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Il contadino vuole una moglie

Gina ha trentanove anni. Si dovrebbe provare un sottile panico a quell’età, prossimi a sbattere contro i quaranta, ma si dà il caso che lei sia parecchio soddisfatta di sé, forse più di quanto non sia mai stata. Può fare uno sberleffo ai quaranta; il lavoro va bene, e c’è Philip.

Gina ha sempre considerato le relazioni una materia sfuggente: non contare su nulla, nulla è per sempre. Gliel’hanno insegnato alcuni errori e tradimenti della prima ora. Sa che è stata anche colpa sua, spesso e volentieri. I sei anni con David sono stati il suo record, e quell’unione era infine affondata, secondo le sue fosche previsioni.

Ma ora c’è Philip.

Gina si ritrova a pensare che forse stavolta. Si ritrova a sperare che forse stavolta.

Riconosce qualcosa di sé, in Philip. Anche lui è inquieto, si annoia e si irrita in fretta, è instancabile, curioso. Qualità che talvolta possono causare battibecchi, ma per lo più sono fonte di piacere, stima, la soddisfazione di risposte e reazioni comuni. E le piace com’è, il suo viso sottile con quella bocca espressiva, il taglio eloquente delle labbra, quegli occhi scuri e assorti. Adora i suoi interessi eclettici, la sua impetuosa concentrazione. Lo adora a letto.

La vita di Philip non è come la sua. Lui non è sempre in attesa di saltare a comando su un aereo. Ha più buonsenso, dice. È un produttore, un uomo che per lunghi periodi di tempo sta dietro una scrivania, uno che essenzialmente programma e pianifica, con occasionali scoppi di attività. La prende amabilmente in giro per la sua vita girovaga: siete fuori di testa, dice, voi altri amanti del dramma. Ma lei lo sa che ciò maschera rispetto e, spesso, preoccupazione. Gina chiama a casa con più frequenza di quanto non abbia mai fatto, cercando dalle stanze d’albergo sparse per i continenti il conforto della sua voce. Sa che quel tipo di vita non favorisce relazioni durature. Per la prima volta ha preso in considerazione l’idea di rinunciare agli incarichi all’estero e tornare a mostre canine e interviste a centenari, ma a un livello più alto: conferenze di partito, focolai di afta epizootica. Quando lo ventilò a Philip, lui sorrise: «Impazziresti nel giro di un mese; smanieresti per andare a Heathrow. Ormai ci hai fatto l’abitudine, sei marchiata. So perché l’hai proposto e ne sono lusingato. Ma non farlo». Gina ne fu sollevata e riconoscente. E comunque notava che tra i suoi colleghi sempre in giro per il mondo erano in molti a non avere il vincolo di un partner. Alcuni uomini avevano moglie e figli relegati nel Surrey; le donne erano quasi tutte senza legami. O senza felicità?

Avevano parlato di figli una volta sola. Brevemente. È una cosa che dovremmo affrontare, aveva detto lui. Io ci sto se lo vuoi davvero. Altrimenti... Altrimenti? aveva chiesto Gina. Altrimenti passo. Be’, anch’io, aveva replicato lei. E comunque ho trentanove anni. Il discorso era finito lì.

Lui non aveva figli dal precedente matrimonio. L’ex moglie aveva tentennato, presa da un lavoro che l’appassionava, finché l’idea dei bambini non era più parsa sensata, con il matrimonio agli sgoccioli. Meno male, disse Philip. Niente danni collaterali.

Gina sapeva che un giorno si sarebbe potuta pentire di quella decisione, se si era trattato di una decisione. In realtà, per ironia della sorte, la sua vita è piena di bambini. Quando accadono disastri, ovunque nel mondo, sono loro a essere in prima linea, a fornire la storia, le inquadrature, a rimanerle poi in mente: muti, con occhi spalancati, gli arti rinsecchiti e le pance gonfie, coperti di piaghe, deformi, con un moncherino al posto di una mano o di una gamba. Si confronta con questi bambini perché è il suo mestiere, sono il motivo per cui è lì, il mondo deve sapere di loro. Li porta dentro milioni di case confortevoli, per mettere a disagio.

Gina vive due vite. C’è quella londinese, a casa, nell’appartamento con Philip, i tragitti in metropolitana per andare al lavoro, la spesa al supermercato il sabato, i pranzi o le cene con amici, le puntate al cinema o alle mostre. Una vita nella quale le sofferenze sono minime e risolvibili in fretta: mal di denti (alza il telefono e chiama il dentista), un attacco di bronchite (antibiotici), un tubo che perde (idraulico). I rimedi sono a portata di mano, nella vita di Gina e in quella di tutti i suoi conoscenti. Ogni tanto a qualcuno accade qualcosa di terribile – un incidente in macchina, una diagnosi di cancro –, ma si tratta di eventi eccezionali, così lontani dalla normalità che si rimane scioccati e sbigottiti, persino indignati da tale intrusione, da un simile maligno promemoria.

Nell’altra vita di Gina, tutti vivono al limite. Lei si ritrova catapultata in mondi in cui tutto va a rotoli, in cui la gente patisce costantemente la fame, o viene uccisa a colpi d’arma da fuoco come niente fosse, è ammalata, sieropositiva, martoriata dalle mine, picchiata dagli scagnozzi di governanti dispotici. Gente per la quale un mal di denti o un problema al lavandino passerebbe inosservato. Gina e i suoi cameramen si muovono tra questa gente, guardano in faccia quelle situazioni ma sanno di farlo da dietro uno schermo invisibile, tenuti a distanza dal biglietto aereo che hanno in valigia, dai loro passaporti per una realtà in cui le cose vanno diversamente. Sono dei guardoni, come Gina talvolta sente con disagio, e deve ricordare a se stessa che è un voyeurismo a fin di bene, potrebbe portare a qualcosa, qualcuno potrebbe essere di aiuto.

I bambini di questi mondi distorti, per la maggior parte, non hanno mai conosciuto nient’altro. Il dolore è la norma, punto. Non che accettino la fame e la brutalità, semplicemente non sono coscienti di un’alternativa.

Gina pensa alla sua infanzia ad Allersmead. Protetta, privilegiata. Ma che condivideva quell’universale caratteristica dell’infanzia: essendo il mondo di Allersmead l’unico che loro conoscevano, non potevano avere idea di un’esistenza che non fosse così. Finché, naturalmente, non crebbero un po’ e si guardarono intorno, e videro che le famiglie si presentano in altre forme e dimensioni, che non tutte le case hanno una cantina e una cucina con un tavolo da dodici, che gli altri genitori sono diversi, anche se sempre riconoscibili come genitori.

Gina ricorda che queste percezioni furono una rivelazione. Ricorda quando – di punto in bianco o gradualmente? – riuscì a prendere le distanze da Allersmead e a osservare il tutto con una sorta di distacco, come se lei fosse un’altra. Guardava i suoi genitori e li vedeva con occhi nuovi: uno sguardo freddo, scrutatore.

Talvolta Gina si chiede se sia stato questo precoce esercizio di disamina e valutazione, di domande, a indirizzarla verso il suo lavoro attuale. I giornalisti fanno domande. Gina cominciò presto a farsi domande sulle circostanze della sua vita. Poi iniziò a farsi domande su molte altre circostanze, con tutta naturalezza.

Gina dice al ministro dell’Istruzione che il modo in cui il governo ha gestito lo sciopero dei minatori è stato una vergogna. Il ministro replica un po’ pungente che non è venuto in quel college per discutere dello sciopero dei minatori, ma che prende nota del suo punto di vista; è qui per incontrare gli studenti del biennio propedeutico all’università e illustrare la politica del governo in materia di educazione. Gina ha parecchie domande a riguardo; il ministro se ne va un po’ sfiancato. Uno non si aspetta di essere messo sotto torchio da una ragazzina di una scuola qualsiasi in mezzo alla campagna. Fa un ghigno di cortesia al preside e dice che è stata un’esperienza edificante, quella signorina che aveva così tanto da dire ha sollevato dei quesiti interessanti, andrà lontano quella ragazza, non c’è dubbio. Basta che sia il più lontano possibile da me, pensa.

A Gina piace il biennio propedeutico. È diverso dalla scuola, le dà soddisfazione, ci si sente adulti, rispetto a prima c’è più gente che la pensa come lei, il lavoro è più stimolante.

Ma ha dovuto lottare per arrivarci.

«Non sei mai stata la mia preferita» dice. È mamma che lo dice. E Gina è sconcertata. Sconcertata in una forma del tutto inusuale per lei. Lei è quella capace, autosufficiente, indipendente, che prende a modo suo quel che viene e lo affronta.

Fissa sua madre, che per l’ennesima volta sta parlando a ruota libera: «...Be’, se proprio devi andare, allora vai, ma sappi che lo trovo strano, voglio dire... Guardati qui nella tua deliziosa famiglia, trovi tutto pronto, pasti squisiti fatti in casa... Ti rendi conto, vero, che dovrai portare i vestiti in lavanderia e lo sa il cielo come farai per mangiare... Non riesco proprio a capire, per un insegnamento di tipo diverso, dici, voglio dire, andavi bene a scuola...»

L’aveva detto? Erano sgusciate fuori quelle parole, ora spazzate via? Non sei mai stata...

«...Sei sempre stata così, ti metti in testa una qualche idea e non la molli, scrivere al Primo ministro... Se non ti spiace me lo ricordo, dovevi assolutamente avere una macchina per scrivere, l’anno scorso, mesi di paghetta, per il compleanno e Natale solo soldi in regalo... un’ossessione, e ora scappi via in un college per il biennio propedeutico lontano cinquanta chilometri, tutta la settimana in una camera in affitto...»

Mai la mia preferita. Be’, non aveva mai pensato di esserlo; è un problema?

Da qualche parte, in qualche profondo, fragile e insospettato cantuccio, lo è.

In una grande famiglia ognuno ha la sua etichetta. Sandra era quella carina, Roger era intelligente, Clare era atletica, Paul era il più grande – la primogenitura pesa un sacco –, Katie era servizievole. Io ero difficile, pensa Gina. Io ero «Gina, non fare tanto la difficile».

«Difficile» significava discutere, contestare un ordine o una decisione. Essere razionali, secondo la mia idea.

Papà non era così contrario al mio essere difficile, gli piacevano le discussioni. I ragionamenti su un qualche argomento neutro erano i benvenuti. Mamma la riteneva nella migliore delle ipotesi una cosa da stupidi, nella peggiore da insolenti.

All’età di dodici anni Gina si era resa conto che la loro era una scuola di merda. A sedici, aveva scoperto l’esistenza dei college propedeutici all’università e aveva visto che ce n’era uno in una città un po’ lontana. Aveva fatto domanda, l’avevano accettata, si era procurata il giornale cittadino e aveva scovato una stanza nella casa di un’anziana vedova, poi aveva riferito il progetto alla madre. Aveva già sbrigato le formalità con il college, dove chiaramente avevano approvato il suo spirito di iniziativa.

E così tutto ebbe inizio. Fuga parziale da Allersmead a sedici anni, fuga definitiva per l’università a diciotto. Di lì in poi, il distacco.

«Hai un passato estremamente scarno» dice Philip. «Oppure sarebbe meglio dire ’sotto embargo’? Te ne rendi conto?»

«Ne ho avuto fin troppo di quello degli altri» replica lei.

«Oh, be’... capita a tutti. Ma tu sei l’estremo opposto. Le cose da te bisogna estrarle con le pinze.»

Gina sorride.

«Ci sono voluti due mesi prima che risultasse evidente che avevi una famiglia. Cominciavo a credere che tu fossi orfana, o affidata ai servizi sociali.»

Lei ride. «In un certo senso...»

«E in seguito non sei stata quel che si dice un libro aperto» continua lui. «Di Radio Swindon si è parlato... gli inizi. Da allora, qualche incarico significativo.»

«È tutto nel mio curriculum» replica Gina.

«Lo so. L’ho letto. È quel che c’è tra le righe che mi interessa.»

«Sai di David. Sai dei vari litigi con i miei direttori.»

«Certo. Tutto nella sfera pubblica, per così dire. Ma sono i punti di svolta che vorrei capire.»

«Oh, quelli» dice Gina.

Sono nel bistrot francese, che ha soppiantato il posto turco. Gina ha un incarico in Sudafrica la prossima settimana. Sono entrambi consapevoli dell’imminente separazione.

«La domanda è» continua lei: «si è in grado di riconoscerli? Non sul momento, questo è certo».

«Ma riaffiorano, no?»

«Insieme a tante altre fesserie. Cose di cui ti ricordi e che non c’entrano un bel niente.»

«Be’, questo non sta a te dirlo. Magari rivelano qualcosa di profondo.»

Gina riflette. Poi: «Stiamo andando a scuola a piedi e su uno steccato c’è un bruco con una striscia verde sul dorso, e Roger se lo mette nell’astuccio. Che cosa rivela?»

Philip fa spallucce. «Lo dovresti chiedere a uno psicologo.»

Altra riflessione. «Sono in Bosnia, credo, e il nostro cameraman è seduto sul ciglio della strada intento a mangiare un bel pezzo di pane e formaggio. Lo mette giù per un attimo, un cane randagio gli si avvicina di soppiatto e se lo pappa.»

«Stai imbrogliando» dice Philip. «Fai apposta a spiattellare robaccia.»

Possibile. Probabile. Gina sa di essere forse poco propensa a esporsi. Perché? Be’, presumibilmente anche questa è materia per gli psicologi. Basti dire che preferisce non rendere noti troppi dettagli di tutti quei momenti retrospettivi, persino a Philip, che ama. La vita interiore di ciascuno è abbastanza oscura, a modo suo; non c’è bisogno di esibirla agli altri.

Di oscurità ne esistono vari tipi. Quella dei momenti che si preferirebbe cancellare, quando si è fatto qualcosa di stupido, spiacevole, deplorevole. Quel cameraman: l’epilogo dell’episodio «cane mangia pane e formaggio» fu che lei quella notte andò a letto con quel tipo, uno che conosceva appena, che avrebbe potuto non rivedere mai più, che non le piaceva più di tanto, e perché diavolo l’aveva fatto? Oscurità.

Ma esiste anche quell’altro tipo di oscurità... momenti che sono scivolati in una sorta di nebbia, distese temporali in cui sbirci, quando vedi una parte di quel che accadde e il resto lo cerchi a tentoni.

Gina è nell’atrio a bighellonare, a fare le boccacce allo specchio sopra il tavolo. Non c’è nessun altro nei paraggi, il che è un evento eccezionale: ad Allersmead c’è sempre qualcun altro nei paraggi. Sente parlare di sopra: Roger e Katie, la vocina di Clare che interviene di tanto in tanto. Gli altri potrebbero essere fuori. Ingrid è andata da qualche parte, già da un po’, e anche questo è un evento insolito. Ingrid è strana ultimamente.

La porta dello studio di papà è appena socchiusa e ora Gina sente delle voci dall’interno. Papà sta dicendo qualcosa e mamma si intromette, a voce alta, con quel suo tono che sottende uno stato di agitazione.

«Le devi parlare.»

La risposta di papà non si sente.

Di nuovo mamma, stridula: «Se dovesse andarsene, lo sa il cielo che cosa... Non deve portarsi via Clare».

Gina comincia pigramente a interessarsi. Portare via Clare dove, e perché?

Papà replica: «Dubito che abbiamo il benché minimo diritto di impedirglielo».

Mamma, livello pericolo: «Non ti importa?»

Da papà nulla. Silenzio.

Mamma, ora più calma, pericolosa in altro modo: «Questa è una famiglia. Clare ne fa parte. E la responsabilità della situazione è tutta tua. O no?»

Papà risponde: «È pressoché improbabile che me ne dimentichi».

Mamma ora non si sente. C’è un breve flusso di suoni da cui emergono sporadiche parole: «...ferita... shock... giovane...»

Silenzio. Quindi papà dice: «Certamente. Un’aberrazione che ho pagato a caro prezzo».

Una che? Cos’è che ha pagato papà? Gina è ora ben attenta, consapevole della tensione, del comportamento strano degli adulti e di ciò che dicono. Perché si parlano così?

Un’asse del pavimento scricchiola. Qualcuno si muove nello studio. Mentre suo padre apre la porta, Gina si precipita in cucina, appena in tempo.

Radio Swindon sembra lontana anni luce. Gina oggi non è quel che si dice un nome conosciuto, ma il suo viso risulta vagamente familiare a moltissima gente. All’epoca della radio, era una ragazza con un microfono che aspettava al varco consiglieri comunali, uomini d’affari e gente della strada, con educata insistenza; ora ha dalla sua l’autorità della rete televisiva, la sua squadra di assistenti... non è così facile evitarla. Ma lei non si sente molto diversa: il gioco è lo stesso. Ti fai largo a spintoni dove potresti non essere desiderata, poni alla gente domande a cui potrebbe non voler rispondere, ma informi, anche, sveli, comunichi. È un modo perverso di guadagnarsi da vivere, pensa talvolta.

Era programmata per questo fin da piccola, ha l’impressione: il bisogno di chiedere, di indagare, un certo gusto per la discussione. Forse ha cominciato a farsi le ossa con quel ministro dell’Istruzione. Ricorda il piacevole frisson di sdegno davanti a quella figura paternalistica, resa autoritaria dal suo status, che intimidiva la ragazzina inerme. Sarò anche giovane, aveva pensato Gina, ma un paio di opinioni riesco a tirarle fuori.

Aveva preso in considerazione di far carriera in politica, poi però aveva cambiato idea, ravvisando nei politici l’interesse personale, l’eccessiva disinvoltura e la volubilità fatte mestiere. O arrivi in cima facendoti largo a spallate, o passi la vita a cianciare nelle retrovie.

I tempi di Radio Swindon saranno lontani, ma per Gina furono cruciali. Fu allora che comprese che cosa voleva fare, che mestiere avrebbe fatto. Adorava la natura capricciosa delle interviste, la loro imprevedibilità. Il centenario che d’un tratto prorompeva in bestemmie, lasciando spazio alle riflessioni del redattore in studio; le pericolose insidie della vox populi... persino a Swindon potevano lasciarti sbigottita.

Fuori da una scuola elementare, tra le madri che aspettano i bambini, Gina è a caccia di opinioni sul numero di figli. Un guru del settore sostiene che l’ideale sia due, tre all’occorrenza; se ne è parlato molto sui giornali. Gina rifila domande tendenziose, nella speranza di indurre qualcuna a dire che quello è il primo passo verso limitazioni obbligatorie, sulla falsariga della Cina. Le madri in gran parte non collaborano e danno risposte prudenti: è bello se si riesce ad avere sia un maschio che una femmina, poi si ha l’impressione di averne fatti abbastanza; certo, l’incidente può sempre capitare, no? (Risatina.)

Poi una donna fa: «Quanti anni hai, cara?»

Gina sorride, cercando di svicolare. L’intervistato non fa le domande.

«Più giovane di quasi tutte noi, comunque. Niente figli?»

Così non va. «Be’, no» risponde Gina. «Mi dica, lei pensa che ci si dovrebbe limitare a due figli?»

La donna risponde: «Vedrai, cara. Quando si comincia, non si sta lì a contarli. Arrivano oppure no. In quanti figli eravate nella vostra famiglia?»

Gina sorride di nuovo, elusiva. «Supponga che una legge stabilisca un limite al numero dei figli: lei la rispetterebbe?»

«Quanti?» insiste la donna.

«Sei» replica Gina brusca.

«Cattolici?»

La cosa le sta sfuggendo di mano. «No» dice Gina. «Lei personalmente sarebbe disposta a...»

«Sei e nemmeno cattolici» ribatte la donna. «Quindi, o tua madre non riusciva a farsi valere o era masochista. E tu come ti sei trovata in una famiglia così grande?»

Gina ora è sulla difensiva. «A dire il vero, non è esattamente questo il punto» risponde.

«Su» continua la donna, «non mi dire che non passavate il tempo a tirarvi i capelli. Eravate maschi e femmine?»

Basta così. Gina capisce quando la surclassano. Chiudere l’intervista, il più elegantemente possibile, e andarsene.

Adesso ha trentanove anni, allora ne aveva... quanti? Ventidue o ventitré. Non riesce a vedere quell’altra se stessa, reporter alle prime armi che importuna donne più grandi di lei comprensibilmente refrattarie alle sue domande. Non ci si vede nelle proprie versioni precedenti; si rimane l’osservatore, il centro dell’azione, la persona per cui sta avvenendo un qualche fatto. Ogni scena è sospesa, fissata nella mente: un capitolo chiuso ma che continua per sempre.

E che dire di quest’altro? Precedente? Successivo? Gina sa soltanto che si trova – si trovava – nella cucina di Allersmead con Sandra e Ingrid, che sta stirando. Di che cosa avevano parlato per essere finite su quel discorso? Gina non lo sa, sa solo che ciò che si dissero dopo si è cristallizzato nella sua testa, solo questo dialogo.

Ingrid alza gli occhi dal ferro da stiro. Si rivolge a Sandra: «Era la festa di compleanno di Gina. Naturalmente tu non avevi intenzione di spingerla. Non tanto da farle male. Solo che l’hai spinta un pochino».

La fissano.

«Come fai a saperlo?» domanda Gina.

Ingrid alza le spalle. «L’ho visto.»

Gina si gira verso Sandra. «Tu te lo ricordi?»

Sandra guarda altrove. «Non proprio. Mi ricordo... il trambusto. Avevo sette anni.»

È probabile che l’abbia fatto, pensa Gina. È plausibile. Mamma lo sapeva? Mamma lo sa?

Gina chiede a Ingrid: «Mamma lo sa?»

«Non se n’è accorta» risponde Ingrid. «Soltanto io ho visto.» Ha un tono nettamente compiaciuto.

Gina ride, lasciando di stucco tutte e tre. «E per tutto questo tempo tu hai tenuto la bocca chiusa. Perché?»

Ingrid continua a stirare. Distende una manica sull’asse, la spiana. Scrolla le spalle. «Era una cosa che sapevo solo io. Mi piaceva l’idea.»

Gina dice a Sandra: «Ti perdono. È stato un atto di aggressione senza scusanti, ma ti perdono».

Alison entra nella stanza. «La perdoni per cosa, tesoro?»

Ingrid sembra sul punto di dire qualcosa.

«Per aver usato il mio shampoo» risponde Gina. «Quanto si può essere magnanimi. Eh, Ingrid?» Fa un gran sorriso a Sandra (eclissata, spiazzata) ed esce con passo maestoso dalla stanza.

Una famiglia è una massa coesa, un insieme di persone, unite perché così va il mondo, che procede in questo modo di giorno in giorno, di anno in anno, e chi lo mette in discussione? I componenti di tale massa possono fare le loro sortite individuali nel mondo esterno – possono andare a scuola, al lavoro, a fare spese –, ma rientrano sempre in quell’unità autonoma. Finché, com’è nella natura delle cose, avviene una fissione, ma ad Allersmead ciò è accaduto moltissimo tempo fa, un tempo addirittura impensabile per quello che ora sembra a Gina un eterno presente. Allersmead è stata, e con essa i suoi abitanti, salvo che di tanto in tanto può capitare di soffermarsi per un momento a osservare, a valutare.

Gina guarda Clare un giorno e vede che assomiglia a Ingrid, le assomiglia molto. Non l’aveva mai notato prima? Be’, sì... ma prima non ci aveva mai pensato.

Ci pensa.

Roger e Katie assomigliano a mamma. Paul a papà. Io e Sandra abbiamo un po’ di entrambi. Mentre Clare...

Le persone non si assomigliano solo perché vivono nella stessa casa. È una questione di geni.

Rimugina su questi pensieri per un po’. Alla fine ne parla con Paul, che sembra un po’ perplesso. Quando affronta la cosa con Sandra, in un raro momento di confidenze, lei non è perplessa: è spiccia. «Sì» dice, «lo so. L’ho notato anch’io.»

Ma Ingrid non ha fidanzati. Ingrid non ha una vita all’infuori di Allersmead, per quanto ne sappiano loro. Jan, il tipo che si presentò a Crackington Haven, è ancora nel futuro. Avevo cinque anni quando arrivò Clare, pensa Gina. Sandra ne aveva quattro. Fu molto prima della volta che Ingrid se ne andò. Ingrid era lì fin dall’inizio, e da nessun’altra parte. E ci è rimasta sempre. Lo stanno pensando tutte e due, ma non fanno commenti. Però, le sopracciglia di Sandra si inarcano.

«Quindi perché restò?» chiede Philip. «Perché non si prese Clare e se ne andò via? Non sembra che lei e tuo padre fossero esattamente...»

«Uniti?» ribatte Gina in tono gelido. «Oh, no. Se mai lo sono stati.»

«Quindi perché?»

«Eravamo una famiglia, no? Le famiglie sono indissolubili.»

Philip è interessato. Allersmead lo interessa. Gina è divertita, più che irritata, da questo suo interesse, perché sa che è fatto così. Lui indaga, andare a fondo è il suo mestiere. E a lei questa caratteristica piace. Inoltre, può sbirciare attraverso gli occhi di Philip, può vedere Allersmead come la vede lui, come uno sconcertante e affascinante fenomeno; mentre per lei è soltanto l’immutabile realtà da cui proviene.

Per la verità ultimamente non pensa molto alla sua famiglia, né ad Allersmead. Ogni tanto si fa viva con Paul. Talvolta sua madre la chiama. E, certo, quel suo eterno presente slitta all’indietro, ricordandole che ognuno è per sempre legato a un altrove, a un tempo e a un luogo diversi.

Oggi, lei è ovunque: a casa, in ufficio, in giro per Londra, su un aeroplano, intenta a scendere da un aereo in uno di quei mondi alternativi che compongono il globo. È ovunque ormai da anni, lontana migliaia di chilometri da Allersmead. Allersmead giace sommersa da molti strati di esperienze successive, alcune delle quali le hanno rivelato qualcosa su Allersmead.

Gina considera il matrimonio una curiosa istituzione. Al giorno d’oggi la gente non se ne preoccupa più di tanto. Forse prima o poi scomparirà del tutto. Sembrerebbe sopravvivere per la sua valenza legale, e per alcuni religiosa; inoltre, a un discreto numero di ragazze piace ancora agghindarsi ed essere al centro dell’attenzione per qualche ora di giubilo. E certamente è stato sostituito da un qualcosa di molto simile, seppure non così rischioso da un punto di vista legale. La convivenza è un matrimonio senza la burocrazia. I piaceri e i pericoli sono gli stessi.

In giro per il mondo, Gina ha visto e osservato il ruolo subordinato delle donne sposate in molte società. Le donne fanno da mangiare e badano ai figli. Le ricorda qualcosa, no? Vede Alison nella cucina di Allersmead che scodella pasti su pasti su pasti. Non deve andare a prendere l’acqua al pozzo, né macinare il grano, né mungere la capra, ma il lavoro di tutta la sua vita è stato la produzione di cibo. Una vera fortuna che cucinare le piaccia davvero, pensa Gina.

Servile. La subordinazione implica una condizione inferiore, fare quel che ti viene detto, o quel che ci si aspetta da te. Ma mamma faceva quel che faceva perché era ciò che voleva. Papà aveva da mangiare e da bere così come tutti noi, e indubbiamente avrebbe protestato se il servizio si fosse interrotto, però non dava istruzioni.

E per la verità cosa le diceva? Se si mette in ascolto, Gina capta frequenze piuttosto silenziose in tal senso. Non si dicevano molto, trova. Per lo più mamma parla con tutti, o si rivolge a uno di loro in particolare. Papà fa qualche commento, la gran parte delle volte sarcastico, o sta zitto, o semplicemente non c’è, ritirato nel suo studio. Gina non sente i suoi genitori parlare della situazione del paese, ma nemmeno di cosa fare nel fine settimana.

Pensa al dialogo tra lei e Philip: un dialogo quotidiano, continuo. Vede di nuovo i suoi genitori. Si interroga su questo strano e necessario sistema che mette due persone l’una accanto all’altra, a letto e fuori dal letto, su questa precaria congiunzione.

È una bambina, sette anni forse, o otto. Sono su una spiaggia, durante le vacanze estive, e lei sta sguazzando tra le onde che si infrangono a riva. Si gira a guardare e vede i suoi genitori piccolini e lontani, seduti fianco a fianco su un telo. Papà legge. Mamma spalma la crema solare a Katie e Roger. Tutto intorno ci sono altri gruppi, altre famiglie. Osserva che il mondo è fatto di famiglie; per ognuno rappresentano il legame, l’identità. La spiaggia è composta di tali unità autosufficienti, autonome, estranee le une alle altre: gli unici volti conosciuti sono quelli di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle sue sorelle.

David un giorno le disse: «Tu non hai bisogno di me. Io ti piaccio, forse mi ami, ma non hai bisogno di me». Lei lo prese come un rimprovero, una critica, ma sapeva che aveva ragione e intravedeva la fine della loro relazione, come un banco di nuvole all’orizzonte.

David oggi sta con un’altra donna. Hanno un figlio. Gina ora capisce che era David ad aver avuto bisogno di lei, e che in quello squilibrio stava il nocciolo delle difficoltà in cui si erano imbattuti. Forse il bisogno è l’elemento fondamentale di ogni relazione, il collante necessario. Bisogno sessuale; bisogno emotivo; bisogno materiale. Ma devono essere entrambe le parti ad avere bisogno, in un modo o nell’altro, oppure la situazione va a rotoli.

A Gina non interessa valutare i livelli di bisogno, per quel che riguarda lei e Philip. Ogni tanto, con circospezione, dà un’occhiatina al suo, di bisogno, e lo vede piuttosto netto... ma in una maniera sana, si direbbe. Vale anche per lui? No, lasciamo perdere. Incrociamo le dita.

«Il contadino vuole una moglie, il contadino vuole una moglie.» Gina sente la filastrocca; la cantavano durante quel giochino che facevano alle feste di compleanno, in cerchio, con uno in mezzo, mamma che incitava tutti a mettersi in posizione, il grammofono a molla che gracchiava la musichetta (erano la sola famiglia ad avere ancora un grammofono a molla: i bambini invitati lo fissavano a bocca aperta). «Cantiamo tutti ora!» esclama mamma. «Il contadino vuole una moglie, il contadino vuole una moglie...»

Il contadino ha bisogno di una moglie che gli faccia da mangiare e gli lavi i vestiti e munga la mucca e gli dia vigorosi figli maschi per lavorare la terra. Ma la moglie non vuole lui, o così le pare di ricordare, lei vuole un figlio, il bisogno primordiale. In realtà però la moglie avrebbe avuto bisogno di lui, persino se non lo voleva, perché agli inizi dell’età moderna e anche dopo (il corso di storia seguito da Gina all’università gliel’ha insegnato) la posizione di una donna non sposata era incerta: avevi bisogno di un uomo che ti procurasse vitto e alloggio e che ti desse uno status sociale. Vedi Jane Austen, vedi le difficoltà delle ragazze di fronte alla scarsità di uomini negli anni successivi alla Prima guerra mondiale.

Quel tipo di bisogno non è più molto comune nell’ambiente di Gina, ma di sicuro sussiste ancora altrove. Gina ha documentato la terribile realtà di donne i cui mariti sono stati massacrati in Ruanda, nel Sudan, donne lasciate con una nidiata di figli da sfamare e senza nessuno che provveda a loro. Di fatto ci sono anche a Glasgow, o a Brixton. Non si tratta di status sociale: a una donna serve un uomo per solidi motivi pratici. È solo nel mondo dorato dei lavori ben retribuiti che tale necessità è stata eliminata.

Gina ha bisogno di Philip, pensa, ma non ha bisogno di un figlio, non lo vuole. Non particolarmente. Se arrivasse un bambino, be’, in quel caso farebbero del loro meglio, non c’è dubbio, alla fine ne sarebbero felici, forse. Ma sta di fatto che rinuncerebbe ben volentieri, così come Philip. L’evidente brama di sua madre per i figli le è pertanto misteriosa; non riesce semplicemente a immaginare di provarla. Ricorda il palese disgusto di Corinna, zia Corinna, ogni volta che veniva ad Allersmead e si doveva fare strada nella mischia di nipotini e nipotine. Non le piacevano i bambini e non ne faceva mistero, pensa Gina. In questo sono come Corinna? Non sia mai. L’arida e accademica Corinna... vero che sono più umana di così? Corinna era la mia «protettrice» (ad Allersmead non si diceva «madrina»), ma la sua protezione non andava oltre un libro per il compleanno e uno a Natale, e qualche sporadica manifestazione di benevolo interesse. Il giornalismo rientra a malapena nell’orizzonte di Corinna: su di lei fanno colpo solo i risultati ottenuti all’interno della sua sfera rarefatta. Io non scrivo saggi su poeti dell’Ottocento, e quindi non rientro nel suo ambito di competenza. Quando compii sedici anni, mi regalò il suo libro su Christina Rossetti: «Ho l’impressione che forse sei sufficientemente grande per leggerlo, Gina».

Gina ricorda il malcelato disprezzo di Corinna per Alison. Le donne come Alison erano anacronistiche, arretrate, incastrate nello schema mentale di un’altra epoca, impantanate fra cura dei figli e lavoro in cucina, neppure lontanamente consapevoli dell’aria fresca che si respira fuori... quello era il punto di vista di Corinna. Ignorava mamma, pensa Gina. Le sue parole se le faceva scivolare addosso senza ascoltare. E, ripensandoci, Gina riesce a evocarle entrambe; ce le ha in testa, chiarissime, le vede e le sente. Straordinario, pensa, come siamo infarciti di altre persone, tutte che ci mulinano nella mente, i loro visi, le voci, conservate come spettri, incorporee ma inestinguibili.

Alison è a un capo del tavolo in cucina, a versare il tè dalla grande teiera azzurra. Indossa una roba fatta di velluto a costine marrone, uno di quegli indumenti sformati che predilige; glieli fa Ingrid, usando un consunto modello di Butterick. Ciuffi di capelli le escono dallo chignon in cui sono stati malamente attorcigliati. «Latte, Corinna?» chiede. «Su, prendi una fetta di torta alle noci.»

Corinna porta una camicetta bianca inamidata sotto una giacca blu; sul risvolto ha una spilla d’argento, un nodo celtico che fa pendant con gli orecchini. I capelli corti e lisci hanno un taglio sapiente. Sta parlando con Charles, allunga il braccio per prendere il tè ma non la torta. Gli sta illustrando il suo nuovo progetto su Swinburne: «Così sottovalutato, non sei d’accordo? Gli restituirò il posto che gli spetta». Deve alzare la voce per competere con il chiacchiericcio attorno al tavolo; tutta la famiglia è riunita. Charles sembra studiare la sua tazza.

Alison interviene da dietro la teiera: «È uno di quelli che ci facevano imparare a memoria a scuola? Sono una frana con i nomi. Roger, sta’ fermo con i piedi, non riusciamo a sentire quel che diciamo. Certo, ora non imparano più a memoria, ma credo proprio che avesse un senso, io ne ho un’infinità in testa: ’Il fanciullo si ergeva sul ponte incendiato...’, ’Lars Porsenna di Clusium, sui nove dèi giurò...’ Di chi era questa? Tu lo saprai, Corinna. Clare, non panino e torta insieme. Penso che la poesia sia tanto importante... Sapete che adesso a scuola le scrivono, invece di impararle? Gina ne ha scritta una deliziosa come compito a casa la settimana scorsa, l’ha dovuta leggere ad alta voce in classe. Gina, prendila e falla vedere a Corinna».

Charles interviene. Dice: «Niente sadismo durante il tè, per l’amor del cielo».

Alison aggrotta la fronte. «Non capisco, caro. Gina, non vorresti...»

Gina la fulmina con lo sguardo.

«Era di Macaulay» dice Corinna senza guardare Alison, sempre rivolta verso Charles. «Stavo pensando di provare con la Oxford University Press, questa volta. Tu hai pubblicato con loro? O forse non sono abbastanza commerciali per te?» Sorride maliziosa. «Per fortuna non è motivo di grossa preoccupazione, quel che mi preme è che il libro sia ben curato, e ovviamente le prenotazioni da parte delle biblioteche accademiche sono garantite.»

Charles spinge la tazza vuota sul tavolo verso Alison. «Una vera manna. Sebbene anche noi che dipendiamo dai lettori abbiamo ancora piuttosto a cuore che i nostri libri siano ben fatti.»

Indossa un maglione nero su una camicia grigia con il colletto logoro. Una stanghetta degli occhiali è fissata con un pezzo di cerotto.

È così che continua a fluttuare nella mente di Gina. Lui e tutti gli altri.

Gina non vede Sandra da anni. Né Katie, né Roger. Si sente con Paul abbastanza spesso, l’ha sempre fatto. Ora lo vede quando va ad Allersmead, mentre prima le volte che lui si faceva vivo e proponeva di bere qualcosa insieme.

Quando la compagnia di danza di Clare, che ha sede a Parigi, viene a Londra, anche Clare telefona. Gina l’ha vista ballare un sacco di volte e rimane sempre stupefatta di fronte alla flessuosa professionista sbocciata dalla Clare bambina, dalla Clare adolescente che faceva la spaccata nel salotto di Allersmead. Rimane stupefatta anche di fronte alla giovane donna che parla con senso pratico di ritirarsi a breve. Clare ha trentadue anni. Intorno a quell’età si è tagliati fuori, nel suo mestiere. La compagnia in cui danza Clare non è da tutù e balletti di Čajkovskij; il suo è il mondo della danza moderna, tutta figura e stile, lontana da Djagilev quanto James Joyce lo è da George Eliot, pensa Gina, o Picasso da Stubbs. Gina ha apprezzato gli spettacoli, benché non sia la sua forma d’arte preferita. Ma le piacciono la grazia e il gesto atletico, l’inventiva, gli elementi di forte emozione e di sorpresa. Quando individua Clare sul palcoscenico, la vede come una creatura che ha ben poco a che fare con la Clare di un tempo, la bambina che lei ha in testa. Poi però, sedute a bere un caffè o a pranzare, la bambina riaffiora, racchiusa in questa donna elegante e delicata che attira le occhiate della gente. Magra come un fuscello, e sempre quei capelli color del grano, stretti in uno chignon sul collo. I capelli di Ingrid, ma questo non viene mai detto, nemmeno ora; nessuno sfiora la cosa, la questione è sotto sigillo, ben riposta per evitare che faccia danni.

«Ritirarti?» chiede Gina. «Gesù! E poi?»

«Forse l’insegnamento» replica Clare con una scrollata di spalle. «Riqualificata come assistente sociale?» Ride. «La campagna, magari. Pierre ha adocchiato un vigneto in Linguadoca.» Il compagno di Clare fa il consulente informatico. Sbircia Gina. «Da voi non si andrà mica avanti per sempre?»

«Mamma mia, no» risponde Gina. «Con l’età, si viene discriminati un sacco nel mio lavoro. Vai avanti finché non ti scalzano giovani turchi che hai alle spalle.»

«Sei così brava a fare quel che fai...»

«Tu sei parecchio in gamba, direi» ribatte Gina. Si sorridono.

Clare è appena stata ad Allersmead. «Non riesco a credere di averci vissuto per anni. Mi sembra un paese straniero, ora. Loro sono sempre gli stessi, vero? Magari un po’... sbiaditi. Mamma continua a fare allusioni sui nipotini.»

Gina studia Clare. È difficile immaginare come un bambino potrebbe stare in quel corpo magro. «La accontenterai?»

Clare scuote la testa. «Probabilmente no.»

«La spinta genetica sembra essersi estinta con la nostra generazione» commenta Gina.

«A dire il vero, non è che i bambini mi piacciano un granché. È una brutta cosa?»

«La pensavo anch’io così, ai tempi di Allersmead.»

Ridono.

«Siamo un gruppetto ben assortito, no?» continua Clare. «Volati via in tutte le direzioni. Ognuno a fare cose diversissime.»

«Vero. Non depone molto a favore della nostra educazione.»

Si esaminano a vicenda sopra il tavolo: due donne che operano in mondi immensamente lontani, ma prodotte dallo stesso ambiente.

«Nessuno di noi che fa figli» prosegue Gina. «Tranne forse Rog, immagino, con il tempo. Siamo tutti sparsi per il mondo, eccetto Paul.»

«Come sta Paul?»

Gina fa una smorfia. «Bene. Per i suoi standard.»

Clare sospira. «Che gli sarà successo?»

Un breve silenzio. «Chi può dirlo? Educazione, o carattere? Mamma lo soffocava, no? Il suo preferito. E lui è... be’, inconcludente, suppongo. Mentre noi no. E lui punzecchiava papà, che così gli riversava addosso il suo sarcasmo. La ricetta giusta per... mmm, crescere senza amor proprio?»

Clare annuisce. «E alla fine è l’unico ad avere ancora un qualche legame con Allersmead. Quindi noi ci siamo sparpagliati in lungo e in largo per colpa di Allersmead?»

«No. Tu sei dove sei perché sei un’ottima danzatrice. Io faccio quello che faccio perché mi impunto sulle cose e sono discretamente insistente e adoro le missioni all’estero, e Rog è un medico in carriera e» Gina allarga le braccia «siamo quel che siamo.»

«In ogni modo, direi che siamo... andati via, no? Addio famiglia. L’archetipica famiglia di mamma.»

Mamma.

«Mamma» continua Clare, sollevando elegantemente un sopracciglio e sorridendo. «Lo so. Ma che altro dovrei dire?»

Gina è presa alla sprovvista. La cosa di cui non si parla. Rimane in silenzio per un attimo, poi: «Avremmo forse dovuto sederci a discuterne anni fa? Far sedere loro... fargli affrontare la questione?»

Clare scuote la testa. «No. Confondere le acque era meglio, secondo me.»

«Ti devi essere sentita...» Gina sfuma in un altro silenzio. Non ha molta idea di come deve essersi sentita Clare, dopotutto.

«Confusa? Oh, sì, certo. Ricordo di averti chiesto se nostro padre era mio padre. Dopo una funzione di Natale. Tu mi assicurasti di sì.»

«Davvero? Io ricordo di... averlo più o meno capito... molto tempo fa. Poi di averlo messo da parte, non sapendo che altro farne.»

«Esatto» dice Clare. «Come tutti noi. Anche loro. Tutti e tre.»

«Già, loro. Ed eccoli ancora lì. Quel che resta della famiglia. Ironia della sorte, no?»

Si fissano.

«Fiuuu!» esclama Gina. «Avremmo dovuto farlo da un pezzo. Ma tu... tu stai bene?»

Clare sorride. «Probabilmente sto meglio di quanto ci si aspetterebbe.»

«E... Ingrid? Voi vi...?»

«No. Mai. Lei non è una da emozioni. L’avrai notato.»

Gina annuisce. E poi, prima che possano dire altro, arriva il cameriere, si discute di chi vuole il caffè e di che tipo, Clare si ricorda che ha appuntamento con Pierre di lì a mezz’ora, comincia a parlare della nuova produzione della sua compagnia, il discorso prende un’altra piega.

«Questo nuovo spettacolo sembra interessante» dice Gina. «Un tema geometrico... E tu che cosa fai? Di certo non un quadrato.»

«Sto leggendo uno dei libri di tuo padre» dice Philip.

«Credevo che fossero fuori commercio.»

«A che serve Internet? Tre sterline e cinquanta, un po’ consunto, senza la sovraccoperta.»

«Quale?»

«Lo studio sulla gioventù. Riti di iniziazione in Namibia, e robe del genere. Capisco perché tu sia rimasta inorridita la volta che sbirciasti il dattiloscritto.»

«Mi chiedo perché mio padre ti affascini tanto.»

«Forse perché è così diverso dal mio.»

Il padre di Philip è un contabile in pensione, un uomo le cui inoffensive giornate sono scandite dalla passeggiata con il cane e dal cruciverba. Lui e la moglie lavano i piatti assieme in un silenzio così intimo che ogni parola sembrerebbe superflua. Gina ne era rimasta colpita; era un silenzio speciale.

«Tu hai l’impressione di conoscerli, i tuoi genitori?» chiede lei.

«Certo che no. Immagino che me lo domandi perché stai pensando ai tuoi.»

«Suppongo di sì.»

«Abitanti di pianeti diversi. I miei genitori rimarrebbero sbalorditi dai tuoi.»

«Atterriti, direi.»

«Oh, dai» replica Philip. «Li si può considerare un tantino eccentrici, forse. Un po’ stravaganti.»

«Credo che mi abbiano trasmesso un’idea distorta del matrimonio.»

«Ah» dice lui.

Sul volo per Johannesburg Gina lavora. Passa in rassegna i documenti preparatori che le hanno dato; discute la scaletta con i cameramen. Stanno girando una serie di reportage sui casi di AIDS nei sobborghi dei neri. Finite tutte le incombenze, si mette comoda per dormire ma, cosa insolita, il sonno non arriva. Gina è abituata a schiacciare pisolini ovunque e in ogni momento, quindi qual è il problema?

Da qualche parte, a livello subliminale, Philip è il problema, ma Gina non permette a se stessa di pensarci. Perché è così silenzioso da un paio di giorni? Distratto, in un certo senso, quasi sbrigativo. Non è che lui...? O che loro...? No, no.

Quindi Gina non pensa a Philip, non deve. È un’associazione di idee, il problema: non riesce a dormire perché mentre sfogliava la rivista del Duty-free l’occhio le è caduto sulla pubblicità di un profumo, una boccetta di Miss Dior sospesa a tutta pagina, e d’un tratto Gina è tornata ad Allersmead, a quel Natale. Il che è ovviamente assurdo, il sovrapporsi di Allersmead e di una boccetta di profumo. Ma tant’è, è così che funziona la memoria.

Alison scarta il pacchetto e fissa la boccetta. «Oh, santo cielo!» esclama. «Un profumo. Ma veramente io non... Che bellezza, del profumo. Chi...? Dov’è il bigliettino? Oh, sei tu, Sandra. Ma davvero, tesoro, io proprio non saprei...»

«Se non lo vuoi» dice Sandra, «lo porto indietro e te lo cambio con una fornitura quinquennale di detersivo per i piatti.»

«Sentiamo...» dice Clare. «Ooh... fantastico! Lo prendo io.»

Il salotto di Allersmead è invaso di persone, di carta spiegazzata, dei vari mucchi di regali che ciascuno deve ancora aprire. L’albero di Natale troneggia sopra la pila dei pacchetti già saccheggiata; fili d’argento scendono dai rami che scintillano di palline e campanelle, l’angelo è appeso in cima, come sempre. Il cane è lungo disteso davanti al fuoco, con il pelo che quasi scotta. La famiglia è al completo. La dispersione è avvenuta; se ne sono andati tutti, persino Clare, ora, alla scuola di danza, ma le partenze non sono definitive: tornano ancora tutti per Natale. Attraverso la porta aperta, arriva dall’altra parte dell’atrio un intenso aroma di tacchino arrosto.

Gina osserva la boccetta di Miss Dior, che Alison sta cautamente annusando. Un regalo carico di significato, che suggerisce quel che mamma potrebbe essere al posto di quel che è. E comunque molti regali lo sono, no? Alison ha preso per Charles un trapano Black & Decker («Mi sono detta, chissà che non ci provi gusto ad appendere mensole o robe del genere...»); Charles ha preso per Alison un’edizione ottocentesca delle ricette di Mrs Beeton, che lei ha fissato sconcertata: «Oh, cucina vecchio stile, ma che interessante!»

È l’unico regalo che Charles ha comprato e impacchettato da sé. Il resto dei suoi doni è in comune con Alison, una filza di oggetti scelti da lei: «Buon Natale da mamma e papà». E «...da Alison e Charles», un maglione di lana shetland per Ingrid.

Il maglione non sembra carico di particolari significati. Ingrid lo indossa subito.

«Delizioso» commenta Alison. «Il colore ti dona proprio, l’avevo immaginato. Ero un po’ incerta, ce n’era anche uno verde... ma no, l’azzurro va bene. Roger, tesoro, se quelle calze sono troppo piccole... Non riesco ancora a credere che porti taglie da uomo. Gina, hai già aperto il tuo?»

Il regalo per Gina è un servizio da tè in porcellana con graziosi motivi rosa: tazze e piattini, teiera e bricco per il latte. «Ho pensato... per il tuo appartamento. So che lo condividi con un’altra ragazza perciò tientelo per te, potrebbe essere l’inizio del tuo corredo.» Una risata allegra.

Capisco, pensa Gina. Il corredo, che la gente non fa più... mamma è un filo arretrata. Di sicuro un regalo eloquente; uno che dice «sistemati e sposati, bada alle cose essenziali».

Sandra ha ricevuto un vaporoso maglioncino di angora bianco. «Non ho saputo resistere» dice Alison radiosa. «Sono le cose che desideravo da morire alla tua età, ma non avevo la tua fortuna.» Sandra e Gina si scambiano un’occhiata, per un attimo d’accordo.

Le pantofole di montone assegnate a Katie e Clare sembrano ordinarie, mentre Paul guarda con perplessità la sua racchetta da tennis. «Eri davvero bravino a scuola, tesoro, e ho pensato: dovrebbe riprendere, iscriversi in un club qui in zona o un posto simile... Ti farebbe così bene e conosceresti gente simpatica.»

Paul non si fa molto sentire in questi giorni. Alison si preoccupa e si lamenta.

«Grazie» dice Paul. «È fantastica. Grazie.» Si alza e prova un colpo di dritto.

Alison è raggiante. «Sapevo che ti sarebbe piaciuta. E poi potresti sempre tornare a casa nei fine settimana e andare al Country Club... Te la pagheremmo noi l’iscrizione, vero?» Si gira verso Charles.

Charles inclina la testa. «Sono sicuro che Paul sarebbe un ottimo acquisto per il Country Club. Proprio il tipo di socio che cercano.»

Paul lo squadra. «Non volevi fare del sarcasmo, vero, papà?»

Un elemento dissonante si è insinuato nella stanza, facendo calare il silenzio. Alison ride: «Non essere sciocco, tesoro. Papà sta solo scherzando».

«Lui non fa battute» dice Ingrid. «Non proprio.» Tutti la guardano. Lei si alza: «Porto il caffè?»

La voce di Alison sale di una tacca, sempre un brutto segno. «Sì, ti prego, cara. E potresti dare un’occhiata al tacchino? Tra poco lo devo tirare fuori dal forno.» Prende un pacchetto. «Be’, e questo da chi arriva? Oh, Corinna e Martin. Gli ho mandato un grazioso schiaccia-aglio. Ho pensato che Corinna l’avrebbe trovato comodo. Roger e Katie, non capisco perché vi faccia tanto ridere.»

«Scusa, mamma» replica Katie. «È solo che il pensiero di...»

«Corinna che infierisce su teste d’aglio...» continua Roger. «Smettila, Katie.»

Gina si tuffa sul mucchio di pacchetti. «Questo è per te da parte mia, papà.»

Charles estrae un tagliacarte vittoriano dal manico in avorio. «Ah. È per pugnalare i miei nemici, giusto?»

«È per aprire le buste» risponde Gina.

«L’aveva capito. Questa era davvero una battuta, credo» dice Paul.

«Basta così!» esclama Alison. «Paul, va’ ad aiutare Ingrid con il caffè. Non ce la fa a portare tutto da sola.»

Gina osserva Alison. Conosce i segnali. Alison è su di giri, carica. Natale è il picco della vita famigliare, dopotutto, la giornata per eccellenza, il momento di massima coesione; è la sfida più impegnativa per Alison: il menù, gli addobbi, i regali, le cerimonie. Frigorifero e congelatore sono stracolmi; la casa è un tripudio di edera e agrifoglio; la notte scorsa hanno cantato le canzoni natalizie, anche se Paul non era ancora arrivato, Sandra era impegnata a lavarsi i capelli e Charles era uscito, per qualche motivo. Alison è all’apice dell’eccitazione, tesissima. È il culmine del suo anno, dell’anno famigliare, ci sono tutti; dovrebbe essere il suo momento, e invece è agitata, volubile, a rischio.

Ingrid e Paul tornano e distribuiscono le tazze di caffè.

«A dire il vero pensavo alle tazze e ai piattini buoni, a Natale» dice Alison, «ma non importa. Vi ricordate tutti quel Natale in cui Roger sosteneva di aver ingoiato il mezzo scellino nascosto dentro il pudding, e invece naturalmente non l’aveva fatto sul serio, il ragazzaccio. E la volta che Sandra cadde dalla scala mentre attaccava i festoni di carta, che livido sulla gamba... E quando io mi dimenticai di togliere il tacchino dal congelatore e dovemmo scongelarlo nella vasca da bagno... Oh, sì, io me li ricordo tutti i Natali, anche quelli di quando eravate piccoli e alcuni di voi non c’erano ancora, anche quando c’eravamo solo Paul, io e papà.» Si rivolge a Charles: «Vero che ora sembra un periodo divertente, quello?»

«Certo» replica Charles. «Un’età dell’innocenza. Prima della caduta. L’Eden, direi.»

Sandra alza gli occhi da un pacchetto che sta aprendo. «E quindi chi è il serpente, papà?»

«Io, presumibilmente» dice Paul. «La vita futura.»

Clare ride. «Tutti noi. Un serpente dopo l’altro. Magari figli non ne ha mai voluti.» Si è infilata le pantofole di montone sui piedini sottili e le studia con lieve cipiglio; forse non fanno esattamente per lei.

«Mi sa che nella Bibbia c’è soltanto un serpente» ribatte Ingrid. «E anche Adamo ed Eva avevano solo figli maschi, niente femmine, mi pare.»

«Hai detto giusto, Ingrid» commenta Paul. «E uno toglie di mezzo l’altro, non è così? Quindi occhio, Roger.»

Alison sbatte la tazza di caffè sul tavolo. «Basta fare gli sciocchi, tutti quanti. Non so di cosa stiate parlando, ma sono soltanto stupidaggini. E certo che papà voleva dei figli, Clare, non dire sciocchezze, tutti ne vogliono, cioè... suppongo che qualche originalone non ne voglia, ma non è una cosa che riesco a immaginare... io da sempre, fin da quando ho memoria, e grazie al cielo... Siamo stati tanto fortunati e anche papà la pensa così...»

La voce di Alison sale di tono. Possibilità di tracollo, pensa Gina. Si intromette: «Naturalmente, mamma... ehi, guarda, ce n’è ancora uno che non hai aperto». Spinge un pacchetto verso Alison.

Alison fissa il regalo e lo rimette giù. «Voglio dire, è una cosa naturale e normale desiderare dei figli, io da sempre, è un tale privilegio vivere in una famiglia vera, siete ancora troppo giovani per capirlo, suppongo... cioè, riuscite a immaginare di non essere cresciuti ad Allersmead, tutti insieme?... E quando io e papà ci siamo sposati ovviamente il presupposto era...»

Gina dà un’occhiata a Charles. Impassibile. Impermeabile?

«...e qualsiasi cosa succedesse, intendo dire qualsiasi cosa, per quanto mi riguardava la vita famigliare veniva prima, era quello che contava sul serio, la famiglia, e naturalmente papà la pensava allo stesso modo, vero? L’importante era che voi cresceste in questa grande e stupenda famiglia e in una casa deliziosa, e quello è sempre stato il primo pensiero... qualunque cosa... le altre preoccupazioni non contavano, be’, naturalmente contavano, ma io non ho mai... quel che importava era la famiglia, sempre, è ciò che si prova quando si è genitori, un giorno lo capirete quando avrete figli vostri, papà sa di cosa parlo, e naturalmente l’ha sempre pensato, vero...?»

È rossa in viso, lo sforzo l’ha stremata. Fissa Charles.

Lui non la guarda. Appoggia il tagliacarte dal manico d’avorio sul tavolo. «Qualsiasi commento sarebbe superfluo. A quanto pare lo sai tu come la penso.»

Il tono è tranquillo, persino educato. Si alza, esce dalla stanza. Nessuno parla. Qualche secondo dopo sentono sbattere la porta d’ingresso.

Giù in cantina c’era una mamma diversa, pensa Gina. Nel nostro gioco. Io. La reinventavo. Ne facevo una persona che non cucinava mai niente ma chissà come faceva saltare fuori salsicce e purè, che raccontava storie, che trasformava i telai dei letti in barche e il pavimento di cemento nell’Antartide. Una sorta di madre archetipica che non combinava nulla ma attorno alla quale girava tutto. E Paul, ora che ci penso... anche lui aveva una sua idea di che cos’è un padre. Bene, bene.

A Johannesburg, Gina controlla la posta elettronica. C’è un messaggio di Philip.

Dice: «A quanto pare non ce l’ho fatta a dirtelo negli ultimi giorni. Non so perché. Un attacco di nervosismo. Stupido. In ogni modo, ecco qua. Mi piacerebbe davvero tanto che ci sposassimo. È gradita una risposta entro breve».