Ore 14,30
Il Sea Witch era all’ancora, a poca distanza dalla riva, presso il porto di Sha Tin, dove s’erano fermati per il pranzo. Appena erano arrivati, il cuoco, Casey e Peter Marlowe erano andati a riva, con Gornt al comando, per scegliere gli scampi, i gamberi e i pesci che nuotavano ancora nelle vasche d’acqua marina, e poi erano andati al mercato a prendere le verdure fresche. Il pranzo era consistito di scampi fritti con broccoli croccanti, poi pesce strofinato con l’aglio e fritto in padella e servito con un misto di verdure cinesi al dente.
Era stato un pranzo molto gaio; le ragazze cinesi erano contente e divertenti, e tutte parlavano più o meno bene un inglese piccante; Dunstan Barre era collerico e scandalosamente buffo, e gli altri gli avevano dato corda, e Casey aveva pensato che gli uomini erano molto diversi. Molto più sfrenati e infantili: e le era sembrato che questo fosse molto triste. Poi avevano cominciato a parlare di affari, e in quelle poche ore lei aveva appreso sulle tecniche di Hong Kong molto più di quanto avesse imparato da tutte le sue letture. Era sempre più chiaro che, a meno di essere addentro al gioco, il vero potere e le vere ricchezze sfuggivano sempre.
“Oh, vi troverete benissimo qui, Casey, lei e Bartlett” aveva detto Barre. “Se giocherete secondo le regole di Hong Kong, le strutture fiscali di Hong Kong, e non le regole degli Stati Uniti, giusto, Quillan?”
“Fino a un certo punto. Se vi mettete con Dunross e la Struan… e se la Struan e Dunross esisteranno ancora venerdì prossimo, avrete un po’ di latte, ma non la panna.”
“E con lei ci troveremmo meglio?” aveva domandato Casey.
Barre era scoppiato a ridere. “Molto meglio, Casey, ma sarebbe sempre latte e pochissima panna!”
“Diciamo, Casey, che con noi il latte sarà omogeneizzato” aveva detto amabilmente Gornt.
Adesso l’odore del caffè appena tostato e macinato saliva dalla cambusa. Intorno al tavolo, la conversazione era generale, vanterie, pronunciate soprattutto perché lei sentisse, sul commercio in Asia, la domanda e l’offerta e l’abitudine degli asiatici al contrabbando, mentre le ragazze cinesi chiacchieravano tra loro.
All’improvviso la voce tagliente di Grey li interruppe. “Farà meglio a chiedere informazioni a Marlowe, signor Gornt. Lui sa tutto sul contrabbando e i ricatti, fin dai tempi di Changi.”
“Avanti, Grey” disse Peter Marlowe, nel silenzio improvviso. “Piantiamola.”
“Credevo che ne foste orgogliosi, lei e il suo amico ricattatore yankee. No?”
“Lasci perdere, Grey” disse Marlowe, scuro in volto.
Gornt disse: “Non è il momento di rispolverare le vecchie beghe, signor Grey.” Mantenne un tono calmo, nascondendo il suo divertimento, da perfetto padrone di casa.
“Oh, non è questo che intendevo, signor Gornt. Lei stava parlando di contrabbando e di mercato nero. Marlowe è un esperto, ecco tutto.”
“Prendiamo il caffè sul ponte?” Gornt si alzò.
“Buona idea. Una tazza di caffè va sempre bene, dopo il rancio.” Grey usò quella parola di proposito, sapendo che li avrebbe offesi; ma adesso non se ne curava, era improvvisamente stanco delle chiacchiere, e li odiava, loro e quello che rappresentavano, odiava l’idea di essere spaiato, perché avrebbe voluto una delle ragazze, una qualunque. “Marlowe e il suo compare yankee tostavano il caffè, al campo, quando tutti noi stavamo morendo di fame” disse, cupamente. “Ci faceva impazzire.” Guardò Peter Marlowe con odio aperto. “No?”
Dopo una pausa, Peter Marlowe disse: “Tutti avevano il caffè, qualche volta. Tutti lo tostavano.”
“Non come voi due.” Grey si rivolse a Casey. “Avevano il caffè tutti i giorni, lui e il suo amico yankee. Io ero il capo della polizia militare e lo bevevo una volta al mese, se mi andava bene.” Si voltò di scatto. “Come mai voi avevate il caffè, mentre noialtri morivamo di fame?”
Casey vide una venuzza gonfiarsi sulla fronte di Peter Marlowe e si rese conto, sgomenta, che anche la mancanza di una risposta era una risposta. “Robin…” cominciò, ma Grey la interruppe, in tono di sfida.
“Cosa risponde, Marlowe?”
Nel silenzio, tutti guardarono Grey e Peter Marlowe che si fissavano; persino le ragazze erano tese, in guardia. Avevano sentito la violenza che regnava nella cabina.
“Mio caro amico” intervenne Gornt, usando di proposito una certa inflessione che, lo sapeva, avrebbe fatto infuriare Grey, “sicuramente questo appartiene al passato e ormai non ha molta importanza. È domenica pomeriggio e siamo tutti amici.”
“Io ritengo che sia piuttosto importante, domenica pomeriggio o no, e io e Marlowe non siamo amici, non lo siamo mai stati! Lui è un gentiluomo, io no!” Grey scimmiottò l’accento aristocratico che detestava. “Sì. Ma la guerra ha cambiato tutto, e noi lavoratori non lo dimenticheremo mai!”
“Si considera un lavoratore e pensa che io non lo sia?” chiese Peter Marlowe in tono stridulo.
“Noi siamo gli sfruttati e voi gli sfruttatori, Come a Changi.”
“La smetta con quel disco rotto, Grey! Changi era un altro mondo, un altro luogo e un altro tempo e…”
“Era come dovunque. C’erano i tiranni e i tiranneggiati, i lavoratori e quelli che li sfruttavano. Come lei e King.”
“Stupidaggini!”
Casey, che era vicina a Grey, lo prese per il braccio. “Su, prendiamo il caffè!”
“Certo” disse Grey. “Ma prima glielo chieda, Casey.” Torvo, Grey non cedette, consapevole di aver finalmente messo il nemico con le spalle al muro di fronte ai suoi pari. “Glielo chieda lei, signor Gornt, eh? Uno di voi…”
Tutti rimasero in silenzio, imbarazzati per Peter Marlowe e scandalizzati dalle accuse implicite… Gornt e Plumm erano segretamente divertiti e affascinati. Poi una delle ragazze si avviò verso la scaletta e se ne andò in silenzio, seguita dalle altre. Anche Casey avrebbe voluto andarsene, ma non lo fece.
“Non è il momento, signor Grey.” Sentì Gornt pronunciare gentilmente quelle parole e fu lieta che fosse lui, lì, a far cessare la scena. “Per cortesia, lasci stare. La prego.”
Grey li guardò tutti, uno dopo l’altro, e finì per posare gli occhi sul suo avversario. “Vede, Casey, nessuno ha il coraggio di domandarlo… sono tutti della sua classe e tra loro si proteggono.”
Barre avvampò. “Senta, vecchio mio, non cr…”
Peter Marlowe disse, in tono secco: “È facile smetterla con queste assurdità. Non si può paragonare Changi… o Dachau o Buchenwald con la normalità. È impossibile. C’erano regole diverse, diversi modelli di comportamento. Eravamo militari, prigionieri di guerra, e molti di noi non avevano ancora vent’anni. Changi era la genesi, tutto era nuovo, sovvertito e…”
“Lei faceva il mercato nero?”
“No. Facevo da interprete in malese per un amico che commerciava, e c’è parecchia differenza tra il commercio e il mercato nero e…”
“Ma era contro i regolamenti, le leggi del campo, e quindi era mercato nero, no?”
“Commerciare con i guardiani era contrario ai regolamenti nemici, ai regolamenti dei giapponesi.”
“E gli racconti che King comprava l’orologio o l’anello o la stilografica di un poveraccio per una miseria, l’ultima cosa che gli era rimasta al mondo, e lo rivendeva facendoselo pagare profumatamente, e non lo diceva mai e imbrogliava sul prezzo, truffava, truffava sempre. Eh?”
Peter Marlowe ricambiò lo sguardo. “Legga il mio libro. Lì ho…”
“Il libro?” Grey rise di nuovo, provocandolo. “Glielo dica, sul suo onore di gentiluomo, sull’onore di suo padre e della sua famiglia di cui va tanto fiero… King truffava o no? Sul suo onore! Eh?”
Quasi paralizzata, Casey vide Peter Marlowe stringere il pugno. “Se non fossimo ospiti qui” sibilò lo scrittore, “direi loro che razza di cafone era veramente lei!”
“Vada a marcire all’inferno…”
“Adesso basta” disse Gornt in tono di comando, e Casey riprese a respirare. “Per l’ultima volta, fatemi la cortesia di smetterla!”
Grey distolse gli occhi da Marlowe. “La smetto subito. Posso trovare un tassì, al villaggio? Preferirei tornare da solo, se non vi dispiace.”
“Ma certo” disse Gornt, con un’aria debitamente seria, felice che Grey l’avesse chiesto e che lui non fosse costretto a suggerirglielo apertamente. “Ma senza dubbio” soggiunse, per sferrare il colpo di grazia, “senza dubbio lei e Marlowe vorrete stringervi la mano, da gentiluomini, e dimenticare l’in…”
“Gentiluomini? Grazie, no. No, ne ho avuto abbastanza di gentiluomini come Marlowe. Gentiluomini? Grazie a Dio, l’Inghilterra sta cambiando, e presto sarà di nuovo nelle mani giuste… e l’accento di Oxford non sarà più il passaporto permanente per il potere, mai più. Riformeremo la Camera dei Lord, e se potrò fare a modo mio…”
“Speriamo di no!” esclamò Pugmire.
Gornt disse con fermezza: “Pug! È l’ora del caffè e del porto.” Prese affabilmente il braccio di Grey. “Se volete scusare me e il signor Grey per un momento…”
Uscirono sul ponte. Il chiacchiericcio delle ragazze cinesi s’interruppe per un attimo. Segretamente soddisfatto, Gornt precedette l’altro lungo la passerella, sul molo. Tutto stava andando ancor meglio di quanto avesse previsto.
“Mi dispiace, signor Grey” disse. “Non avevo idea che Marlowe… Disgustoso! Bene, non si può mai sapere, vero?”
“È un bastardo, lo è sempre stato, lo sarà sempre… lui e il suo lurido compare yankee. Io odio anche gli yankee! Sarebbe ora di farla finita!”
Gornt trovò un tassì senza difficoltà.
“È sicuro, signor Grey, di non voler cambiare idea?”
“Grazie, no.”
“Mi dispiace per Marlowe. Lei è stato chiaramente provocato. Quando ripartirà con la sua delegazione commerciale?”
“Domattina presto.”
“Se c’è qualcosa che posso fare per lei qui, me lo faccia sapere.”
“Grazie. Quando andrà a casa, mi dia un colpo di telefono.”
“La ringrazio. Non mancherò. E grazie ancora per essere venuto.” Gornt pagò il tassista in anticipo e salutò cortesemente, mentre la macchina si allontanava. Grey non si voltò.
Gornt sorrise. Quel lurido bastardo sarà un utile alleato negli anni futuri, ridacchiò tra sé, mentre tornava indietro.
Quasi tutti gli altri erano sul ponte, a bere caffè e liquori. Casey e Peter Marlowe stavano in disparte.
“Che maledetto cafone!” esclamò Gornt, tra i consensi generali. “Mi dispiace terribilmente, Marlowe, quel tipo…”
“No, è stata colpa mia” disse Peter Marlowe, turbato. “Mi dispiace. Mi dispiace che se ne sia andato.”
“Non deve scusarsi. Non avrei mai dovuto invitarlo… la ringrazio di essersi comportato da gentiluomo. Grey l’aveva chiaramente provocato.”
“Giustissimo” disse Pugmire, tra altre approvazioni. “Se fossi stato al suo posto, l’avrei preso a pugni. Qualunque cosa sia accaduta in passato.”
“Oh, sì” disse prontamente Casey. “Che uomo spaventoso! Se lei non l’avesse fermato, Quillan, Grey avrebbe…”
“Non parliamo più di quel cafone” disse con calore Gornt, che voleva scacciare il fantasma. “Dimentichiamolo: non possiamo permettere che ci rovini un pomeriggio magnifico.” Cinse le spalle di Casey con un braccio e la strinse. “Eh!” Lesse l’ammirazione negli occhi di lei e si rese conto, allegramente, che stava per arrivare in porto. “È troppo freddo per fare il bagno. Vogliamo tornare tranquillamente verso casa?”
“Buona idea!” disse Dunstan Barre. “Credo che andrò a fare la siesta.”
“Magnifico!” disse qualcun altro, fra le risate. Le ragazze si associarono, ma era un’ilarità forzata. Tutti erano ancora sconvolti, e Gornt lo sentiva. “Prima un po’ di brandy. Marlowe?”
“No, grazie, signor Gornt.”
Gornt lo scrutò. “Mi ascolti, Marlowe” disse con sincera compassione, e tutti tacquero. “Abbiamo conosciuto troppo la vita e l’Asia per non sapere che, qualunque cosa lei abbia fatto, l’ha fatto con buone intenzioni. Ciò che ha detto prima è giusto. Changi era speciale, e presentava problemi speciali. Pug fu rinchiuso nel carcere di Stanley, sull’Isola di Hong Kong, Casey, per tre anni e mezzo. Io riuscii appena a fuggire da Sciangai, con le mani sporche di sangue. Jason fu preso dai nazisti dopo Dunkirk e passò con loro un paio di anni orribili, Dunstan operava in Cina… Dunstan è in Asia da sempre e anche lui lo sa. Eh?”
“Oh, sì” disse in tono triste Dunstan Barre. “Casey, per sopravvivere, in guerra qualche volta bisogna modificare un po’ le regole. In quanto al commercio, Marlowe, lo ammetto, molte volte bisogna inquadrare il problema nella prospettiva del tempo e del luogo. Grazie a Dio, io non sono mai stato preso. Non credo che sarei sopravvissuto; so che non ce l’avrei fatta.” Si riempì di nuovo il bicchiere di porto, imbarazzato dalle verità che aveva detto.
“Com’era veramente Changi, Peter?” domandò Casey, a nome di tutti.
“È difficile parlarne” disse lui. “Era quanto potesse esistere di più vicino alla non-vita. Ci davano un etto di riso asciutto al giorno, qualche verdura, un uovo alla settimana. Qualche volta la carne la facevano giusto vedere nella brodaglia. Era diverso, è tutto quel che posso dire. Molti di noi non avevano mai visto la giungla, i cinesi e i giapponesi, e perdere una guerra… io avevo soltanto diciotto anni, quando finii a Changi.”
“Cristo, io i giap non li sopporto, proprio non li sopporto!” disse Pugmire, e gli altri annuirono.
“Ma in realtà non è giusto. Giocavano la partita secondo le loro regole” dichiarò Peter Marlowe. “Era giusto, dal punto di vista giapponese. Pensi che soldati straordinari erano, pensi a come combattevano, come non si lasciavano catturare, quasi mai. Arrendendoci, secondo i loro princìpi, noi eravamo disonorati.” Peter Marlowe rabbrividì. “Mi sentivo disonorato. Mi sento ancora disonorato.”
“Questo non è giusto, Marlowe” disse Gornt. “Non c’è nulla di disonorevole, in questo. Nulla.”
Casey, che era in piedi accanto a Gornt, gli posò la mano sul braccio. “Oh, sì. Ha ragione, Peter. Davvero.”
“Sì” disse Dunstan Barre. “Ma Grey, perché diavolo Grey era così inviperito? Eh?”
“Per niente e per tutto. Era diventato un fanatico, imponeva il rispetto dei regolamenti del campo, che erano regolamenti giapponesi. Molti di noi pensavano che fosse stupido. Come ho detto, Changi era diverso, gli ufficiali e i soldati semplici erano rinchiusi insieme, non arrivavano lettere da casa, non c’era niente da mangiare, e intorno il territorio era occupato dal nemico per tremila chilometri in ogni direzione, c’era la malaria, la dissenteria, e la percentuale dei morti era spaventosa. Lui odiava quel mio amico americano, King. È vero, King era un trafficante abilissimo e mangiava bene, a differenza degli altri, e beveva caffè e fumava sigarette confezionate apposta per lui. Ma con la sua astuzia riuscì a tenere in vita molti di noi. Persino Grey. Ha tenuto in vita persino Grey. È stato l’odio che Grey provava per lui a farlo sopravvivere, ne sono sicuro. King sfamava quasi tutto il contingente americano… erano una trentina, tra ufficiali e soldati. Oh, lavoravano per guadagnarselo, all’americana: ma anche così, senza di lui sarebbero morti. Io sarei morto, lo so.” Peter Marlowe rabbrividì. “Il fato. Il karma. È la vita. Credo che adesso accetterò il brandy che mi ha offerto, signor Gornt.”
Gornt glielo versò. “Cosa è stato di quell’uomo, l’uomo che lei chiama King? Dopo la guerra?”
Pugmire l’interruppe ridendo. “Uno dei tipi che commerciavano nel nostro campo, dopo è diventato milionario. È andata così anche a King?”
“Non so” disse Peter Marlowe.
“Non lo ha più rivisto, Peter?” domandò Casey, sorpresa. “Non lo ha rivisto, negli Stati Uniti?”
“No, mai più. Ho cercato di rintracciarlo, ma non ci sono riuscito.”
“Spesso è la regola, Casey” disse con noncuranza Gornt. “Quando si lascia un reggimento, tutti i debiti e tutte le amicizie vengono annullati.” Era molto soddisfatto. È tutto perfetto, si disse, pensando al letto matrimoniale nella sua cabina, e sorrise a Casey. Lei ricambiò il sorriso.
Riko Anjin Gresserhoff entrò nel vestibolo del Victoria and Albert. Era affollato da gente che prendeva il tè in anticipo o pranzava in ritardo. Mentre si avviava verso l’ascensore fu scossa da un tremito. Gli sguardi la infastidivano: non i soliti sguardi lubrichi degli uomini europei o l’antipatia negli occhi delle loro donne… ma gli occhi dei cinesi e degli eurasiatici. Non aveva mai sentito un odio così generale. Era una sensazione strana. Era la prima volta che aveva lasciato la Svizzera, a parte le gite in Germania con la scuola, e due viaggi a Roma con sua madre. Suo marito l’aveva accompagnata all’estero soltanto una volta, a Vienna per una settimana.
L’Asia non mi piace, pensò, reprimendo un altro brivido. Ma questa non è l’Asia, è Hong Kong: sicuramente è soltanto qui, la gente di qui. E sicuramente, loro hanno ragione di essere ostili. Chissà se mi piacerà il Giappone. O sarò un’estranea anche là?
L’ascensore arrivò, e Riko salì nel suo appartamento al sesto piano. Il fattorino le aprì la porta. Quando fu sola ed ebbe messo il catenaccio all’uscio, si sentì meglio. La spia rossa del telefono ammiccava, ma lei non vi badò. Si tolse in fretta le scarpe, il cappello, i guanti e la giacca, mettendoli subito nel grande armadio: gli abiti, lì dentro, erano ben ordinati, come le sue tre paia di scarpe. L’appartamento era piccolo ma grazioso, un soggiorno, una stanza da letto e il bagno. Sul tavolo c’era un mazzo di fiori inviato dalla Struan, e un cestello di frutta, omaggio dell’albergo.
Aprì meticolosamente l’incarto del pacchetto. Dentro c’era un astuccio rettangolare di velluto nero. Aprì anche quello. Si sentì pervadere da un’ondata di calore. Il ciondolo era appeso a una catenella d’oro, la giada era verde, screziata di verde più chiara, intagliata a forma di cornucopia. La luce scintillava sulla superficie levigata. Lo mise subito, studiandosi allo specchio, ammirando la pietra posata sul seno. Non aveva mai ricevuto un dono di giada.
Sotto il ripiano di velluto nero c’era la busta. Era una busta non intestata, con un sigillo semplice, di comune ceralacca rossa. Con estrema attenzione, insinuò un tagliacarte sotto il sigillo e studiò i fogli uno a uno, aggrottando leggermente la fronte. Era solo una confusione di numeri e lettere e qualche simbolo. Un lieve sorriso soddisfatto le sfiorò le labbra. Prese il blocco di carta da lettera dell’albergo, sedette alla scrivania, e cominciò a ricopiare le pagine, una a una.
Quando ebbe terminato, le controllò. Mise le copie in una busta dell’albergo e la chiuse, ripose gli originali in un’altra, una busta semplice che aveva estratto dalla borsetta. Poi prese la nuova stecca di ceralacca rossa, accese un fiammifero, e applicò la ceralacca sulle due buste, sigillandole, assicurandosi che il sigillo sulla busta degli originali fosse simile a quello che aveva impresso Dunross. Il telefono squillò, facendola trasalire. Lo fissò, con il cuore che le batteva forte, fino a quando smise. Poi, rasserenata, si rimise al lavoro, accertandosi di non aver lasciato segni sul blocco che aveva usato, esaminandolo sotto la luce. Quando fu soddisfatta, affrancò la busta con le copie, l’indirizzò a R. Anjin, Casella Postale 154, Ufficio Postale Centrale, Sydney, Australia. Poi la mise nella borsetta, insieme alla busta che conteneva gli originali.
Ricontrollò scrupolosamente per accertarsi di non aver dimenticato nulla, poi andò al piccolo frigo accanto al bar ben fornito, prese una bottiglia d’acqua minerale e ne bevve un po’.
Il telefono squillò di nuovo. Riko lo guardò, sorseggiando l’acqua effervescente, riflettendo, pensando al pranzo con Dunross, chiedendosi se era stata prudente ad accettare l’invito per prendere il cocktail con lui quella sera e, più tardi, per cenare con lui e i suoi amici. Chissà se gli amici ci saranno o se saremo soli. Mi piacerebbe trovarmi sola con quell’uomo?
I suoi pensieri ritornarono a Hans Gresserhoff, piccolo, disordinato, un po’ calvo, e ai quattro anni della sua vita con lui, sola per settimane, a dormire sola, svegliarsi sola, passeggiare sola, senza veri amici, uscire raramente, con quel marito così stranamente segreto che l’avvertiva di non fare amicizie, che la voleva sola, sempre sicura, calma e paziente. Quella era stata la cosa più difficile, pensò Riko. La pazienza. Pazienza da sola, pazienza insieme, nel sonno e nella veglia. Pazienza e calma esteriore. Quando lei era un vulcano, e avrebbe voluto esplodere.
Indubbiamente, lui l’aveva amata. Tutto ciò che aveva provato lei era giri, il senso del dovere. Lui le dava il denaro, e la sua vita era tranquilla, né ricca né povera… ordinata, come il paese che avevano scelto. Lui arrivava e ripartiva, così. Quando era con lei la voleva sempre, voleva starle vicino. I loro rapporti soddisfacevano lui, ma non lei, anche se fingeva per fargli piacere. Ma del resto, si disse, non hai mai avuto un altro uomo, per poter giudicare.
Lui era buono, e le cose andavano come ho detto al tai-pan. Ho cercato di essere una buona moglie, di obbedirgli in tutto, di onorare il desiderio di mia madre, di adempiere il mio giri verso di lei e verso di lui. E ora?
Guardò l’anello nuziale e lo rigirò intorno al dito. Per la prima volta, da quando si era sposata, lo sfilò e lo guardò attentamente, tenendolo nel palmo della mano. Piccolo, vuoto, privo d’interesse. Tante notti solitarie passate a piangere, ad attendere e attendere e attendere. Attendere che cosa? Proibito aver figli, proibito avere amicizie, proibito viaggiare. Lui non lo proibiva come avrebbe fatto un giapponese: Kin jiru! Ma: “Non credi, mia cara” diceva lui, “non credi che sarebbe meglio se tu non andassi a Parigi durante la mia assenza? Potremo andarci insieme la prossima volta che verrò…” E tutti e due sapevano che non ci sarebbero mai andati.
Quella volta, a Vienna, era stato terribile. Il primo anno. C’erano andati per una settimana. “Stasera devo uscire” le aveva detto lui, la prima volta. “Ti prego, rimani in camera, cena in camera e aspetta il mio ritorno.” Erano trascorsi due giorni, e quando lui era tornato era cinereo e teso, spaventato; e poi subito, nel cuore della notte, erano saliti sulla macchina presa a nolo ed erano ritornati precipitosamente in Svizzera, seguendo il percorso più lungo, un percorso assurdo, tra le montagne del Tirolo, e lui teneva gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore nel timore di essere seguito, e non le aveva parlato fino a che non avevano superato di nuovo il confine, sani e salvi.
“Ma perché, perché, Hans?”
“Perché niente! Ti prego. Non devi farmi domande, Riko. Era il tuo impegno… il nostro impegno. Mi dispiace per la vacanza. Andremo a Wengen o a Biarritz, e sarà meraviglioso. Ti prego di ricordare il tuo giri, di ricordare che ti amo con tutto il cuore.”
Amore!
Io non capisco questa parola, pensò Riko, mentre stava alla finestra e guardava il porto, le nubi tetre, la luce triste. Strano che in giapponese questa parola non esiste. Soltanto dovere e sfumature del dovere, affetto e sfumature di affetto. Niente lieben. Ai? Ai significa rispetto, anche se qualcuno lo usa per lieben.
Riko si sorprese a pensare in tedesco e sorrise. Molte volte pensava in tedesco anche se quel giorno, con il tai-pan, aveva pensato in giapponese, Era da tanto tempo che non parlavo più la mia lingua. Qual è la mia lingua? Il giapponese? È la lingua che parlavamo io e i miei genitori. Il tedesco? È la lingua della nostra parte della Svizzera. L’inglese? È la lingua di mio marito, anche se lui affermava che la sua madrelingua era il tedesco.
Era inglese, lui?
Si era posta molte volte quella domanda. Non che lui non parlasse correntemente il tedesco: era la sua mentalità. La sua mentalità non era tedesca, come la mia non è giapponese. O sì?
Non so. Ma adesso, adesso posso scoprirlo.
Lui non le aveva mai detto quale fosse il suo lavoro, e lei non l’aveva mai chiesto. Dopo Vienna, era stato facile capire che era un lavoro clandestino, legato in qualche modo alla criminalità internazionale o allo spionaggio. E Hans non era il tipo del criminale.
Perciò, da quella volta, lei era stata ancora più cauta. Un paio di volte aveva avuto l’impressione che fossero sorvegliati, a Zurigo e quando andavano a sciare, ma lui non vi aveva fatto caso e le aveva detto di non preoccuparsi. “Ma tieniti pronta, in caso di un incidente. Tieni nella borsa da viaggio tutti i preziosi e i documenti privati, il passaporto e il certificato di nascita, Ri-chan” le aveva detto, chiamandola con il vezzeggiativo. “Per ogni eventualità, per ogni eventualità.”
Ora che suo marito era morto e lei aveva portato a termine quasi tutte le istruzioni, con il denaro e la telefonata del tai-pan che l’aveva chiamata lì, tutto era divenuto nuovo. Ora poteva ricominciare. Aveva ventiquattro anni. Il passato era il passato e il karma era il karma. Il denaro del tai-pan sarebbe stato più che sufficiente per anni.
La notte di nozze, suo marito le aveva detto: “Se mi succedesse qualcosa, riceverai una telefonata da un certo Kiernan. Taglia i fili del telefono come ti mostrerò io e lascia immediatamente Zurigo. Lascia tutto, tranne gli abiti che avrai addosso e la borsa da viaggio. Vai in macchina a Ginevra. Eccoti una chiave. Apre una cassetta di sicurezza nella Banca Svizzera di Rue Charles. Dentro troverai denaro e alcune lettere. Segui scrupolosamente le istruzioni, tesoro, oh, come ti amo. Lascia tutto. Fai esattamente come ti ho detto…”
E lei l’aveva fatto. Esattamente. Era il suo giri.
Aveva tagliato i fili del telefono con la pinza, come lui le aveva mostrato, dietro la scatola fissata alla parete, in modo che l’interruzione non si notasse. A Ginevra, alla banca, aveva trovato una lettera di istruzioni, 10.000 dollari USA in contanti, un nuovo passaporto svizzero, timbrato, con la sua fotografia ma con un nome nuovo, e una nuova data di nascita, e un nuovo certificato che documentava che lei era nata a Berna ventitré anni prima. Le era piaciuto, il nuovo nome che lui le aveva scelto; e ricordava che, nella sicurezza della camera d’albergo affacciata sul lago, aveva pianto per lui.
Nella cassetta di sicurezza c’erano anche un libretto di risparmio di 20.000 dollari, intestato al suo nuovo nome presso la stessa banca, una chiave, un indirizzo e un atto di proprietà. L’atto di proprietà riguardava un piccolo chalet sul lago, privato, arredato e pagato, con una governante che la conosceva soltanto con il suo nuovo nome, e sapeva che lei era vedova ed era stata all’estero… l’atto di proprietà era intestato al suo nuovo nome, sebbene l’acquisto fosse stato effettuato quattro anni addietro, pochi giorni prima del matrimonio.
“Ah, signora, sono così contenta che sia venuta a casa, finalmente. Deve essere così faticoso viaggiare all’estero” le aveva detto accogliendola la vecchia, simpatica governante. “Oh, durante l’ultimo anno, la casa è stata affittata a un signore inglese così tranquillo e così per bene. Pagava puntualmente tutti i mesi. Ecco i conti. Forse tornerà quest’anno, ha detto, o forse no. Il suo agente ha l’ufficio in Avenue Firmet…”
Più tardi, mentre si aggirava in quella deliziosa casetta, con il lago immenso e pulito nella conca delle montagne, e la casa pulita come quei monti, con i quadri alle pareti, i fiori nei vasi, tre stanze da letto, un soggiorno e le verande, tutto piccolo ma perfetto, il giardino ben curato, lei era entrata nella stanza da letto padronale. In un caleidoscopio di minuscoli quadretti appesi a una delle pareti c’era quella che sembrava una vecchia lettera, incorniciata e sotto vetro, con la carta già un po’ ingiallita. Lei aveva riconosciuto la scrittura del marito. Era in inglese. “Tante ore felici tra le tue braccia, Ri-chan, tanti giorni lieti in tua compagnia: come posso dirti che ti amo? Dimenticami, io non ti dimenticherò mai. Prego Dio di concederti diecimila giorni per ognuno dei miei, mia adorata, mia adorata, mia adorata.”
L’enorme letto matrimoniale era quasi convesso, con la trapunta multicolore di piumino, le finestre erano aperte all’aria dolce, e lasciavano entrare i profumi della tarda estate, e la neve impolverava le vette delle montagne. Lei aveva pianto ancora, nel silenzio dello chalet.
Era arrivata lì da poche ore quando Dunross le aveva telefonato, e lei era salita sul primo aereo, e adesso era a Hong Kong, e aveva quasi completato il suo compito, e non aveva bisogno di ritornare, il passato era cancellato… se lei lo desiderava. Il passaporto nuovo era autentico, a quanto poteva capire, e anche il certificato di nascita. Non aveva nessuna ragione per ritornare in Svizzera… se non lo chalet. E la lettera incorniciata.
L’aveva lasciata indisturbata, appesa alla parete. E aveva deciso che, finché fosse stata proprietaria della casa, la lettera sarebbe rimasta dove l’aveva messa lui. Sempre.