Sandra è seduta a osservare le modelle che ondeggiano su una passerella. Sta pensando ad arredi da bagno e punti luce. Quando infine l’ondeggiamento cessa, si rende conto di non aver preso nessun appunto, di non aver provato – per essere schietta – il minimo coinvolgimento.
È possibile? A trentotto anni può aver perso del tutto l’interesse per la moda? Ex giornalista di moda, ex corrispondente di moda per un quotidiano, direttrice di una boutique di successo a Roma, è in realtà un’ipocrita? Ha un po’ l’impressione di esserlo, ma non le importa. Ordinerà uno o due capi per la boutique, guidata dal suo istinto ben affinato, perché gli affari devono andare avanti; saluterà qualche viso noto con una gioia esagerata e poi se la squaglierà, pensando al marmo nero e ai faretti colorati di rosa. La gente vuole tutto l’insieme, il fattore meraviglia. Specialmente gli italiani.
È così divertente occuparsi di compravendita immobiliare. Questo è il suo terzo appartamento, il suo terzo «compra a poco e vendi a tanto» (si spera). È affascinata dai numeri, dall’elegante conversione di un numero X di euro in X+Y euro, che poi reinvestirà nel successivo acquisto, cosicché a tempo debito si otterrà X+Y+Z. Si diverte a destreggiarsi tra mutui e preventivi dei costruttori, nel pas de deux con impresari, responsabili di cantiere, direttori di banca. Prova un piacere enorme a ideare cucine, riscaldamenti a pavimento e studiare tonalità di pittura. Si è immersa nella documentazione di settore e ora è un’esperta di progettazione d’interni all’avanguardia. Sa esattamente cosa attirerà il genere di persone che compreranno questo tipo di appartamenti: chic, costoso, invidiabile.
Chiuso l’argomento sfilata, ora è libera, avendo pattuito con la boutique un impegno di quattro giorni alla settimana. Libera di dedicarsi a proprietà immobiliari. Ha un appartamento da visionare, benché di fatto al suo prossimo acquisto manchi ancora un po’, ma bisogna tenere d’occhio il mercato, e poi deve fare un salto in cantiere per discutere di marmo nero e altre faccende con Luigi, il costruttore.
L’appartamento che vede non è particolarmente allettante, anche se il prezzo è trattabile. Guida fino al cantiere – sempre che farsi inghiottire dal ritmo frenetico del traffico romano si possa definire guidare – e trova un posteggio, per miracolo. L’edificio è vecchio, la mezza dozzina di appartamenti sono stati in gran parte riadattati per il ventunesimo secolo, tranne quello di Sandra, che era abitato fino a poco fa da un’anziana vedova e adesso è pronto per il trattamento completo. Ora è un deserto di cavi, muri stuccati e calcinacci, attraverso cui Sandra si fa strada per individuare Luigi, che la accoglie con entusiasmo. Lei e Luigi si intendono al volo. È il loro secondo progetto. A Luigi piacciono le donne energiche e sa riconoscere una signora sveglia quando ne incontra una. L’italiano fluente ma con qualche errore di Sandra è per lui motivo di divertimento, e si è ripromesso di estendere il suo vocabolario alle arcane regioni del gergo edilizio.
Insieme, studiano dei cataloghi. Luigi approva il marmo nero; anche lui conosce il mercato. C’è una lieve schermaglia per le finiture delle porte, una questione di prezzo e budget. Quindi il cellulare di Luigi suona e lui si allontana verso la finestra con una scusa.
La telefonata ha un tono concitato. Torna; sua figlia ha appena partorito, un maschietto. Il primo nipote. Luigi è esaltato, ma poi contiene l’euforia. Si ricorda che Sandra non ha figli, un po’ di tatto è doveroso. Non gli viene da pensare che il fatto di non averne potrebbe essere una scelta. Torna con piglio deciso ai pomelli delle porte.
Sandra non si lascia ingannare. Ha notato la confusa espressione compassionevole di Luigi quando questa sua mancanza di bambini è saltata fuori nel discorso, ormai parecchio tempo fa. Un uomo – quando Luigi la chiama a casa, talvolta risponde al telefono Mario –, ma niente bambini. Luigi ha cinque figli, e da allora si astiene dal parlarne troppo spesso.
La settimana scorsa Sandra ha abortito. Per la seconda volta. La prima è stata dodici anni fa, e lei aveva pensato che non sarebbe potuto succedere di nuovo, nemmeno per sogno, ma a quanto pare poteva, e così è stato. Si è dovuta quindi prendere una vacanza non programmata e andare a Londra. Senza dubbio anche in un paese cattolico ci sono modi e mezzi, ma Sandra non aveva avuto tempo di mettersi alla ricerca di informazioni, così le era bastato fare qualche telefonata e prenotare un volo, e passare un paio di sgradevoli giorni a Londra, in incognito e senza sentire nessuno. Di certo una non chiama i vecchi amici per dire: «Sono qui di passaggio per un aborto: ci vediamo a pranzo?»
Luigi ne rimarrebbe sgomento. Mario è un cattolico un po’ poco osservante, ma comunque sia non l’ha presa molto bene. Lui e Sandra stanno insieme da due anni ed era chiaramente inteso che Sandra non aveva intenzione di fare figli, e a Mario, che ha qualche anno in meno, lì per lì non importava averne oppure no. Ma di fronte allo stringato annuncio di Sandra era scattata una sorta di atavica reazione. C’era stata qualche protesta, non troppo convinta, che si era dissolta davanti alla calma risolutezza di Sandra e, forse, a riflessioni personali sulle implicazioni di avere un bimbo. Mario è un fotografo e gli piace la bella vita.
Sandra cambia uomo ogni tre o quattro anni circa. Non è particolarmente orgogliosa di un tale andamento, ma va così, non ci può fare nulla. Arriva un momento, sempre, in cui lui diventa un po’ irritante, noioso, e Sandra capisce che il loro tempo è scaduto. Ci dev’essere, quindi, una fase di distacco: lei tenta di minimizzare danni e complicazioni. Gli uomini si accorgono di essere stati allontanati con gentilezza anziché scaricati e, se sono realisti, se ne andranno di propria iniziativa. Poiché Sandra si premura sempre di farsi intestare la casa che di volta in volta condividono, è l’uomo a doversene andare, non lei. In un’occasione la rottura aveva avuto ricadute tali da farle sembrare opportuna l’idea di un cambiamento radicale. La cosa l’aveva portata a Roma, qualche anno fa, quando il mondo del giornalismo londinese era diventato uno stagno un po’ troppo piccolo per lei e il suo ex fidanzato. Le era sempre piaciuta l’Italia; aveva sempre accarezzato l’idea di gestire una boutique. Quindi buttati, Sandra.
Sandra è una che tende ad avere successo, per motivi più che validi. È piena di risorse, sa lavorare sodo; in più, si presenta bene, è scaltra e opportunista. Da ragazza si era fatta strada nelle riviste di moda, bruciando le tappe da stagista a copy-writer fino a una poltrona da direttore. Ma è anche irrequieta; proprio come gli uomini, anche i lavori con il tempo diventano un po’ barbosi. Quando le riviste le vennero a noia, passò al giornalismo tradizionale, occupandosi della moda per un quotidiano ad alta tiratura. E ora c’è la boutique, i cui proprietari trovano il talento di Sandra nella scelta degli acquisti, unito al suo esotico fascino inglese e alla bella presenza, una combinazione irresistibile per i clienti. Alla boutique non sono al corrente del nuovo interesse di Sandra – non sono affari loro – e di conseguenza non sanno che forse il negozio ha i giorni contati, per quanto la riguarda.
Mario, invece, conosce la Sandra imprenditrice immobiliare e ha osservato che, se continua di questo passo, è sulla strada per diventare una donna ricca. Sandra fa notare che si possono anche prendere delle batoste, in questo gioco, quindi lui non deve contarci. Mario dice scherzando che intende comunque rimanere nei paraggi, nella speranza di farsi mantenere. Ma sa com’è Sandra, ed è ben conscio del fatto che lei non trasporta passeggeri; si rende conto della natura del loro rapporto, ed è probabile che spiccherà il volo prima di ricevere la spinta. Il recente viaggio di Sandra a Londra gli ha dato modo di riflettere; ha capito che diceva sul serio, riguardo ai figli, e con il tempo lui potrebbe cambiare idea. È un maschio italiano e ha una madre che lancia frecciatine. La volta che lui l’aveva portata a casa, aveva fatto chiaramente capire di non avere una grande opinione di Sandra: troppo matura, troppo straniera, senza dubbio carente nelle faccende domestiche.
Sandra non ha mai portato Mario ad Allersmead né, per la verità, nessun altro dei suoi uomini. Lei stessa non ci va molto spesso; ci capita di tanto in tanto con qualche regalo costoso: vini di classe, prelibatezze gastronomiche. I regali, lo ammette, denotano un qualche tipo di disagio, o senso di colpa, o un bisogno di compensazione, o tutti e tre. Invia sontuosi mazzi di fiori per i compleanni di sua madre.
Si era ritrovata a pensare ad Allersmead, alla famiglia, durante i giorni passati nella clinica a Londra, e lo vede come un segno di debolezza, di regressione. Abortire è notoriamente traumatico. Le era tornato alla mente il periodo di fragilità seguito alla volta precedente, quando era molto più giovane. Una collega della rivista l’aveva sorpresa nel bagno a piangere, e Sandra si era confidata. La tipa aveva ostentato comprensione dispensando giudizi navigati e consigli: «Cioè, alcuni preferiscono rivolgersi a uno psicologo, e tu magari ci farai un pensierino, ma in tutta onestà penso che una bella chiacchierata con una persona cara... Tua madre lo sa?»
E Sandra aveva esclamato, tra le lacrime: «È colpa di mia madre se non voglio avere figli!»
Ma è davvero così? Sandra oggi ci andrebbe più cauta, peserebbe di più le parole. Non vuole figli perché non sarebbero compatibili con lo stile di vita che ha scelto, non sente una particolare attrazione per i bambini (fortunatamente) e, sì, anche a causa di quel substrato di ricordi, quel luogo della mente, che ha innescato certe reazioni, certe riserve, certe ripugnanze.
Mai e poi mai vorrà un bagno infestato da giocattolini di plastica. Mai scucchiaierà pappe appiccicose nella bocca bavosa e spalancata di un neonato. Mai la sua casa diventerà un tempio adorno di opere d’arte infantile, rozzi animali di creta, tazze con il nome e una distesa di fotografie commemorative. E, d’accordo, tutto ciò è Allersmead, ma come altrimenti potrebbe definire quel che deve evitare? È stata formata, abituata da Allersmead, e così sa quello che non vuole. Forse è per questo che ora, a Roma, crea appartamenti tanto diversi da Allersmead quanto un attico da un capanno. Benché, detto ciò, quando considera Allersmead con distacco, con uno sguardo fresco, veda bene quel che ci potrebbe ricavare: al giorno d’oggi con quei residuati dell’epoca edoardiana si fanno gli affari; basterebbe rimpolparla con elementi del periodo – altre vetrate colorate, vasche da bagno non incassate con piedini a zampa, bagni con pannelli di mogano –, e giardino all’inglese, campo da tennis, prato per il croquet.
Ma la casa non era che lo sfondo. Ciò che vi accadeva era opera sua, in ogni senso. La maternità era il suo mestiere, e non ho idea se ci si ritrovò dentro o se l’aveva pianificato fin da quando, a cinque anni, ebbe in regalo la sua prima bambola. Era quello che faceva, e tanto basta. Mia madre, nostra madre, si era ripromessa di diventare la madre archetipica, il grembo universale.
Sandra si ricorda quando stava seduta in quel grembo, già. Si ricorda quando tentava di scalzarvi Gina. Voleva bene a sua madre, forse gliene vuole ancora, ma ora le pare strano che quell’unica parola – amore – copra una tale gamma di sentimenti. L’amore per un genitore non ha assolutamente niente in comune con l’amore per il cioccolato, per dire, o per il nudismo, e men che meno, nella maniera più assoluta e certa, con l’amore sensuale.
E non si deve confondere l’amore sensuale con l’amore per il sesso. Io, Sandra, amo il sesso? Be’, di sicuro mi piace, ma non in astratto, non l’attività di per sé; deve essere fatto con la persona giusta, è uno scambio, coinvolge entrambi. Ed è qui che si inserisce l’elemento amore: è quello che provi per l’altra persona a condizionarne la buona riuscita.
Ricorda quel ragazzo a Crackington Haven. Naturalmente: l’iniziazione.
Che fiasco. Una delusione. Il primo momento cruciale della vita, si è portati a credere, e invece pochi minuti di esplorazioni imbarazzate e grugniti. Quanto all’orgasmo, lasciamo perdere. Ma naturalmente non provavo sentimenti, per quel ragazzo... mi piaceva abbastanza, immagino, ma l’amore era ancora ben lontano. Innamorarsi, disamorarsi. La prima volta che succede si è ormai in territorio adulto, altroché. E l’unico elemento riconoscibile è che si tratta di una cosa totalmente diversa da qualsiasi altra provata per un’altra persona prima di allora. Il prefisso dà un po’ d’aiuto: in-namorarsi. Amare qualcuno non è tanto una questione di impegno, è farsi consumare dall’emozione, annegarvisi, appena capaci di riaffiorare quanto basta per svolgere le normali attività. E in realtà lei non ci vorrebbe nemmeno tornare, in quello stato.
Per la verità Sandra si innamora ancora, ma ormai è un processo più mitigato, più ponderato rispetto agli indomiti assalti di gioventù; è capace di tirarsi indietro se capisce che la cosa si rivelerà una pessima idea. Ma esige che ciascun uomo nuovo risvegli un po’ dell’antico fuoco; altrimenti, non sarà nient’altro che uno scambio sessuale, e Sandra lo considera di cattivo gusto. È forse una romantica?
Romantica o no, trova difficile capire la monogamia. Un’unica relazione, finché morte non vi separi?
Di nuovo Allersmead. Guardateli. Mamma e papà. Non vorrete mica dirmi che quella è una storia romantica. Amore? Be’, chi può saperlo, chi può averne la benché minima idea? Gli altri sono imperscrutabili, no? Soprattutto quelli che si conoscono meglio.
Ma una sola persona? Con tutta la varietà che offre il mondo, tutti quegli uomini con le loro affascinanti diversità...
Sandra ne ha di amici e conoscenti monogami, e non sembrano vivere in uno stato di perpetua frustrazione. Ammette che magari è lei a essere fuori dal coro, ma non le importa. Ha scelto di vivere così... una partner seriale, diciamo, e si è sempre trovata benissimo. È persino riuscita a mantenere rapporti amichevoli con i suoi ex, tranne quel giornalista di Londra che se la prese tremendamente quando cadde il sipario.
Sta pensando a lui, con vaga indifferenza, mentre lascia il cantiere, una volta terminato il consulto con Luigi. Ha preso un giornale inglese in un’edicola e ha letto la sua firma. Plus ça change: stesso giornale, stesso tema. È un commentatore politico, e lei è la prima ad ammettere che la politica è un argomento mille volte più importante della moda, anche se è altrettanto sospinta da venti di cambiamento su cui non si ha controllo, ed era questa la caratteristica del giornalismo che Sandra alla fine trovava fastidiosa: essere obbligati a reagire a situazioni ineluttabili. Arriva un momento in cui è una bella fatica sfornare un entusiastico commento sulle proposte della passerella per la nuova stagione.
Il commentatore politico aveva affrontato la questione del matrimonio. È in quei casi che per Sandra scatta l’allarme, persino se tutto funziona ancora in modo soddisfacente. L’accenno a un impegno duraturo la mette in allerta; comincia a notare in lui cose che le erano sembrate normali: sempre le stesse battute, lo stato in cui lascia il bagno, quella giacca. Il sesso diventa svogliato. Tempo scaduto.
Butta il giornale inglese sul sedile posteriore dell’auto e si infila nel traffico. Ha appuntamento con una vecchia amica per pranzo. Lei e Mary si conoscono da tanto, lavoravano insieme in una rivista. Mary era quella dei consigli di bellezza; Sandra rispondeva alle domande sulla moda. Mary è qui per qualche giorno con il marito, che è stato spedito a visitare la Cappella Sistina mentre lei si concede un pranzo tra donne con Sandra. Non si vedono da parecchi anni.
Mary è già seduta, al ristorante. Quando si alza per salutare, Sandra si accorge subito che è incinta. Santo cielo! Mary ha trentanove anni, ed era tanto decisa ad astenersi dalla maternità quanto lei, pensava Sandra. Mentre mangiano gli antipasti, si scopre che Mary e James ci hanno ripensato nel corso dell’ultimo paio d’anni.
«E visto che divento vecchia» dice Mary, «o lo faccio ora o mai più.»
Sono davvero vecchie, tutte e due, Mary e Sandra, per il loro ambiente. Le ragazze che calcano le passerelle hanno sedici, diciotto anni; a ventotto sono tagliate fuori. I fotografi, come Mario, snelli e vestiti di nero, non arrivano ai trenta; lo stesso Mario, a trentatré, è un po’ vecchiotto. Le persone sopra i quaranta sono o le direttrici – le regine del mondo delle riviste – o le clienti della boutique, che sono abbastanza ricche da farvi i loro acquisti perché guadagnano bene o perché hanno un uomo che le finanzia, e il cui scopo è afferrare il tempo per la gola e immobilizzarlo, cancellarsi qualche anno diventando più magre, più eleganti, con le guance più scavate e la pelle più liscia.
E invece guardate Mary, con un pancione di cui va chiaramente fiera, un accenno di doppio mento, zampe di gallina e sopracciglia non depilate.
«Stai benissimo» dice Mary. «Che bel vestito...»
Sandra si sente stranamente a disagio. È la gravidanza? È il palese compiacimento di Mary? Neanche una parola sull’aborto, questo è certo.
«So a cosa stai pensando» continua Mary. «Ero una delle prime iscritte al club dei senza figli, proprio come te.» Fa una smorfia. «È cambiato qualcosa. Sia per me che per James... Ed eccoci qua.» Si accarezza la protuberanza.
Mary è piccola, ben fatta e indossa uno di quei completi prémaman aderenti che sembrano disegnati per accentuare anziché nascondere la pancia. Sandra ricorda i discreti camicioni di un tempo. La fecondità va ostentata, al giorno d’oggi. Pensa ad Alison; forse sua madre era avanti rispetto alla sua epoca.
«Ci piacerebbe averne due» prosegue Mary. «Ma prima vedremo come andrà con questo. Io ero figlia unica, e James dice che sono egocentrica. Tu hai fratelli e sorelle in quantità, vero?»
Sandra sorride. «Già. E io perciò sono l’essenza della generosità e dell’altruismo. Al contrario: è in una famiglia grande che si impara a giocare sporco e a pensare unicamente a sé. Pare che io abbia spinto mia sorella maggiore in uno stagno, quando avevo sette anni.»
«Sul serio? È quella che si vede ogni tanto in tv?»
«Gina. Sì.»
«Be’, si direbbe che se la sia cavata benone, malgrado quello.»
«E poi scendevamo in cantina, tra ragni e scarafaggi, e giocavamo di fantasia. Io litigavo con mio fratello su chi dovesse fare James Bond.»
«Che bellezza» dice Mary. «Un paradiso. Quanto eravate fortunati!»
Lo ero? Lo eravamo? Sandra osserva Mary all’altro lato del tavolo, ma la sua mente è trasportata indietro alla cantina di Allersmead: il buio, l’umidità e quell’atmosfera di brivido ed emozione, lontani dal mondo reale, l’incredulità sospesa, tuffati in altri mondi, simulazione ma anche realtà... Niente da allora ha suscitato lo stesso coinvolgimento divorante. Mari infestati da squali, lupi che ululano nella prateria, le curve figure dei Dalek nel loro anfratto. «Mangia un ragno!» ordina Paul. L’ho fatto?
Sandra scrolla le spalle. «Be’, non te ne consiglio sei. Mia madre era...» Fa una pausa.
«Esaurita» suggerisce Mary. «Stanca morta, scommetto. No, no. Mi fermerò a uno. Due, plausibilmente.»
Hai sbagliato in pieno, pensa Sandra, ma non importa. Né esaurita né stanca morta. Trionfante, nel complesso. Appagata. I numeri valgono: eravamo il suo rendiconto bancario. La quantità vale. Eravamo la famiglia più numerosa della via, della scuola... della città, oserei dire. Il suo primato era indiscusso. E naturalmente i difettucci privati erano una questione di famiglia. Chi l’avrebbe saputo? Chi lo sa? Solo noi; non ci è mai piaciuto spargere in giro la notizia. La famiglia serra i ranghi. Sandra riflette se dare a Mary il colpo di grazia calando l’asso: in realtà, uno di noi non era figlio suo.
«L’hai detto» replica. D’un tratto il discorso l’annoia. Le piacerebbe proprio descrivere a Mary il bagno in marmo nero che lei e Luigi hanno progettato con tanto amore, ma se ne guarda bene. La compravendita immobiliare non è un’attività che fa colpo sugli altri, eccetto su chi se ne occupa a sua volta. È vista come un tantino sconveniente, troppo commerciale, di fatto rapace. E forse lo è. Ma Sandra non si sente rapace: si sente... creativa. I bagni, le cucine, le deliziose sfumature di colore. E la soddisfazione che si prova quando anche le cifre sono creative, quando X+Y diventa X+Y+Z. Se questa è rapacità, Sandra avrebbe buone argomentazioni per sostenere che la rapacità è una forma d’arte. E il denaro, dopotutto, è denaro immaginario. Non si vede mai, si gestisce: appare fugace sugli schermi e basta. Un commerciante è più vicino al mondo reale. Persino la boutique, dove sventolano le carte di credito. La boutique fa affari; le cifre fioriscono, eccome. Ma non fioriscono con la stessa semplicità, con la stessa eleganza.
Quindi mette da parte il suo interesse principale e lascia che il dialogo scorra, più che piacevolmente. A pranzo finito, si abbracciano e se ne vanno. Sandra osserva Mary allontanarsi lungo la strada, il suo pancione messo allegramente in evidenza dall’aderentissimo top a righe nere e gialle che porta sopra i jeans. Ha il sospetto che lei e Mary si vedranno ancora meno in futuro.
Pochi degli amici di Sandra hanno bambini. Sono senza figli, come lei, per inclinazione o, spesso, per omissione: in un modo o nell’altro la vita gli è sfrecciata accanto, troppo piena, troppo esigente, e non ne hanno mai trovato il tempo. In Italia, è una situazione piuttosto insolita: qui i figli sono endemici. Be’, è un paese cattolico, gran parte della gente è, per lo meno nominalmente, cattolica. Una famiglia di sei figli passerebbe inosservata. In effetti ci vuole poco per accorgersi che è un paese che pullula di gioventù: le strade sono inondate di giovani, l’aria risuona delle loro voci sicure. Il ronzio dei loro motorini è assordante. La gioventù pullula anche altrove, certo. A Brixton o Bradford o Glasgow. Ma i giovani italiani sono più persistenti, più dilaganti. Dai putti che sgambettano sulle fontane, che si librano sui soffitti, ai fiumi di scolari che occupano i marciapiedi, bloccano il traffico, la città sembra impegnata in una spavalda ed esuberante attività di produzione, di rigenerazione.
Mia madre approverebbe, pensa Sandra, bloccata nel traffico assordante mentre una fila apparentemente infinita di bambinetti in grembiule viene fatta passare sulle strisce pedonali. Ma ovviamente lei non è mai stata a Roma. Loro non hanno mai viaggiato, vero? Niente vacanze in Algarve, per noi.
E, comunque sia, a lei i bambini piacevano in sé, oppure solo i suoi figli in quanto convalida, approvazione, riprova della sua abilità materna? I suoi figli? Clare? Clare veniva trattata esattamente come gli altri; non ricordo il minimo accenno di discriminazione, mai. E certo, i particolari della faccenda erano tenuti segreti. Eravamo una famiglia, fine del discorso.
I bambinetti hanno attraversato sani e salvi la strada e il traffico riparte rombando, portando con sé Sandra. La famiglia è sacrosanta in Italia, il che è un buon motivo per tenere a freno il coinvolgimento con Mario, avendo presente quell’orribile madre. Non ti preoccupare, mammina, non ho intenzione di rubarti il bambino, e per niente al mondo mi farei soffocare dal tuo abbraccio. Per lo meno mia madre non chiama per dirci che sta andando a fare la spesa, o che sono venuti a pulirle le finestre.
Sandra pensa ancora alla famiglia, la famiglia ad Allersmead, mentre sale le scale del suo appartamento – quello che condivide con Mario, per ora. La casa ha grandi finestre con un’ampia vista su un parco e una fetta della Roma dorata; ha freschi pavimenti in pietra e un enorme divano di pelle chiara, e un tavolo basso con il piano di vetro su cui ci sono sempre dei fiori. È elegante, tranquillo, non c’è confusione, non c’è disordine, i quadri sono appesi con precisione, le pareti sono fresche di tinteggiatura. È lontano un milione di chilometri da Allersmead.
Quando viveva ancora ad Allersmead, da bambina, Sandra aveva adocchiato sulle riviste simili mondi alternativi. La sala d’attesa del dentista era stata una rivelazione. Aveva esaminato quegli interni stupefacenti: era così che la gente poteva vivere. E aveva capito che pure lei l’avrebbe fatto, a tempo debito.
Ma al suo appartamento, questo pomeriggio, si sovrappone Allersmead. Sandra vaga per quello spazio virtuale, noto fin negli intimi dettagli: il salotto con i suoi malandati divani ricoperti di chintz come le sedie, le tende azzurre sbiadite, il tappeto kilim davanti al caminetto, la cucina con quel suo tavolone malconcio, teatro di migliaia di pranzi famigliari. Vaga, non con spirito nostalgico ma con curiosità, con sorpresa, persino. Le sembra strano di essere stata lì, di esserci stata così tanto tempo, senza notarlo, per così dire.
E invece probabilmente l’ho notato per prima, riflette. Mi ricordo che pensavo: noi non siamo come le altre famiglie, non siamo una famiglia normale. Mamma e papà non si parlano quasi, e c’è Ingrid che è una di famiglia ma senza esserlo, e c’è Clare. Anche Gina ci pensava, ma non avevamo un grande scambio di opinioni. E attorno ai diciassette anni o giù di lì lo notavo in continuazione. No, non l’arredamento, era tutto l’ambiente di Allersmead che non stava né in cielo né in terra: capivo che la nostra era una famiglia parecchio insolita, una famiglia eccentrica, una famiglia strampalata.
Come mi sentivo? Be’, piuttosto esasperata. Mi spiaceva per Clare. Pensavo che qualcuno si sarebbe dovuto sedere a un tavolo con lei per affrontare la questione. E con tutti noi, se è per questo.
Ora la vedo in un altro modo. Vedo tre persone cui tutto è andato drammaticamente storto, che forse non sarebbero mai dovute stare insieme in ogni caso. Le vedo tirare avanti alla meno peggio, perché nessuna di loro riuscirebbe ad affrontare l’idea di una realtà alternativa. Condannate alla coabitazione.
Il telefono squilla, e la realtà virtuale di Allersmead evapora, insieme ai pensieri di Sandra. Il passato è passato, questo è il presente, e il presente adesso è in linea. La sostituta di Sandra nella boutique non sa come rabbonire una cliente il cui abito non è stato consegnato quando promesso. Sandra la conosce bene: è la moglie di un industriale, una donna che ha fatto dello shopping una professione. Le parla di persona, le assicura un immediato e vigoroso intervento; è conciliante, adulatrice, persino melliflua, e subito dopo sprezzante... nei propri confronti. Quella donna è un insulso parassita; Sandra detesta lei e quelle come lei. Ma il mondo della moda ne è pieno, è per loro che esiste.
È questo il problema della moda. Sandra l’ha individuato anni fa, quando ha cominciato a subire il fascino dei vestiti e di quel che se ne poteva fare. I prodotti della moda sanno suscitare interesse e magia: le stoffe, le fogge, la maestria dei modelli. Sono artigianato di alto livello, e in più un artigianato che stabilisce come apparirà la donna metropolitana quest’anno o il prossimo. Questa manipolazione è di per sé notevole: che un’idea, un concetto, uno schizzo possano sbocciare, estendere i loro tentacoli in tutto il mondo, decidere il contenuto di milioni di guardaroba. È il sistema della moda nel suo insieme a essere impressionante: il modo in cui un capo da passerella con un prezzo proibitivo ricompare, modificato e reso accessibile alla grande massa. La moda cola verso il basso, finché non arriva a toccare chiunque. Che trucchetto intelligente, e come le riesce bene far guadagnare un sacco di soldi a un sacco di gente.
Ed ecco il guaio: la gente. I consumatori in prima linea, come le clienti abituali della boutique, le signore tutte silhouette il cui unico pensiero è l’autogratificazione, e il frenetico esercito di chi provvede ai loro bisogni, la task force di stilisti e vendeuses e addette alle pubbliche relazioni e buyer, tutti quanti abbagliati dal fascino e dall’importanza della loro vocazione.
Come Sandra? Non avrebbe difficoltà ad ammettere di esserlo stata forse tempo fa, quando cominciò a frequentare l’inebriante mondo delle riviste di moda, intimidita dalle fredde e volitive donne mature e dalla loro corte danzante: gli untuosi fotografi e le altre novelline infatuate. Il disincanto subentrò molto presto: andava bene far parte di quella realtà nella misura in cui si manteneva il proprio equilibrio e la si considerava un circo di matti, che recitavano per un pubblico di teste di rapa. E i vestiti sapevano ammaliare: il taglio di una gonna, l’eleganza e l’audacia di un ricamo. Inoltre, in un modo o nell’altro bisogna guadagnarsi da vivere.
Ma oggi persino i vestiti stanno perdendo un po’ della loro attrattiva. Sandra ama (ah, che parola faticosa)... apprezza ancora la magnifica sensazione della mano che scorre sulla seta, il piacere di un qualche nuovo tessuto, l’originalità di un taglio eseguito con maestria o di un motivo audace. L’incanto persiste, benché un pizzico diluito, ma si accompagna a un crescente senso di déjà-vu, le passerelle sono diventate una noia, l’entourage sempre più una scocciatura. Luigi è una compagnia migliore, i bagni in marmo sanno ispirare di più.
Be’, non è troppo tardi per abbandonare la nave. Se questo progetto riesce, si venderà bene, e anche il successivo. Sandra potrebbe dire addio alla boutique e dedicarsi anima e corpo ai... bagni in marmo. Potrebbe benissimo tornare in Inghilterra – dicono che ci sia da guadagnare bene nel mercato immobiliare, e lei ha sempre considerato Roma nient’altro che una fase.
Sandra crede nel suo intuito. Se la situazione diventa stagnante, in amore o nel lavoro, fiuta l’aria e procedi oltre. Vent’anni nella moda possono bastare. La diciottenne determinata che partì dai gradini più bassi è un’altra persona; una Sandra diversa, pronta ora al cambiamento. Ricorda come suo padre storse la bocca, quando gli annunciò di aver trovato lavoro in quella rivista e che se ne sarebbe andata di casa.
«Una rivista di moda?» esclama Alison. «Be’, santo cielo, suppongo che se è quello che vuoi... Ma perché non andare all’università, come Gina?»
Perché – Sandra lo pensa ma non lo dice – perché dura tre anni e io non ho tempo. E poi lo fa Gina, e quindi io no.
Charles non dice niente. Si limita a guardare, e tanto basta.
Papà non ha mai visto un periodico in vita sua, fosse «Vogue» o «Country Life» o «Yachting News». Cioè, gli ci sono caduti sopra gli occhi, all’edicola o da qualche altra parte, ma non li ha visti perché non rientravano nella sua sfera d’interesse. Papà non notava le sit-com televisive, la musica rock (a meno che venisse dalla stanza di Paul), i nostri vestiti, i nostri amici, buona parte delle nostre conversazioni. E questo solo per ciò che riguardava Allersmead. Al di fuori di Allersmead, era all’oscuro di classifiche di calcio, sale da bingo, corse dei cavalli, pesca d’acqua dolce... di fatto qualsiasi cosa non riguardasse ciò che gli occupava i pensieri. Cos’era? Be’, i libri, qualunque fosse quello che stava scrivendo al momento. Così, essenzialmente papà ha lasciato che il mondo gli passasse accanto: lui guardava altrove.
Sandra li ha esaminati, quei libri. Si è intrufolata nello studio in sua assenza; ne ha osservato i titoli, li ha sfogliati. Se si mettesse d’impegno, seduta e concentrata al massimo, riuscirebbe a seguirne il contenuto abbastanza bene. Non è stupida. Prendeva bei voti a scuola, quando voleva. Quando voleva dimostrare che poteva eguagliare Gina, se ne aveva voglia. «Sandra ha una bella testa...» dicevano le pagelle – nella lingua degli insegnanti voleva dire che non era stupida – «...ma non sempre decide di applicarsi.» La scuola era una seccatura; la si tollerava e basta, in attesa di essere lasciati liberi.
Un certo numero di persone deve aver letto i libri di papà, deve averli comprati, presi in prestito nelle biblioteche. Lui ci ricavava dei soldi. D’un tratto Sandra intravede una schiera di estranei, una tipologia di persone che lei non conosce, che cerca un genere di libri che lei non legge. C’è qualcosa di stranamente inquietante in ciò: non è bello pensare di essere tagliati fuori da un’intera fetta della società, anche se si tratta di gente che forse non sopporteresti. I clienti di papà. Diversi da quelli della boutique, la cosa è certa. Ma anche le signore tutte silhouette sono intollerabili.
Mi sono persa qualcosa? si chiede. Se mi ci fossi messa d’impegno e avessi letto i libri di papà e altri simili, sarei un’altra persona, avrei accanto estranei che non riesco nemmeno a immaginarmi?
Gente come lui? No, no, non ci può essere un’intera orda di cloni di papà. E se anche esistesse, lui non li ha mai conosciuti. Papà non ha amici, colleghi, gente che passa a trovarlo, che telefona.
Sandra vede con distacco quella figura solitaria, e prova una sorta di rimorso. Eccolo lì, tutti quegli anni vissuti insieme e di lui non si sa niente.
Le dice che se fosse una ragazza africana di dodici anni avrebbe delle cicatrici sulle guance. Fa dei commenti sulle unghie verdi di Sandra, così mamma se ne accorge.
Entra in cucina con striscioline di carta che gli spuntano dalle mani. «Chi è stato?» ruggisce.
A proposito: chi sarà stato?
Gina gli ha regalato un tagliacarte per Natale, e lui chiede se lo deve usare per pugnalare i suoi nemici.
Cammina lungo il sentiero di quella scogliera a Crackington Haven, da solo, gli occhi fissi sul mare. Non li vede.
La sua presenza fisica può ricostruirla con precisione. Quel leggero curvarsi in avanti, il naso forte, piuttosto adunco, il suo modo di arricciarlo per spingere all’insù gli occhiali. Già, gli occhiali: sempre opachi, con un disperato bisogno di essere puliti. I suoi vestiti, ancora vividi nel ricordo, a uno a uno. Quelle camicie con i bottoni sui colletti (logori), quelle di denim azzurro, quella rossa e quella verde a scacchi. Il cardigan marrone con il davanti scamosciato. Il maglione grigio e quello nero. La giacca di tweed con le toppe ai gomiti. L’impermeabile beige con la cintura.
A essere onesti era – è – un tipo niente male. Lineamenti forti. Si dice che le donne, alcune donne, cerchino un uomo a immagine del padre. Passando in rassegna i propri, Sandra nota che nessuno ha la benché minima somiglianza con lui. Basta così. Rifiuto? Mi parli del rapporto con suo padre, Sandra.
Che rapporto? Quando cerca di isolare se stessa e Charles, per trovare un legame che sia personale, specifico, Sandra non ci riesce. Certo, si può pensare che ci sia una quantità finita di attenzioni paterne, e nel suo caso va divisa per sei. Un sesto di attenzioni paterne probabilmente alquanto frettolose. Sandra setaccia a ritroso, in cerca del sapore di quella sua personale frazione. Quando, e come, ho avuto la sensazione che lui fosse mio padre anziché nostro padre? Che piccoli scherzi ci facevamo, io e lui soltanto? Che chiacchierate? Oh, andiamo, come se non sapessi che lui non scherzava né chiacchierava. Che discussioni, allora? Ma le discussioni ad Allersmead tendevano a essere collettive, un parapiglia generale intorno al tavolo della cucina mentre si mangiava; quando papà parlava, parlava, o si rivolgeva, a tutti quanti insieme. Litigavamo con lui, oh, sì – Gina in particolare –, ma il modo in cui metteva fine alle discussioni, a ripensarci, sembrava curiosamente imparziale, neutro: una replica generale, non personalizzata, non un «Sandra, adesso io e te ci facciamo un bel discorso».
Così, persino quel sesto di papà è in qualche modo impersonale, un sesto di quella figura paterna, nostro padre, padre nostro che sei nello studio e non disturbate, un tipo di padre che nondimeno definisce ciò che un padre è, deve essere: come lo si potrebbe concepire diversamente? Ogni padre è «papà», perché è quel che ciascuno ha conosciuto.
Che cosa provavo per lui? Soggezione? Rispetto? Be’, non proprio: badavi a non provocarlo perché non ti andava come reagiva. Sarcasmo, anche se non conoscevi quella parola. Il più delle volte lo scansavi, lo ignoravi, quasi fosse stato una specie di fastidioso elemento del paesaggio.
E ora? Quando Sandra torna ad Allersmead, le sembra di visitare un sito storico, che le appare del tutto strano, del tutto sorprendente, eppure su un altro piano infinitamente familiare. Sia Charles che Alison lasciano stupiti – sono davvero così? Parlano e si comportano così? – ma anche sconcertati per la loro normalità. Certo, valeva allora come adesso; la cosa pazzesca è che va avanti ancora, in parallelo con il mondo odierno, con la vita attuale.
Basta, pensa Sandra. È rimasta per un po’ distesa sul sofà nel suo appartamento di Roma, a sfogliare un catalogo di cucine, con Allersmead che le vorticava tutto intorno. Basta così, c’è del lavoro da sbrigare, telefonate da fare, messaggi da controllare. Prende il portatile, inizia a passare in rassegna le e-mail e sbarra gli occhi per la sorpresa.
Ce n’è una di Ingrid. Quando Allersmead sceglie di comunicare in questa forma, è Ingrid a farlo. Alison non ha mai imparato a usare il computer; Charles probabilmente non sa nemmeno che cosa sia.
Ingrid è concisa. Concisa ed essenziale: una comunicazione. Sandra legge e rilegge, aggrottando la fronte.