginale innocenza!
Si concentrò su di lei, eccitato. Credo che se confronti la sua, poniamo, con quella di Virginia Tong, ecco, possiede una certa delicatezza. Sì, ma se vuoi la mia opinione ben meditata, preferirei ancora il mistero, preferirei non averle viste. Proprio nessuna.
Oziosamente, passò gli occhi da un nome all’altro. “Diavolo” disse, riconoscendone uno: Elizabeth Mithy. Era stata segretaria alla Struan: una di quelle giramondo arrivate dai piccoli centri dell’Australia e della Nuova Zelanda, ragazze che arrivavano a Hong Kong per qualche settimana e poi restavano per mesi, magari per anni, e s’impiegavano qua e là fino a che si sposavano o sparivano per sempre. Che mi venga un colpo. Liz Mithy!
Armstrong si sforzava di essere molto spassionato, ma non poteva fare a meno di paragonare caucasiche e cinesi, e non trovava nessuna differenza. Grazie a Dio, si disse ridacchiando. Comunque, era contento che le fotografie fossero in bianco e nero e non a colori.
“Bene” disse a voce alta, ancora imbarazzatissimo, “nessuna legge vieta di fare fotografie, a quanto ne so, e di metterle in un mobile bar. Le signore devono aver collaborato spontaneamente…” Borbottò, divertito e nello stesso tempo disgustato. Mi venga un accidente se capirò mai i cinesi! “Liz Mithy, eh?” mormorò. L’aveva conosciuta di vista, quando era nella colonia, sapeva che non aveva inibizioni, ma cosa le era venuto in mente di posare per Ng? Se lo sapesse il suo vecchio, gli prenderebbe un colpo. Grazie a Dio non abbiamo figli, Mary e io.
Sii sincero, daresti chissà cosa per avere figli e figlie, ma non puoi averne, o almeno Mary non può averne, così hanno detto i medici… e quindi niente da fare.
Con uno sforzo, Armstrong accantonò quella maledizione perenne, richiuse il bar e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Nell’antiufficio, Virginia Tong si lucidava le unghie. Era chiaramente furiosa.
“Può chiamarmi il signor Ng al telefono, per favore?”
“No, fino alle quattro” disse lei imbronciata, senza guardarlo.
“Allora, per cortesia, mi chiami il signor Tsu-yan” le disse Armstrong, sparando alla cieca.
Senza cercare il numero. Virginia Tong lo compose, attese impaziente, chiacchierò per un momento in cantonese e sbatté il ricevitore sulla forcella. “È via. È fuori città e in ufficio non sanno dove sia.”
“Quando l’ha visto l’ultima volta?”
“Tre o quattro giorni fa.” Irritata, la ragazza aprì l’agenda degli appuntamenti e controllò. “Venerdì.”
“Posso dare un’occhiata, per favore?”
Lei esitò, scrollò le spalle e gli porse l’agenda, poi riprese a lucidarsi le unghie.
Armstrong passò rapidamente in rassegna le settimane e i mesi. C’erano parecchi nomi che conosceva: Richard Kwang, Jason Plumm, Dunross – Dunross figurava parecchie volte – Thomas K.K. Lim – il misterioso cinese americano dell’ufficio accanto – Johnjohn della Victoria Bank, Donald McBride, Mata, diverse volte. E chi è Mata? si chiese. Non aveva mai sentito quel nome. Stava per restituire l’agenda, ma poi girò qualche pagina. “Sabato ore 10,00 – V. Banastasio.” Il cuore gli diede un tuffo. Sabato prossimo.
Non disse niente. Depose l’agenda sulla scrivania e si appoggiò a uno degli schedari, perduto nei suoi pensieri. Virginia Tong non gli badò. La porta si aprì.
“Mi scusi, signore, al telefono!” disse il sergente Yat. Aveva un’aria soddisfatta, e Armstrong intuì che i negoziati dovevano essere stati fruttuosi. Gli sarebbe piaciuto sapere quanto, esattamente: ma era una questione di faccia, e poi, se l’avesse saputo, sarebbe stato costretto ad agire, in un modo o nell’altro.
“Bene, sergente, aspetti qui fino al mio ritorno” ordinò. Voleva essere sicuro che non venissero fatte telefonate segrete. Quando lui uscì Virginia Tong non alzò la testa.
Nell’altro ufficio Lo Denti di Coniglio stava ancora gemendo, e si stringeva la mano ferita, e l’altro, Tak Lingua Lunga, ostentava noncuranza, sfogliava documenti, inveiva a gran voce contro l’inefficienza della sua segretaria. Quando Armstrong entrò, i due uomini ricominciarono a protestare la loro innocenza, e Lo gemette con crescente vigore.
“Silenzio! Perché si è schiacciato le dita nel cassetto?” chiese Armstrong e soggiunse, senza attendere la risposta: “Chi cerca di corrompere i poliziotti onesti merita la deportazione immediata.” Nel silenzio inorridito, prese il ricevitore. “Qui Armstrong.”
“Salve, Robert, sono Don, Don Smyth di Aberdeen…”
“Oh, salve!” Armstrong era sbalordito. Non si aspettava che il Serpente lo chiamasse; ma usò un tono educato, sebbene lo odiasse e odiasse quello che l’altro era sospettato di fare nella sua giurisdizione. Che gli agenti e i sottufficiali cinesi della polizia integrassero i loro proventi con il gioco d’azzardo clandestino, era una cosa. Ma era tutta un’altra faccenda se un ufficiale inglese vendeva la sua influenza, e taglieggiava come un vecchio mandarino. Ma anche se quasi tutti erano convinti che Smyth ci fosse dentro fino al collo, non c’erano prove, non era mai stato colto in flagrante, non era mai stato sottoposto a inchieste. Secondo le voci, era protetto da certi personaggi altolocati, coinvolti insieme a lui. “Cosa c’è?” chiese.
“Credo che abbiamo avuto un colpo di fortuna. Le indagini sul sequestro di John Chen le dirigi tu, vero?”
“Sì.” L’interesse di Armstrong crebbe. La disonestà di Smyth non aveva nulla a che fare con la sua efficienza… Aberdeen aveva la più bassa percentuale di reati dell’intera colonia. “Sì. Cos’hai scoperto?”
Smith gli riferì della vecchia amah, raccontò quello che era accaduto al sergente Mok e a Wu dagli Occhiali, poi aggiunse: “È un giovanotto molto sveglio, quello, Robert. Gli farei una raccomandazione per l’SI, se tu vorrai appoggiarla. Wu ha seguito la vecchia fino al suo lurido covo, e poi ci ha chiamati. Obbedisce anche agli ordini, ed è una cosa rara, di questi tempi. Ho avuto un’ispirazione e gli ho detto di aspettare e di seguirla, se esce. Cosa ne pensi?”
“Una pista da ventiquattro carati!”
“Cosa preferisci che facciamo? Aspettiamo o la fermiamo per interrogarla sul serio?”
“Aspettate. Scommetterei che il Lupo Mannaro non tornerà più, ma vai la pena di attendere fino a domani. Fai sorvegliare la casa e tienimi informato..”
“Bene. Oh, molto bene!”
Armstrong sentì Smyth ridacchiare, e non riuscì a capire perché fosse tanto soddisfatto. Poi ricordò la ricompensa enorme offerta dai Draghi Supremi. “Come va il braccio?”
“È la spalla. È slogata, maledizione, e per giunta ho perso il mio cappello preferito. A parte questo, va tutto bene. Il sergente Mok sta esaminando tutte le fotografie del nostro schedario, e ho fatto preparare un identikit da uno dei miei ragazzi… credo di averlo visto anch’io con i miei occhi, quel tipo. Se è schedato, lo inchioderemo prima di sera.”
“Magnifico. Come vanno le cose laggiù?”
“È tutto sotto controllo, ma va male. La Ho-Pak continua a pagare, ma troppo lentamente… è risaputo che stanno cercando di temporeggiare. Ho sentito dire che è lo stesso in tutta la colonia. Sono spacciati, Robert. Le code continueranno fino a quando non avranno tirato fuori l’ultimo centesimo. Qui c’è anche un assalto agli sportelli della Victoria e la folla non accenna a diminuire…”
Armstrong represse un’esclamazione. “La Victoria?”
“Sì. Stanno distribuendo contanti a sacchi senza avere alcun versamento. Le triadi sono in piena attività… devono incassare percentuali enormi. Abbiamo arrestato otto borsaioli e stroncato più di venti risse. Direi che va molto male.”
“Ma senza dubbio, la Victoria è solida?”
“No, ad Aberdeen no, vecchio mio. Io mi sono fatto ridare tutti i miei contanti. Ho chiuso tutti i conti, ho ritirato fino all’ultimo centesimo. Sono tranquillo. Se fossi in te, farei altrettanto.”
Armstrong si sentì stringere lo stomaco. I risparmi di tutta la sua vita erano depositati presso la Victoria. “La Victoria ne uscirà benissimo. Tutti i fondi del governo sono lì.”
“È vero. Ma lo statuto della banca non assicura che il tuo denaro sia protetto. Bene, devo tornare al lavoro.”
“Sì. Grazie per le informazioni. Mi dispiace per la tua spalla.”
“Ho avuto paura che mi spaccassero la testa. Avevano cominciato a gridare ‘ammazzate i quai loh’. Mi ero visto perduto.”
Armstrong rabbrividì. Fin dai disordini del ’56 aveva l’incubo ricorrente di trovarsi ancora in mezzo a quella folla impazzita e urlante. Era successo a Kowloon. La marmaglia aveva appena rovesciato la macchina con il console svizzero e la moglie a bordo e l’aveva incendiata. Lui e altri uomini della polizia s’erano avventati in mezzo all’orda per salvarli. Quando avevano raggiunto la macchina, il console era già morto, e la giovane moglie stava bruciando. L’avevano tirata fuori, ma ormai tutti gli abiti erano carbonizzati, e la pelle si staccava a brani. E tutto intorno uomini, donne e ragazzi infierivano: “Ammazzate i quai loh…”
Rabbrividì di nuovo. Sentiva ancora il fetore della carne umana carbonizzata. “Cristo, che bastardi!”
“Sì, ma fa parte degli incerti del mestiere. Ti terrò informato. Se quel dannato Lupo Mannaro rimette piede ad Aberdeen, si troverà in una rete da cui non potrà scappare neanche un moscerino.”