59.

Ore 17,35

Casey si mescolò alla folla che passava attraverso i cancelletti girevoli del Golden Ferry. La gente spingeva e si affrettava per prendere il prossimo traghetto. Quando il campanello squillò per annunciare la partenza, i primi si misero a correre. Involontariamente, anche lei affrettò il passo. Quella ressa umana, rumorosa e surriscaldata, la trascinò sul traghetto. Trovò un posto a sedere e guardò il porto, cupamente, chiedendosi se era riuscita a spuntarla come voleva.

“Gesù, Casey!” aveva esclamato Murtagh. “La sede centrale non accetterà neanche tra un milione di anni!”

“Se non accetteranno, perderanno l’occasione più grossa della loro vita. E anche tu. È la tua grande occasione… afferrala! Se aiuterete la Struan, adesso, pensa a quanta ‘faccia’ acquisteranno tutti. Quando Dunross verrà a parlarti…”

“Se verrà!”

“Verrà. Lo convincerò io! E quando verrà, digli che è stata tutta un’idea tua, non mia, e che…”

“Ma, Casey, non è…”

“No. Dev’essere un’idea tua. Io ti appoggerò al 1000 per cento con New York. E quando Dunross verrà da te, digli che anche tu vuoi la posizione di ‘vecchio amico’.”

“Gesù, Casey, avrò già abbastanza difficoltà anche senza dover spiegare a quegli idioti di New York cosa significano ‘faccia’ e ‘vecchio amico’!”

“E allora non spiegarlo. Porta a buon fine il colpo, e sarai il banchiere americano più importante dell’Asia.”

Sì, si disse Casey, stordita dalla speranza, e io avrò tirato fuori Linc dalla trappola di Gornt. So di non sbagliare, sul conto di Gornt.

“Col cavolo, Casey!” aveva detto rabbiosamente Linc quella mattina, ed era stata la prima volta, da quando si conoscevano, che era sbottato in quel modo con lei.

“È evidente. Linc” aveva ribattuto Casey. “Non sto cercando d’intromettermi…”

“Col cavolo!”

“Sei stato tu a parlare di Orlanda, non io! Non fai altro che straparlare di lei… e come cucina bene e come balla bene e come veste bene e che compagnia deliziosa! Io ho semplicemente chiesto se ti eri divertito.”

“Sicuro, ma l’hai chiesto con il tono dell’arpia gelosa, e so che in realtà volevi dire: spero che non ti sia divertito per niente!”

Linc aveva ragione, pensò desolata Casey. Se vuol restare fuori tutta la notte, è affar suo. Avrei dovuto star zitta come le altre volte e non farne una questione. Ma non è come le altre volte. Lui è in pericolo, e non vuol capirlo!

“Santo Dio, Linc, quella donna vuole il tuo denaro e il potere, e nient’altro! Da quanto tempo la conosci? Un paio di giorni. Dove l’hai conosciuta? Nell’ufficio di Gornt! Deve essere la marionetta di Gornt! Quel tipo è furbo come il diavolo! Ho preso qualche informazione, Linc, è lui che le paga l’appartamento e i conti. Lei…”

“Lei mi ha detto tutto quanto, mi ha detto tutto di Gornt, e sono cose che appartengono al passato! Smettila, con Orlanda! Chiaro? Non sparlare più di lei. Capito?”

“La Par-Con non ha ancora optato per la Struan o per Gornt, e quei due sono capaci di ricorrere a qualunque tattica per minarti il terreno sotto i piedi o per accalappiarti e…”

“E accalappiarmi è la parola chiave? Andiamo, Casey, per amor di Dio! Non sei mai stata gelosa prima d’ora… ammettilo, sei furibonda. Lei è tutto quello che un uomo può desiderare e tu…”

Ricordava come lui s’era interrotto, prima di dirlo. Le lacrime le riempirono gli occhi. Ha ragione lui, maledizione! Io non lo sono. Io sono una maledetta macchina per affari, non sono femminile come lei, non sono facile come lei, e non ci tengo a diventare una casalinga, una moglie, non ancora, almeno, e non potrei mai fare quello che ha fatto lei. Orlanda è tenera, docile, dorata, ottima cuoca, dice lui, gran bel corpo, belle gambe, buon gusto, esperta e brava a letto, Gesù, tanto, tanto brava a letto. E senz’altro pensiero in quella testa vuota che accalappiare un marito ricco. La francese aveva ragione: Linc è il bersaglio giusto per ogni spiantata, avida cacciatrice d’oro di Hong Kong, e Orlanda è il fior fiore del mazzo.

Merda!

Ma qualunque cosa dica Linc, ho sempre ragione io, sul conto di lei e sul conto di Gornt.

O no?

Avanti, non ho niente su cui basarmi, solo qualche diceria e la mia intuizione. Orlanda mi ha spaventata. Ho commesso un errore gravissimo, scattando con Linc. Ricorda quello che ha detto, prima di uscire: “D’ora in poi, non impicciarti della mia vita privata!”

Oh, Dio!

Soffiava, un vento piacevole, mentre il traghetto attraversava il porto, con i motori che rombavano, e i sampan e le altre imbarcazioni si scostavano agilmente per lasciarlo passare, e il cielo era coperto, tetro. Casey si asciugò gli occhi, estrasse lo specchietto e si accertò che il mascara non le colasse sulle guance. Un enorme mercantile con le bandiere che svolazzavano, suonò la sirena e passò oltre, maestosamente: ma lei non lo vide, non vide la colossale portaerei nucleare ormeggiata a fianco del molo dell’Ammiragliato, sulla costa di Hong Kong. “Scuotiti” mormorò, avvilita all’immagine nello specchietto. “Gesù, dimostri quarant’anni.”

Le strette panche di legno erano affollate, e lei si spostò, a disagio, incuneata fra gli altri passeggeri, quasi tutti cinesi anche se qua e là c’erano turisti carichi di macchine fotografiche e altri europei. Non c’era una spanna di spazio libero, tutte le scalette erano intasate, i sedili intasati, e già gruppi di passeggeri si accalcavano presso le uscite dei due ponti. I cinesi accanto a lei leggevano il giornale come avrebbero fatto i passeggeri d’una metropolitana, ma di tanto in tanto si raschiavano rumorosamente la gola. Uno sputò. Sulla paratia, proprio di fronte, c’era un grande avviso in cinese e in inglese: VIETATO SPUTARE – 20 DOLLARI DI MULTA. L’uomo si raschiò di nuovo la gola, e Casey avrebbe voluto strappargli il giornale e sbatterglielo in faccia. Le ritornò alla memoria il commento del tai-pan: “Sono centovent’anni e più che cerchiamo di cambiarli, ma i cinesi non cambiano facilmente.”

E non sono soltanto loro, pensò Casey, assalita dal mal di testa. Tutti sono così e tutto è così, in questo mondo fatto per gli uomini. Il tai-pan ha ragione.

E allora, che cosa farò? Con Linc? Devo cambiare le regole del gioco o no?

L’ho già fatto. Gli sono passata sopra la testa, con il mio piano di salvataggio. È la prima volta. Devo dirglielo o no? Dunross non mi tradirà, e Murtagh si prenderà tutto il merito, inevitabilmente, se la First Central acconsentirà. Dovrò dirlo a Linc, prima o poi.

Ma indipendentemente dal fatto che il salvataggio riesca o no, che ne sarà di Linc e di me?

Lo sguardo fisso davanti a sé, senza vedere nulla, cercò di decidere.

Il traghetto si avvicinava ormai al terminal di Kowloon. Altri due, diretti a Hong Kong, si scostarono per lasciarlo passare. Tutti si alzarono e cercarono di guadagnare a spintoni l’uscita. La nave ondeggiò leggermente, sbilanciata. Gesù, pensò inquieta Casey, strappata alle sue fantasticherie, dobbiamo essere almeno cinquecento per ponte. Fece una smorfia quando un’impaziente matrona cinese le passò davanti, pestandole un piede, e si spinse avanti tra la folla. Casey si alzò, con il piede dolorante. Avrebbe voluto dare l’ombrello in testa a quella donna.

“Loro sono diversi, eh?” disse con rabbiosa allegria un americano molto alto che stava dietro di lei.

“Come? Oh, sì, sì… sono molto diversi, certuni.” La folla la circondò, stringendola, soffocandola. All’improvviso, si sentì nauseata, in preda alla claustrofobia. L’americano se ne accorse e le aprì un varco a spallate. Coloro che vennero spinti da parte si arresero di malumore. “Grazie” disse Casey, con sollievo. La nausea era passata. “Sì, grazie.”

“Sono Rosemont. Stanley Rosemont. Si ricorda di me? Ci siamo conosciuti alla festa del tai-pan.”

Casey si girò, stupita. “Oh, mi scusi, credo… chissà dove avevo la testa, non l’avevo rico… mi scusi. Come va?” chiese. Non lo ricordava affatto.

“Sempre allo stesso modo, Casey.” Rosemont la guardò. “Ha l’aria di non sentirsi troppo bene, o mi sbaglio?” chiese gentilmente.

“Oh, sto bene, Sicuro, benissimo.” Casey girò la testa, irritata perché Rosemont se n’era accorto. A prua e a poppa, i marinai stavano lanciando le gomene che venivano prontamente afferrate e fatte passare intorno alle bitte. Le robuste gomene stridettero sotto tensione, con un rumore che faceva allegare i denti. Mentre il traghetto si accostava al molo, lo scalandrone cominciò ad abbassarsi, ma prima ancora che fosse completamente calato la gente si precipitò a scendere, trascinando Casey. Dopo qualche metro, la pressione si attenuò, e lei riuscì a salire la rampa al suo passo normale, mentre altri passeggeri scendevano lo scalandrone accanto, per raggiungere Hong Kong. Rosemont la raggiunse. “È alloggiata al Victoria and Albert?”

“Sì” rispose Casey. “E lei?”

“Oh, no! Abbiamo un appartamento a Hong Kong… è di proprietà del consolato.”

“È qui da molto?”

“Due anni. È strano, Casey. Dopo un mese ci si sente prigionieri… nessun posto dove andare, troppa gente, sempre gli stessi amici, un giorno dopo l’altro. Ma poi diventa magnifico. Si sente di essere al centro dell’azione, al centro dell’Asia, dove oggi succede tutto ciò che conta. Hong Kong è il centro dell’Asia… i giornali sanno il fatto loro, si mangia splendidamente, si gioca a golf, ci sono le corse dei cavalli, si va in barca, ed è facile fare una scappata a Taipei, a Bangkok o dove si vuole. Hong Kong è magnifica… certo, non è come il Giappone. Il Giappone è un’altra cosa. Sembra uscito da una favola.”

“In bene o in male?”

“In bene… per un uomo. Ma è dura per le mogli, molto dura, e per i figli. Si sente il peso dell’impotenza e dell’estraneità… non si riesce neppure a leggere il nome di una strada. Io ci sono stato due anni. Mi piaceva moltissimo. Athena, mia moglie, aveva finito per odiarlo.” Rosemont rise. “Odia Hong Kong e vorrebbe tornare in Indocina, Vietnam o Cambogia. Era là come infermiera, qualche anno fa, con l’esercito francese.”

Attraverso la nebbia dei suoi problemi, Casey captò un sottinteso, e cominciò ad ascoltare veramente. “Sua moglie è francese?”

“Americana. Suo padre era ambasciatore, durante la guerra francoindocinese.”

“Avete figli?” domandò Casey.

“Sì. Due maschi. Athena era già stata sposata.”

Un altro sottinteso. “E i figli sono del primo matrimonio?”

“Uno. Aveva sposato un vietnamita. Lui fu ucciso poco prima di Dien Bien Phu, quando i francesi governavano il paese o meglio stavano per venir buttati fuori. Quel poveretto venne ucciso prima che nascesse il piccolo Vien. Per me, è come se fosse mio figlio. Sì, i miei due figli sono straordinari. Lei si fermerà per molto?”

“Dipende dal mio grande capo e dall’accordo. Immagino sappia che speriamo di concludere con la Struan.”

“In città non si parla d’altro… oltre all’incendio di Aberdeen, l’alluvione, le frane, il tifone, il crollo delle Struan, l’assalto agli sportelli delle banche, e la Borsa che fa acqua da tutte le parti… Devo dire una cosa di Hong Kong: non ci si annoia mai. Crede che lui ce la farà?”

“Il tai-pan? L’ho appena lasciato. Lo spero. È sicuro di sé, molto sicuro. Mi è simpatico.”

“Sì. E a me è simpatico anche Bartlett. È con lui da molto?”

“Quasi sette anni.”

Erano usciti dal terminal, e la strada era altrettanto affollata. Sulla destra c’era il porto. Si avviarono, chiacchierando, verso il sottopassaggio pedonale che li avrebbe portati al Victoria and Albert. Rosemont indicò un negozietto, il Rice Bowl. “Athena lavora lì, di tanto in tanto. È un negozio che ha fini assistenziali, gestito dagli americani. Tutti gli utili vanno ai profughi. Molte signore ci lavorano per un giorno o due, tanto per fare qualcosa. Immagino che lei sia sempre indaffarata.”

“Soltanto sette giorni la settimana.”

“Ho saputo da Linc che andrete a Taipei per il weekend. È la prima volta?”

“Sì… ma io non vado. Ci andranno solo Linc e il tai-pan.” Casey tentò di arrestare il pensiero che l’aveva assalita all’improvviso, ma non ci riuscì: Linc porterà con sé Orlanda? Ha ragione lui, non è affar mio. Ma la Par-Con lo è. E siccome Linc ormai è stato preso all’amo dal nemico, meno sa della faccenda della First Central e meglio è.

Contenta di poter prendere spassionatamente quella decisione, Casey continuò a parlare con Rosemont, rispondendo alle sue domande senza concentrarsi troppo, soddisfatta di conversare con un tipo amichevole e pronto a fornire informazioni. “… e Taipei è diversa, più facile, meno dura, ma sta cambiando” disse Romenont. “A Formosa siamo benvoluti, e questo è già un cambiamento. Così, siete venuti qui per allargarvi? Per un accordo di queste proporzioni, immagino che avrete portato una dozzina di dirigenti?”

“No. Al momento ci siamo soltanto noi due, più Forrester, il capo della nostra divisione poliuretano, e il nostro legale.” Nel nominarlo, Casey s’indurì. Accidenti a lui, perché ha cercato di metterci in difficoltà? “Linc ha organizzato molto bene la Par-Con. Io sbrigo le procedure ordinarie, e lui decide la linea da seguire.”

“Siete una compagnia pubblica?”

“Oh, certo, ma questo non complica le cose. Linc ha il controllo, e il nostro consiglio d’amministrazione e gli azionisti non ci mettono in croce. I dividendi salgono, e se l’accordo con la Struan si farà, arriveranno alle stelle.”

“Ci farebbe comodo, avere altre società americane in Asia. È stato il commercio a rendere grande l’Impero britannico. Le auguro buona fortuna, Casey. Ehi, adesso che mi ricordo” soggiunse casualmente Rosemont, “ha presente Ed, Ed Langan, il mio amico, che era con me alla festa del tai-pan? Lui conosce uno dei vostri azionisti. Un certo Bestacio, un nome del genere.”

Casey trasalì. “Banastasio? Vincenzo Banastasio?”

“Sì, mi pare di sì” disse Rosemont, mentendo con disinvoltura, scrutandola. All’occhiata di lei, soggiunse: “Ho detto qualcosa che non va?”

“No, è solo una coincidenza. Banastasio arriva domani. Domani mattina.”

“Come?”

Casey vide che Rosemont la fissava stupito e rise. “Può dire al suo amico che scenderà all’Hilton.”

La mente di Rosemont si mise in allarme. “Domani? Mi venga un accidente!”

Casey domandò, guardinga: “È molto amico di Langan?”

“No, ma si conoscono. Ed dice che Banastasio è un tipo straordinario. Un giocatore d’azzardo, no?”

“Sì.”

“Non le è simpatico?”

“L’ho incontrato solo un paio di volte. Alle corse. Frequenta spesso Del Mar. Non ho una grande passione per il gioco d’azzardo.”

Procedevano un po’ tortuosamente tra la folla. La gente dava spintoni avanti e indietro. Il sottopassaggio puzzava di muffa e di sudore. Per Casey fu un sollievo risalire all’aria libera: sognava una doccia, un’aspirina e un po’ di riposo prima delle otto. Oltre gli edifici davanti a loro stava il porto orientale. Un jet in partenza sfrecciò nelle nubi. Rosemont scorse le alte gru sul ponte della Sovetskij Ivanov attraccata poco lontano. Involontariamente, lanciò un’occhiata verso Hong Kong, e pensò che sarebbe stato facile, con i binocoli più potenti, esaminare la portaerei americana e contarne addirittura i bulloni.

“A guardarla, ci si sente fieri d’essere americani, no?” disse Casey, seguendo il suo sguardo. “Se è del consolato, potrà visitarla.”

“Certo. Visita guidata!”

“Fortunato.”

“Ci sono stato ieri. Il comandante ha offerto un ricevimento alle autorità locali. Mi sono accodato.” Ancora una volta, Rosemont mentì con disinvoltura. Era salito a bordo quella notte, e poi di nuovo quella mattina. Il suo primo incontro con l’ammiraglio, il comandante e il capo del servizio di sicurezza era stato tempestoso. Solo quando aveva mostrato le fotocopie del manifesto segreto degli armamenti della nave e del manuale del sistema di guida, quelli s’erano convinti che c’era stata un’enorme falla nel servizio di sicurezza. Adesso il traditore era sotto rigorosa sorveglianza nella stiva, tenuto d’occhio ventiquattro ore su ventiquattro dai suoi uomini della CIA. Presto sarebbe crollato. Sì, pensò Rosemont, e poi finirà in galera per vent’anni. Se stesse in me, avrei buttato quel delinquente nel porto. Merda, non ho nulla contro i Metkin e il KGB. Quei bastardi fanno il loro mestiere per il loro paese… anche se hanno torto. Ma i nostri?

“Okay, amico, ti abbiamo beccato! Innanzi tutto, raccontaci perché l’hai fatto.”

“Per denaro.”

Gesù Cristo santo! La cartella personale del marinaio aveva mostrato che veniva da una cittadina del Middle West, aveva sempre lavorato in modo esemplare, e nel suo passato e nel suo presente nulla indicava che fosse un rischio potenziale per la sicurezza. Era un uomo tranquillo, esperto nella programmazione dei computer, benvoluto dai colleghi e stimato dai superiori. Nessuna tendenza sinistrorsa, niente omosessualità, nessun problema di ricatto, niente di niente. “E allora perché?” gli aveva chiesto.

“Quel tale mi ha avvicinato a San Diego e mi ha detto che voleva sapere tutto della Corregidor e che mi avrebbe pagato.”

“Ma non capivi che era un tradimento? Un tradimento contro il tuo paese?”

“Diavolo, lui voleva solo qualche dato, qualche cifra. E allora? Dov’è la differenza? Possiamo sempre spedire all’inferno tutti quei maledetti comunisti quando vogliamo. La Corregidor è la più grande portaerei che esista! Era una proposta, e io volevo vedere se ce l’avrei fatta, e loro mi hanno pagato sull’unghia…”

Gesù, come faremo a mantenere la sicurezza quando ci sono individui così, con il cervello nel cazzo? si chiese stancamente Rosemont.

Continuò a camminare, ascoltando la propria voce, conversando con Casey, sondandola, cercando di scoprire che tipo di rischio potevano essere lei e Bartlett, e i loro legami con Banastasio. Poco dopo, salirono la scalinata dell’albergo, insieme ad altra gente. Un fattorino sorridente spalancò la porta. Il vestibolo era affollato. “Casey, sono in anticipo per il mio appuntamento. Posso offrirle qualcosa?”

Casey esitò; poi sorrise. Rosemont era simpatico, e chiacchierare le faceva piacere. “Certo, grazie. Ma prima mi lasci ritirare i miei messaggi, okay?” Andò al banco. C’erano un fascio di telex, e messaggi di Jannelli, Steigler e Forrester che la pregavano di richiamarli. E un biglietto manoscritto di Bartlett. Il biglietto conteneva normali istruzioni sulla Par-Con, e la pregava di assicurarsi che l’aereo fosse pronto per partire domenica. Concludeva così: “Casey, ci metteremo con la Rothwell-Gornt. Vediamoci a colazione nell’appartamento, alle 9. Arrivederci”.

Casey tornò da Rosemont. “Potrebbe scusarmi?”

“Brutte notizie?”

“Oh, no, solo parecchia roba da sbrigare.”

“Certo. Ma le andrebbe di venire a cena da noi la settimana prossima? Con Linc? Vorrei che Athena la conoscesse. Le dirò di telefonarle per prendere accordi. Okay?”

“Grazie, sarà un piacere.” Casey lo lasciò, più che mai impegnata a continuare sulla rotta che aveva scelto.

Rosemont la guardò allontanarsi, poi ordinò un Cutty Sark e soda e cominciò ad attendere, immerso nei suoi pensieri. Quanto denaro ha investito Banastasio nella Par-Con, e che cosa ottiene in cambio? Gesù Cristo, la Par-Con lavora per la difesa e la Nasa e ha un sacco di commesse coperte dal segreto. Cosa viene a fare qui quel mascalzone? Grazie a Dio, oggi mi sono occupato personalmente di Casey, e non ho lasciato a uno dei ragazzi il compito di starle dietro. Lui non sarebbe riuscito a sapere niente di Banastasio…

Arrivò Robert Armstrong.

“Gesù, Robert, ha un’aria terribile” disse l’americano. “Si prenda una vacanza o almeno si faccia una bella dormita e lasci perdere le donne.”

“Vada al diavolo! È pronto? Sarà meglio andare.”

“Ha il tempo per bere qualcosa. L’appuntamento alla banca è stato rimandato alle sette.”

“Sì, ma non voglio arrivare in ritardo, dato che dobbiamo incontrarci con il governatore nel suo ufficio.”

“Okay.”

Obbediente, Rosemont finì di bere e firmò il conto. Si avviarono insieme verso il traghetto.

“Come va il Dry Run?” chiese Armstrong.

“I nostri sono ancora là con le bandiere al vento. Sembra che la rivolta nell’Azerbaijan si sia sgonfiata.” Rosemont notò il turbamento dell’inglese. “Che cos’ha, Robert?”

“Qualche volta non mi va di essere un poliziotto, ecco.” Armstrong tirò fuori una sigaretta e l’accese.

“Mi pareva che avesse smesso di fumare.”

“Infatti. Senta, Stanely, vecchio mio, è meglio che l’avverta: lei è in alto mare senza remi, come dice il proverbio. Crosse è così furioso che dà i numeri.”

“E questa sarebbe una novità? Sono tanti a giudicarlo irrimediabilmente pazzo. Gesù, è stato Ed Langan a mettervi sull’avviso per i fascicoli di Grant. Siamo alleati, Dio buono!”

“È vero” rispose in tono acido Armstrong. “Ma questo non vi autorizza a organizzare un’irruzione in un appartamento completamente pulito, di proprietà della compagnia dei telefoni!”

“Chi, io?” Rosemont sembrava addolorato. “Quale appartamento?”

“Sinclair Towers, appartamento 32. Lei e i suoi gorilla! Avete buttato giù la porta nel cuore della notte. E perché, se posso chiederlo?”

“E come posso saperlo?” Rosemont doveva mantenere il bluff, ma era ancora furioso perché chi si trovava nell’appartamento era fuggito senza che fosse possibile identificarlo. La rabbia per la fuga dei documenti della portaerei, il fatto che non gli avessero consentito di interrogare Metkin, l’intero pasticcio del Sevrin e la perfidia di Crosse lo avevano indotto a ordinare l’incursione. Uno dei suoi informatori cinesi aveva riferito che, sebbene l’appartamento fosse quasi sempre vuoto, talvolta veniva usato da agenti comunisti non identificati, e che quella notte ci sarebbe stata una riunione. Connochie, uno dei suoi agenti migliori, aveva comandato l’incursione, e pensava di aver intravisto due uomini che uscivano dalla porta di servizio, ma non ne era sicuro, e per quanto li avesse cercati con cura, quelli erano spariti, e nell’appartamento non aveva trovato nulla che confermasse o smentisse i sospetti, soltanto due bicchieri semivuoti. I bicchieri erano stati prelevati, per scoprire le eventuali impronte digitali. Uno era completamente pulito, l’altro recava tracce evidenti. “Non sono mai stato al 32 delle Sinclair Towers, santo Dio!”

“Può darsi, ma i suoi ragazzi sì. Parecchi inquilini hanno visto quattro bianchi grandi e grossi che salivano e scendevano a precipizio le scale.” Armstrong aggiunse, in tono ancora più acido: “Grandi, grossi e coglioni. Dovevano essere suoi.”

“Miei? No. Nossignore.”

“Oh, sì, erano suoi, e questo sbaglio le costerà caro. Crosse ha già spedito a Londra due cablo grondanti veleno. Il guaio è che voi non siete riusciti a prendere nessuno, e noi ci prendiamo le sfuriate per i vostri continui pasticci!”

Rosemont sospirò. “La smetta di aggredirmi. Ho qualcosa per lei.” Riferì ad Armstrong ciò che aveva saputo da Casey sul conto di Banastasio. “Naturalmente, sapevamo dei suoi legami con la Par-Con, ma non sapevo che arrivasse domani. Cosa ne pensa?”

Armstrong aveva visto la data dell’arrivo registrata sulla rubrica di Ng il Fotografo. “Interessante” disse senza sbilanciarsi. “Lo dirò al Vecchio. Ma lei farà bene a dargli una spiegazione convincente per la storia delle Sinclair Towers, e non gli dica che l’ho avvertita io.” La stanchezza lo stava schiacciando. Quella mattina alle sei e mezzo aveva incominciato il primo vero interrogatorio di Brian Kwok.

Era una scena preordinata; ancora drogato, Brian Kwok era stato portato fuori dalla linda cella bianca e messo, nudo, in una sudicia segreta, con i muri umidi e un materasso puzzolente sul pavimento ammuffito. Poi, dieci minuti dopo che un’altra iniezione lo aveva riportato violentemente a un doloroso, assetato stato di veglia, la luce s’era accesa, e Armstrong aveva spalancato la porta e aveva inveito contro il guardiano dell’SL “Dio santo, cosa stai facendo al sovrintendente Kwok? Sei impazzito? Come ti permetti di trattarlo così?”

“Ordine del sovrintendente Crosse, signore. Questo è…”

“Deve esserci un errore! Non m’importa niente di Crosse!” Armstrong aveva buttato fuori l’uomo e aveva concentrato tutta la sua premurosa attenzione su Kwok. “Ecco, vecchio mio, vuoi una sigaretta?”

“Oh, Cristo. Grazie… grazie.” Brian Kwok aveva preso la sigaretta con dita tremanti, aveva aspirato una boccata profonda. “Robert, cosa… cosa diavolo sta succedendo?”

“Non so. Mi hanno appena avvertito, per questo sono corso qui. Mi avevano detto che eri in licenza per qualche giorno. Crosse è ammattito. Sostiene che sei una spia comunista.”

“Io? Per amor del cielo… che giorno è oggi?”

“Venerdì trenta” aveva risposto prontamente Armstrong. Si aspettava la domanda, e aveva aggiunto sette giorni.

“Chi ha vinto la quinta corsa?”

“Butterscotch Lass” aveva risposto lui, colto alla sprovvista, stupito che Brian Kwok fosse ancora tanto lucido; temette che la sua lieve esitazione avesse rivelato la menzogna. “Perché?”

“Così, me lo chiedevo… così… Senti, Robert, c’è un errore. Devi aiutarmi. Non…”

In quel momento, Roger Crosse era entrato, come un flagello di Dio. “Senti, spione, voglio i nomi e gli indirizzi di tutti i tuoi contatti, immediatamente. Chi è il tuo controllore?”

Brian Kwok si era alzato barcollando. “Signore, è un equivoco. Non c’è nessun controllore e io non sono una spia e…”

Crosse gli aveva cacciato sotto gli occhi gli ingrandimenti delle foto. “E allora spiega come mai sei stato fotografato a Ning-tok davanti alla farmacia della tua famiglia, insieme a tua madre, Fang-ling Wu. Spiega come mai il tuo vero nome è Chu-toy Wu, secondogenito di Ting-top Wu e di Fang-ling Wu…”

Entrambi avevano visto l’orrore sul volto di Brian Kwok.

“Menzogne” aveva mormorato lui. “Menzogne. Io sono Brian Kar-shun Kwok e…”

“Sei un bugiardo!” aveva urlato Crosse. “Abbiamo i testimoni! Abbiamo le prove! Sei stato identificato dalla tua gan suri, Ah Tam!”

Un’altra esclamazione soffocata, mascherata in modo quasi geniale, e poi: “Io… io non ho nessuna gan sun che si chiama Ah Tam. Io…”

“Tu passerai il resto della vita in questa cella se non ci dirai tutto. Ci rivediamo fra una settimana. Farai bene a dire la verità, o ti metterò in catene! Robert!” Crosse s’era girato di scatto verso di lui. “Le proibisco di entrare qui senza il mio permesso!” Poi era uscito tempestosamente dalla cella.

Armstrong ricordava la nausea che aveva provato, nel vedere la verità scritta sul viso dell’amico. Era un osservatore troppo esperto per ingannarsi. “Cristo, Brian” aveva detto, continuando a stare al gioco e maledicendo la propria ipocrisia. “Che cosa ti ha preso? Perché l’hai fatto?”

“Fatto cosa?” aveva detto Brian Kwok in tono di sfida. “Non puoi imbrogliarmi, Robert… Non possono essere sette giorni. Sono innocente.”

“E le foto?”

“False… sono false, ha combinato tutto Crosse.” Brian Kwok gli si era aggrappato al braccio, con una luce disperata negli occhi, e aveva mormorato, roco: “Te l’avevo detto, la vera talpa è Crosse. La talpa è lui, Robert… è un omosessuale… sta cercando d’incastrarmi e…”

In quel momento, il guardiano dell’SI aveva spalancato la porta. “Mi dispiace, signore, ma deve andarsene.”

“D’accordo, ma prima dagli un po’ d’acqua.”

“Niente acqua!”

“Maledizione, portagliela!”

Riluttante, il guardiano aveva obbedito. Quando erano rimasti momentaneamente soli, Armstrong aveva infilato il pacchetto di sigarette sotto il materasso. “Brian, farò tutto quello che posso…” Poi il guardiano era rientrato, portando una tazza ammaccata.

“Questa è tutta l’acqua che ti concedo” aveva detto, rabbiosamente. “Rivoglio la tazza!”

Brian aveva trangugiato l’acqua drogata. Armstrong era uscito. La porta s’era chiusa con violenza, i catenacci l’avevano bloccata. Le luci si erano spente, lasciando Brian Kwok immerso nell’oscurità. Dieci minuti dopo, Armstrong era ritornato con il dottor Dorn. E Crosse. Brian Kwok era inconscio, drogato, sprofondato in sogni convulsi. “Se l’è cavata molto bene, Robert” aveva detto sottovoce Crosse. “Ha visto lo shock del prigioniero?”

“Sì, signore.”

“Bene. L’ho visto anch’io. Non c’è possibilità di errore. Dottore, riduca il ciclo sonno-veglia a un’ora, per le prossime ventiquattro…”

“Cristo!” era esploso Armstrong. “Non può…”

“Ogni ora, dottore, purché sia in grado di reggere – non voglio che stia male, soltanto che diventi docile – per le prossime ventiquattro ore. Robert, poi lo interrogherà di nuovo. Se non servirà a niente, lo metteremo nella Camera Rossa.”

Il dottor Dorn era stato scosso da un brivido, e Armstrong ricordò che il suo cuore aveva saltato un battito. “No” aveva detto.

“Per Dio, Kwok è colpevole, Robert!” aveva ringhiato Crosse. “Colpevole! Ha denunciato Fong-fong e i nostri ragazzi, e Dio sa che altri danni ha fatto. Siamo sotto tiro. Gli ordini vengono da Londra! Ricorda Metkin, il commissario dell’Ivanov, che eravamo così fieri di aver catturato? Ho appena saputo che il trasporto della RAF è sparito. Ha fatto rifornimento a Bombay, e poi è sparito sopra l’oceano Indiano.”