Ore 22,55
Sei persone scesero dai due tassì davanti all’ingresso privato del palazzo della Victoria Bank, sulla strada secondaria. Casey, Riko Gresserhoff, Gavallan, Peter Marlowe, Dunross e P.B. White, un inglese magro e vivace sui settantacinque anni. Non pioveva più, ma la strada male illuminata era piena di pozzanghere.
“Davvero non vuol farci compagnia per il bicchiere della staffa, Peter?” chiese P.B. White.
“No, grazie, P.B., è meglio che me ne vada a casa. Buonanotte e grazie per la cena, tai-pan!”
Si allontanò nella notte, dirigendosi verso il terminal del traghetto che era dall’altra parte della piazza. Né Marlowe né gli altri notarono la macchina che andava a fermarsi più avanti, sulla strada. A bordo c’erano Malcolm Sun, agente scelto dell’SI, e Povitz, della CIA. Sun era al volante.
“Questa è l’unica via per entrare e uscire?” chiese Povitz.
“Sì.”
Guardarono P.B. White che premeva il pulsante della porta. “Fortunati, quelli. Le due ragazze sono le più belle che abbia mai visto.”
“Casey sì, ma l’altra? Che ce ne sono di più carine in qualunque sala da ballo…” Sun s’interruppe. Un tassì passò oltre.
“Un altro pedinamento?”
“No, non credo; ma se noi stiamo sorvegliando il tai-pan, può scommettere che lo fanno anche altri.”
“Sì.”
Videro P.B. White che premeva di nuovo il pulsante. La porta si aprì e il guardiano notturno, un sikh insonnolito, salutò: “Buonasera, sahs, memsahs.” Poi andò all’ascensore, premette il pulsante e chiuse il portoncino.
“L’ascensore è piuttosto lento. Antiquato come me. Chiedo scusa.” disse P.B. White.
“Da quanto tempo abita qui, P.B.?” domandò Casey; pensava che l’uomo non avesse nulla di antiquato. Il passo era elastico, gli occhi vivaci.
“Circa cinque anni, mia cara” rispose quello, prendendole il braccio. “Sono molto fortunato.”
Sicuro, pensò lei, e devi essere molto importante per la banca, e molto potente, per avere a disposizione uno dei tre soli appartamenti di questo palazzo enorme. P.B. aveva spiegato che uno degli altri apparteneva al direttore generale, attualmente in congedo per motivi di salute. L’ultimo era tenuto in perfetto ordine, ma era vuoto. “È per le Altezze Reali in visita, il governatore della Banca d’Inghilterra, il primo ministro, e altri astri” aveva detto grandiosamente P.B. White, durante la cenetta alla Szechuan, leggera e saporita. “Io sono un po’ il portinaio, un custode non retribuito. Mi lasciano abitare qui perché tenga d’occhio il posto.”
“Ci scommetto!”
“Oh, è vero! Per fortuna questa parte dell’edificio non comunica con la banca vera e propria, altrimenti metterei le mani nella cassa!”
Casey si sentiva soddisfatta, sazia di piatti squisiti e di ottimi vini, compiaciuta della conversazione spiritosa e dell’attenzione che le dedicavano i quattro uomini, soprattutto Dunross, contentissima di non essersi fatta eclissare da Riko… tutto, nella sua vita, sembrava ritornato a posto. Linc pareva di nuovo il suo Linc, anche se adesso era fuori con la nemica. Come devo regolarmi con lei? si chiese per la milionesima volta.
La porta dell’ascensore si aprì. Vi entrarono, affollando lo spazio ristretto. P.B. White premette il primo dei tre pulsanti. “Dio vive all’ultimo piano” ridacchiò. “Quando è in città.”
Dunross chiese: “Quando tornerà?”
“Fra tre settimane, Ian, ma è un bene che non sia in contatto con Hong Kong… o arriverebbe con il primo aereo. Casey, il nostro direttore generale è un uomo meraviglioso. Purtroppo, da quasi un anno è ammalato, e fra tre mesi andrà in pensione. L’ho convinto a prendersi un congedo e ad andare nel Kashmir, in un posticino che conosco, sulle rive del fiume Jehlum, a nord di Srinagar. Il fondo valle è a circa duemila metri e lassù, fra le più grandi montagne della terra, è un paradiso. Ci sono case-battello sui fiumi e sui laghi, e ci si lascia andare alla deriva, senza telefono, senza posta, a tu per tu con l’infinito, gente meravigliosa, aria meravigliosa, vitto meraviglioso, montagne stupende.” Gli occhi di P.B. scintillarono. “È un posto dove bisogna andare quando si è molto malati, o in compagnia di qualcuno che si ama molto.”
. Risero. “È quel che hai fatto tu, P.B.?” chiese Gavallan.
“Ma certo, mio caro. Era il 1915, quando ci sono andato per la prima volta. Avevo ventisette anni, ero in licenza dal Terzo Lanceri del Bengala.” P.B. White sospirò, parodiando un giovane innamorato. “Lei era una principessa georgiana.”
Tutti ridacchiarono con lui. “Ma in verità, perché eri andato nel Kashmir?” chiese Dunross.
“Mi ci aveva mandato per due anni lo Stato Maggiore per l’India. L’intera zona, Hindu Kush, Afghanistan e quello che adesso si chiama Pakistan, sul confine con la Russia e la Cina, è sempre stata delicata e lo sarà sempre. Poi mi mandarono a Mosca… verso la fine del ’17.” Il viso del vecchio si contrasse. “Ero là durante il putsch, quando il governo legittimo di Kerenskij fu estromesso da Lenin, Trotskij e i loro Bolscevichi…” L’ascensore si fermò. Uscirono. La porta dell’appartamento era aperta, e il primo cameriere, Shu, stava aspettando.
“Accomodatevi e fate come se foste a casa vostra” disse giovialmente P.B. “Il bagno delle signore è a sinistra, quello dei signori a destra, lo champagne è in anticamera… Fra un momento vi farò visitare tutto. Oh, Ian, ti serviva un telefono?”
“Sì.”
“Vieni, puoi usare quello del mio studio.” Lo precedette lungo un corridoio con le pareti ornate da bei quadri a olio e da una collezione d’icone rare. L’appartamento era spazioso: quattro stanze da letto, tre anticamere, una sala da pranzo per venti persone. Lo studio era in fondo. Tre pareti erano coperte di scaffali carichi di libri. Vecchio cuoio, aroma di buoni sigari, un camino. Brandy, whisky e vodka in caraffe di cristallo intagliato. E porto. Appena la porta si chiuse, P.B. assunse un’aria preoccupata.
“Quanto tempo ti occorre?” chiese.
“Farò più presto che posso.”
“Non preoccuparti, baderò io agli altri… se non tornerai in tempo presenterò le tue scuse. C’è altro che io possa fare?”
“Premi su Tiptop.” Dunross gli aveva parlato, prima, della possibilità di scambiare Brian Kwok, ma non gli aveva detto nulla dei dossier di Grant e dei suoi problemi con Sinders.
“Domani chiamerò alcuni amici a Pechino, e altri a Sciangai. Forse capiranno che è opportuno aiutarci.”
Dunross conosceva P.B. White da molti anni sebbene, come tutti gli altri, sapesse pochissimo del suo vero passato, della sua famiglia; ignorava persino se era stato sposato e se aveva figli, e da dove proveniva il suo denaro, e quali erano i suoi veri rapporti con la Victoria. “Sono una specie di consulente legale, anche se mi sono messo in pensione anni fa” diceva vagamente P.B. Ma Dunross sapeva che aveva un grande fascino, e aveva anche molte amiche altrettanto discrete. “Casey è una gran donna, P.B.” gli disse con un sorriso. “Credo che abbia fatto colpo su di te.”
“Lo credo anch’io. Sì. Ah, se avessi trent’anni di meno. E Riko!” P.B. inarcò le sopracciglia. “Deliziosa! Sei sicuro che sia vedova?”
“Sicurissimo.”
“Ne vorrei tre come lei, tai-pan.” P.B. ridacchiò, andò alla libreria e premette un interruttore. Parte della libreria si aprì. C’era una scala che saliva. Dunross se ne era servito altre volte, per parlare in privato con il direttore generale. A quanto sapeva, era l’unico estraneo a conoscenza dell’accesso segreto… un altro dei tanti segreti che avrebbe potuto trasmettere solo al successivo tai-pan. “Fu una disposizione di Hag Struan” gli aveva detto Alastair Struan, la notte che lui aveva preso possesso della carica. “Come questa.” Gli aveva consegnato la chiave generale delle cassette di sicurezza dei sotterranei. “La banca fa cambiare le serrature dalla Ch’ung Lien Loh Locksmiths Ltd. Soltanto i nostri tai-pan sanno che la ditta è nostra.”
Dunross sorrise a P.B., augurandosi di poter essere così giovane, quando avrebbe avuto la sua età. “Grazie.”
“Fai con comodo, Ian.” P.B. White gli porse una chiave.
Dunross salì in fretta e senza far rumore la scala, fino al pianerottolo dell’appartamento del direttore generale. Aprì una porta che conduceva a un ascensore; la stessa chiave apriva anche l’ascensore. C’era un unico pulsante. Richiuse la porta esterna e lo premette. I meccanismi erano ben lubrificati e silenziosi. L’ascensore si fermò e la porta interna si aprì. Dunross spinse quella esterna. Era nell’ufficio del direttore generale. Johnjohn si alzò, stancamente. “Cosa diavolo è questa storia, Ian?”
Dunross chiuse la porta segreta, mimetizzata nella libreria. “P.B. non te l’ha detto?” chiese in tono mite, senza tradire la tensione.
“Mi ha detto che questa notte dovevi andare nei sotterranei a prendere certi documenti, che dovevo farti entrare e che non c’era bisogno di scomodare Havergill. Ma perché questa scena da cappa e spada? Perché non sei entrato dalla porta principale?”
“Lascia perdere, Bruce. Sappiamo tutti e due che hai l’autorità necessaria per aprirmi i sotterranei.”
Johnjohn fece per dire qualcosa, ma cambiò idea. Prima di andarsene, il direttore generale aveva detto: “Abbia la cortesia di accontentare P.B., qualunque cosa chieda, eh?” P.B. chiamava col nome di battesimo il governatore e quasi tutti i VIP in vista, e divideva con il direttore generale la linea diretta con i loro uffici bancari ancora in attività a Sciangai e Pechino.
“Sta bene” disse.
I loro passi echeggiarono nell’immenso, semibuio pianterreno della banca. Johnjohn salutò con un cenno uno dei guardiani notturni che stava facendo il suo giro, poi premette il pulsante per chiamare l’ascensore dei sotterranei, reprimendo uno sbadiglio nervoso. “Cristo, sono esausto.”
“Sei stato tu ad architettare l’acquisto della Ho-Pak, vero?”
“Sì. Sì, sono stato io, ma se non fosse stato per il tuo colpo a sorpresa con la General Stores, non credo che Paul… be’, certamente è servito. Un colpo gobbo, Ian, se potrai portarlo a termine.”
“È cosa fatta.”
“Qual è la banca giapponese che ti appoggia con i 2 milioni?”
“Perché avete costretto Richard Kwang a presentare le dimissioni in bianco?”
“Eh?” Johnjohn lo guardò stupefatto. Arrivò l’ascensore. Entrarono. “Che cosa?”
Dunross riferì quel che gli aveva detto Phillip Chen. “Non è esattamente onesto. Un membro del consiglio d’amministrazione della Victoria costretto a firmare una lettera di dimissioni senza data come un poveraccio qualunque. Eh?”
Johnjohn scrollò la testa, lentamente. “No, questo non faceva parte del mio piano.” La sua stanchezza era sparita. “Adesso capisco perché sei preoccupato.”
“Irritato è la parola esatta.”
“Paul deve aver deciso di mantenere le cose come stanno in attesa che ritorni il capo. L’operazione crea un precedente e così…”
“Se riesco a procurarvi il denaro di Tiptop, voglio che quella lettera venga stracciata e che Richard Kwang abbia il diritto di votare liberamente.”
Dopo una pausa, Johnjohn disse: “Ti appoggerò in tutte le richieste ragionevoli… fino al ritorno del capo. Poi potrà decidere lui.”
“Mi sembra giusto.”
“Per che somma ti appoggiano la Royal Belgium e la First Central?”
“Mi pareva che avessi parlato di una banca giapponese.”
“Oh, andiamo, vecchio mio, lo sanno tutti. Quanto?”
“Abbastanza. Abbastanza per tutto.”
“Abbiamo ancora noi gran parte dei tuoi valori, Ian.”
Dunross alzò le spalle. “Non fa differenza. Abbiamo ancora voce in capitolo nella Victoria.”
“Se non avremo il denaro dalla Cina, la First Central non ti salverà da un crack.”
Dunross alzò di nuovo le spalle.
Le porte dell’ascensore si aprirono. Le luci fioche del sotterraneo gettavano ombre nette. L’enorme cancello ricordò a Dunross la porta di una cella. Johnjohn l’aprì.
“Impiegherò una decina di minuti” disse Dunross. Aveva un velo di sudore sulla fronte. “Devo trovare un certo documento.”
“Sta bene. Aprirò la tua cassetta…” Johnjohn s’interruppe. Il suo viso sembrava scolpito dalla luce. “Oh, dimenticavo che hai la chiave generale.”
“Farò più presto che posso. Grazie.” Dunross si avviò nella semioscurità, girò l’angolo e si diresse a passo sicuro verso le cassette in fondo. Poi si assicurò di non essere seguito: tutti i suoi sensi erano tesi. Inserì le due chiavi nelle serrature. Le serrature scattarono.
Mise la mano in tasca, estrasse la lettera di Grant che indicava i numeri delle pagine speciali sparse nei vari fascicoli, poi una lampada tascabile, un paio di forbici e un accendino a butano Dunhill che Penelope gli aveva regalato quando lui fumava ancora. Sollevò in fretta il doppio fondo della cassetta ed estrasse i rapporti.
Cristo, vorrei poterli distruggere adesso, e farla finita, pensò. So tutto quello che contengono, tutto quel che c’è d’importante, ma devo aver pazienza e attendere. Primo o poi loro – chiunque siano, oltre all’SI, la CIA e quelli della Repubblica Popolare – non mi seguiranno più. Allora potrò prendere i fascicoli senza pericolo e distruggerli.
Seguendo meticolosamente le istruzioni di Grant, fece scattare l’accendino e lo passò avanti e indietro sotto il quadrante inferiore destro della prima pagina speciale. Dopo un momento apparve un gruppo incomprensibile di simboli, lettere e numeri. Via via che il calore faceva spiccare quei segni, i caratteri dattiloscritti del quadrante cominciavano a sparire. Ben presto tutte le lettere scomparvero, lasciando solo il messaggio in codice. Con le forbici, Dunross tagliò il riquadro e mise da parte il fascicolo. AMG aveva scritto: “La carta non può venir fatta risalire ai fascicoli, tai-pan, e credo che le informazioni non possano essere lette da altri che i personaggi più altolocati del paese.”
Un leggero rumore lo fece trasalire. Si guardò intorno. Il sangue gli martellava negli orecchi. Un topo corse lungo una parete e sparì. Dunross attese, ma non c’erano altri pericoli.
Dopo un momento ritrovò la calma. Adesso il fascicolo successivo. Comparvero altre scritte in codice, e le lettere sparirono.
Dunross lavorava con meticolosa efficienza. Quando la fiamma cominciò ad affievolirsi, era preparato. Ricaricò l’accendino e proseguì. Ora l’ultimo dossier. Tagliò con cura il quarto di pagina e intascò gli undici pezzi di carta, poi rimise i fascicoli nel nascondiglio.
Prima di richiudere la cassetta, estrasse un atto di proprietà, e lo posò accanto alla lettera di Grant. Un’altra esitazione e poi, riparando con il suo corpo la lettera di Grant, le appiccò il fuoco. La carta contorse, bruciando.
“Cosa fai?”
Dunross si voltò di scatto e fissò la figura indistinta. “Oh, sei tu?” Riprese a respirare. “Niente, Bruce. Per la verità, è solo una vecchia lettera d’amore che non avrei dovuto conservare.” La fiamma si spense e Dunross calpestò la cenere, la disperse.
“Ian, sei nei guai? Guai grossi?” chiese gentilmente Johnjohn.
“No, vecchio mio. È soltanto la storia di Tiptop.”
“Ne sei sicuro?”
“Oh, sì.” Stancamente, Dunross sorrise ed estrasse un fazzoletto per asciugarsi la fronte e le mani. “Mi dispiace di averti causato tutto questo disturbo.”
Si allontanò a passo deciso, seguito da Johnjohn. Il cancello si chiuse rumorosamente dietro di loro. Dopo un momento, l’ascensore si aprì e si richiuse, e rimase il silenzio, rotto soltanto dal fruscio dei topi e dal lieve sibilo del condizionatore. Un’ombra si mosse. Senza far rumore, Roger Crosse uscì da dietro un banco di cassette e si fermò davanti a quella del tai-pan. Senza fretta, estrasse una minuscola macchina fotografica Minox, una lampada tascabile e un mazzo di chiavi. Dopo un momento, la cassetta di Ian Dunross era aperta. Le lunghe dita di Crosse trovarono il doppio fondo ed estrassero i fascicoli. Soddisfattissimo, li ammucchiò ordinatamente, fissò la lampada tascabile e, con mosse esperte, cominciò a fotografare i fascicoli, pagina per pagina. Quando arrivò a una delle pagine speciali, la scrutò attentamente. Un sorriso amaro gli passò sulle labbra. Poi continuò, in silenzio.