Ore 18,45
Era quasi il tramonto.
Su, a Lo Wu, il villaggio di confine tra la colonia e la Cina, le solite folle di cinesi stavano attraversando il ponte in entrambe le direzioni. Il ponte era lungo appena una cinquantina di metri e scavalcava un fiumiciattolo fangoso: eppure quei cinquanta metri, per certuni, erano un milione di miglia. Alle due estremità c’erano posti di guardia, e i blocchi dell’immigrazione e della dogana, e al centro una piccola barriera mobile. Là stavano due agenti della polizia di Hong Kong e due soldati della Repubblica Popolare. Due binari ferroviari attraversavano il ponte.
Un tempo, i treni arrivavano da Canton a Hong Kong e tornavano indietro, senza fermarsi: ma adesso i convogli passeggeri si fermavano ai due lati del ponte, e i viaggiatori lo attraversavano a piedi. E i treni ritornavano indietro. I merci che arrivavano dalla Cina passavano senza problemi. Quasi sempre.
Ogni giorno, centinaia di abitanti locali passavano il confine, come avrebbero attraversato qualunque altra strada. Avevano i campi o il posto di lavoro dalle due parti del confine, ed era così da generazioni. Erano individui duri, sospettosi, che odiavano i cambiamenti, odiavano le intromissioni, odiavano le uniformi, e odiavano soprattutto la polizia e gli stranieri. Per loro, come per quasi tutti i cinesi, uno straniero era chiunque non fosse del loro villaggio. Per loro non esisteva il confine, non poteva esistere.
Il ponte di Lo Wu era uno dei punti più delicati di tutta la Cina… insieme agli altri due punti di transito. Uno era a Mau Kam Toh, dove le verdure e il bestiame arrivavano tutti i giorni, attraversando un ponte malfermo gettato sullo stesso fiumiciattolo che segnava per un lungo tratto il confine. L’ultimo, all’estremità orientale della frontiera, era nel villaggio di pescatori di Tau Kok. Lì il confine non era segnato ma, per comune consenso, passava in mezzo all’unica via del villaggio.
Quelli erano i soli punti di contatto tra la Cina e l’Occidente. Era tutto meticolosamente controllato e sorvegliato… da entrambe le parti. La tensione e il comportamento delle guardie erano come un barometro.
Quel giorno, le guardie di Lo Wu, dalla parte della Repubblica Popolare, erano nervose. Di conseguenza, anche quelle dalla parte di Hong erano nervose, e non sapevano cosa aspettarsi… forse una chiusura improvvisa, forse un’invasione come l’anno precedente, poiché la colonia esisteva soltanto grazie alla tolleranza della Cina. “E questa è una realtà della vita” mormorò l’ispettore capo Smyth. Quel giorno era stato assegnato lì in servizio speciale, e attendeva, irrequieto, accanto alla stazione di polizia, piazzata discretamente a un centinaio di metri di distanza dal vero confine, per non offendere nessuno e non creare fastidi. Cristo, pensò. Fastidi? Basterebbe un peto a Londra per fare arrivare qui milioni di profughi… se le autorità oltre confine decidessero che è un affronto alla dignità della Cina.
“Sbrigatevi, santo Dio” disse, mentre la camicia cachi gli si appiccicava alla schiena, tenendo gli occhi fissi sulla strada di Hong Kong. La strada era piena di pozzanghere, e descriveva una curva. Poi, in distanza, vide avvicinarsi la macchina della polizia. Le andò incontro, con immenso sollievo. Armstrong scese. Poi scese Brian Kwok. Smyth salutò Robert Armstrong portandosi il frustino alla visiera, per mascherare lo sbalordimento. Brian Kwok era in borghese. Negli occhi aveva una strana espressione, vacua e atterrita. “Salve, Robert” salutò Smyth.
“Salve. Chiedo scusa per il ritardo” disse Armstrong.
“Solo un paio di minuti. Per la verità, mi avevano detto al tramonto.” Smyth guardò verso ovest, socchiudendo le palpebre. Il sole non era ancora calato. Tornò a volgere lo sguardo verso Brian Kwok, faticando a nascondere il disprezzo.
Il cinese estrasse un pacchetto di sigarette. L’offrì a Smyth con dita tremanti.
“No, grazie” disse freddamente Smyth. Armstrong ne prese una. “Mi pareva che avessi smesso di fumare.”
“Avevo smesso. Ho ricominciato.”
Brian Kwok rise nervosamente. “Temo sia colpa mia. Robert ha cercato… ha cercato di salvarmi da Crosse e dai suoi angeli.”
Gli altri due non risero.
“Deve arrivare qualcuno? Qualcun altro?” chiese Smyth.
“Non credo. Ufficialmente no.” Armstrong si guardò intorno. C’erano i soliti curiosi, ma questo era normale. “Però sono qui. Da qualche parte.” I due uomini si sentirono accapponare la pelle. “Puoi procedere.”
Smyth tirò fuori un documento ufficiale. “Wu Chu-toy, alias Brian Kar-shun Kwok, lei è formalmente accusato di spionaggio contro il governo di Sua Maestà per conto di una potenza straniera. Per l’autorità dell’Ordine di Deportazione di Hong Kong, le viene ufficialmente intimato di lasciare la colonia della Corona. Se ritornerà, l’avverto ufficialmente che lo farà a suo rischio e pericolo, e potrà venire arrestato e detenuto a tempo indeterminato.” Cupamente, Smyth gli consegnò il foglio.
Brian Kwok lo prese. Sembrava che gli occorresse molto tempo per vedere e udire, come se fosse intontito. “E adesso… adesso cosa succede?”
Smyth disse: “Attraversa quel maledetto ponte e torna dai tuoi amici.”
“Eh? Pensi che sia così sciocco? Pensi che io creda che voi… che mi lasciate andare?” Brian Kwok si girò di scatto verso Armstrong. “Robert, ho continuato a dirti che stanno giocando con me, non mi lasceranno mai andare! Lo sai!”
“Sei libero, Brian.”
“No… no, so quello che sta succedendo. Appena io… appena sarò quasi là mi riporteranno indietro, la tortura della speranza, non è così?” Una nota stridula si insinuava nella sua voce, e c’era un fiocco di saliva all’angolo delle labbra. “Certo! La tortura della speranza.”
“Dio santo, ti ho detto che sei libero! Libero di andartene” disse Armstrong con voce dura. Non vedeva l’ora che finisse. “Vai, per amor del cielo! Non domandarmi perché ti lasciano andare, ma è così. Vai!”
Incredulo, Brian Kwok si asciugò la bocca, fece per parlare, s’interruppe. “Sei… è… è una menzogna, deve esserlo!”
“Vai!”
“E va bene, andrò…” Brian Kwok mosse un passo, poi si fermò. Gli altri due rimasero immobili. “Dici… dici sul serio?”
“Sì.”
Tremando, Brian Kwok tese la mano a Smyth. Smyth guardò la mano, poi lo guardò in faccia. “Se avessi potuto decidere io, ti avrei fatto fucilare.”
Un lampo d’odio passò sul volto di Kwok. “E tu e la tua corruzione? Non vendi la protezione della pol…”
“Non parliamone neppure! Il mio h’eung yau è normale, in Cina!” Ringhiò Smyth, e Armstrong annuì, a disagio, ricordando i primi 40.000 dollari che aveva giocato sabato alle corse.
“Ungere le ruote è una vecchia consuetudine cinese” continuò Smyth, tremando di rabbia. “Il tradimento no. Fong-fong era uno dei miei ragazzi, prima di passare all’SI. Vattene al diavolo e attraversa quel ponte, o ti spingerò io a frustate!”
Brian Kwok fece per dire qualcosa, ma tacque. Stordito, tese la mano ad Armstrong. Armstrong gliela strinse, senza amicizia. “Solo in ricordo dei vecchi tempi, per il Brian che conoscevo. Neppure io approvo i traditori.”
“So… so che sono stato drogato, ma grazie.” Brian Kwok indietreggiò, sospettando ancora un trucco, poi si voltò. Quasi a ogni passo continuò a voltarsi, temendo che lo inseguissero. Quando, a passi incerti, raggiunse il ponte, si lanciò in una corsa frenetica. La tensione salì alle stelle. Gli agenti alla barriera non lo fermarono. Non lo fermarono neppure i soldati. Gli uni e gli altri, preavvertiti, finsero di non vederlo. Le folle che transitavano ai lati dei binari, a piedi, in bicicletta, sui carri, non gli badarono. Dall’altra parte della barriera, Brian Kwok si fermò e si voltò indietro.
“Vinceremo noi, vinceremo, sapete!” gridò, ansimando. “Vinceremo!” Poi, temendo ancora un trucco, si chinò e fuggì in Cina. Accanto al treno, i due videro un gruppo di individui anonimi che lo intercettarono; ma ormai era troppo lontano per vedere bene. Sul ponte, la tensione si allentò. Il sole cominciò a tramontare.
Nella torretta d’osservazione, sopra la stazione di polizia, Roger Crosse osservava con un potente binocolo. Era ben nascosto. Accanto a lui c’era un operatore dell’SI con una cinepresa telescopica, egualmente nascosto. Il suo viso s’incupì. Uno degli uomini che avevano accolto Brian Kwok era Tsu-yan, il milionario scomparso.
Il sole s’era quasi immerso nel mare, a occidente. Casey era sul belvedere del Peak, e tutta Hong Kong era stesa ai suoi piedi, e c’erano già molte luci accese nella parte più buia della città, e Kowloon era color sangue, parzialmente già oscurata, con ombre fonde e riflessi sfolgoranti. Il sole sparì e cominciò la notte, la vera notte.
Ma lei non vedeva nulla di quella bellezza. Aveva ancora il viso bagnato di lacrime. Stava appoggiata alla ringhiera, in un angolo, dimentica di tutto. I turisti e la gente che attendeva alla vicina fermata dell’autobus la lasciavano in pace… erano troppo occupati a pensare ai loro affari.
“Per tutti gli dei, ho guadagnato una fortuna, oggi…”
“Io ho comprato subito e ho raddoppiato il mio fottuto denaro…”
“Ayeeyah, anch’io, e ho passato quasi tutto il giorno a negoziare un prestito dalla banca sulle mie azioni…”
“Ho comprato le Nobil Casa a 20…”
“Hai saputo che hanno dissepolto altri due morti a Kotewall e ormai sono sessantasette…?”
“Il fato! Non è un miracolo, quel che è successo in Borsa? La predizione di Tung, il Vecchio Cieco, si è avverata di nuovo…”
“Hai saputo di mia sorella, la terza cameriera Fung del Grand Hotel? Lei e il suo sindacato hanno comprato al minimo, e adesso lei è milionaria…”
Casey non sentiva nulla, non vedeva nulla, sopraffatta dal dolore. La gente andava e veniva. C’era qualche coppietta. Gli unici europei erano i turisti, con le macchine fotografiche. Casey cercava di nascondersi.
“Ehi, le serve aiuto?” chiese uno.
“No, no, grazie” rispose lei, con voce secca, senza guardarlo, incapace di trattenere le lacrime.
Devo smettere, pensò. Devo smettere. Devo ricominciare. Devo ricominciare daccapo ed essere forte e vivere, per me e per Linc. Devo proteggerlo, devo essere forte, essere forte.
Ma come?
“Non mi arrenderò” si disse, a voce alta. No. Devo riflettere.
Devo riflettere su quello che ha detto il tai-pan. Non per quel che riguarda il matrimonio, oh, Linc, non per quello. Devo pensare a Orlanda.
“È troppo sperare che diventeranno amiche?” Aveva detto davvero così?
Cosa devo fare, con lei?
Seppellirla. Mi aveva portato via Linc. Sì. Ma rientrava nelle regole che avevo stabilito io. Ian ha ragione. Lei non è come Quillan, ed è stato Linc… Linc si era innamorato di lei. Orlanda non è come Quillan Gornt.
Quillan. E lui? Era venuto in albergo, quel pomeriggio, per offrirle ancora il suo aiuto. Lei aveva ringraziato, rifiutando. “È tutto a posto, Quillan. Devo arrangiarmi da sola. No, ti prego, non venire all’aeroporto. Ti prego. Tornerò fra trenta giorni, forse. Allora sarò più lucida.”
“Firmi con la Struan?”
“Sì. Sì, è quello che intendo fare. Mi dispiace.”
“Non devi scusarti. Ti ho avvertita. Ma questo non esclude il pranzo la prima sera, quando tornerai. Sì?”
“Sì.”
Oh, Quillan, come devo comportarmi con te?”
Niente per trenta giorni. I prossimi trenta giorni spettano a Linc. Completamente. Devo difenderlo dagli avvoltoi.
Seymour Steigler, tanto per cominciare. Quella mattina era andato nel suo appartamento. “Ehi, Casey, darò le disposizioni per la bara e…”
“Già fatto. È tutto fatto.”
“Davvero? Benissimo. Senti, io ho già fatto i bagagli. Jannelli può prenderli e sarò all’aereo in tempo e così potr…”
“No. Porto Linc a casa, da sola.”
“Ma diavolo, Casey, abbiamo tante cose da discutere. C’è il suo testamento, c’è l’accordo con la Par-Con, adesso abbiamo tutto il tempo per pensarci con comodo. Possiamo rimandare e magari strappare qualche altra concessione. Noi…”
“Può aspettare. Ci vedremo a Los Angeles. Prenditi un paio di giorni di vacanza, Seymour. Torna lunedì prossimo.”
“Lunedì? Santo Dio, c’è un milione di cose da fare! Ci vorrà un anno per districare tutti gli affari di Linc. Abbiamo bisogno di consultarci con un legale. Il migliore. Lo farò subito, il migliore. Non dimenticare che ci sono la vedova e i figli. Lei farà causa a nome loro, naturalmente… e poi ci sei tu! Santo Dio, hai diritto a una grossa fetta. Faremo causa anche noi, non sei stata forse una moglie per lui per sette ann…”
“Seymour, sei licenziato! Vattene immediatamente e…”
“Cosa diavolo ti prende? Sto solo pensando ai tuoi diritti e…”
“Non hai sentito, Seymour? Sei licenziato!”
“Non puoi licenziarmi. Anch’io ho i miei diritti! Ho un contratto!”
“Sei un figlio di puttana. Sarai pagato profumatamente per rescindere il contratto, ma se ti azzardi a immischiarti con me o Linc o gli affari di Linc, farò in modo che tu non abbia niente. Niente. E adesso vattene.”
Casey si asciugò le lacrime, ricordando la sua esplosione di rabbia. Be’, lui è un figlio di puttana. Prima non ne ero sicura, ma adesso sì. Sono contenta di averlo licenziato. Scommetterei qualunque cosa che verrà a girarmi intorno come una iena. Sicuro. Scommetto che andrà a trovare l’ex signora Bartlett se non le ha già telefonato, e le monterà la testa, per rappresentare i suoi rampolli e attaccare la Par-Con e Linc. Sicuro, scommetterei qualunque cosa che lo rivedrò in tribunale, in un modo o nell’altro.
Bene, Dio mi aiuti, giuro che mi batterò. Proteggerò Linc comunque.
Dimentica quel bastardo, Casey. Dimentica le battaglie che dovrai sostenere, pensa al presente. E Orlanda? Linc, Linc le voleva bene… forse l’amava. Davvero? Non lo so con certezza. E non lo saprò mai.
Orlanda.
Dovrei andare a parlarle?