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Mestiere di madre

Alison è un po’ delusa perché il corso di Mestiere di madre sembra non prendere piede. È una propaggine delle sue lezioni di cucina, che vanno forte ormai da quasi vent’anni, richiestissime; non si possono ragionevolmente seguire più di sette o otto persone nella cucina di Allersmead, perciò spesso c’è una lista d’attesa. Aveva pensato che Mestiere di madre fosse un’idea brillante, proprio quello di cui hanno bisogno le giovani madri, certo, ma finora si sono presentate solo in cinque, e Alison le trova stranamente poco recettive. Vogliono sapere come far sì che i loro bambini non piangano la notte e come comportarsi quando a due anni fanno i capricci, e se ne stanno sedute impassibili mentre lei dice che la cosa importante, la cosa davvero fondamentale, è un’autentica vita famigliare con molto amore e attenzioni per tutti, senza sosta, e un sacco di rituali di famiglia e feste di compleanno, e fare in modo che ognuno senta di farne parte, e naturalmente deliziosi pasti fatti in casa. Durante il primo incontro, una ragazza l’aveva interrotta: «Per la verità, se posso permettermi di dirlo, ’Mestiere di madre’ suona un po’ strano; adesso si dice ’educazione dei figli’, sa?» Quando Alison aveva sottolineato che sono le cure materne quelle che contano – voglio dire è quella la cosa davvero fondamentale, no?, il ruolo della madre – c’era stato un mormorio di dissenso. A quanto pareva non la vedevano proprio così. Un’altra aveva detto: «Non si può essere sempre a disposizione, io ho un lavoro e facciamo a turno con il mio compagno». Portano con sé i loro neonati e bambini, naturalmente, e l’idea iniziale era che Ingrid avrebbe gestito una sorta di nido d’infanzia, ma Ingrid non era parsa più di tanto entusiasta, e Alison si era quasi dimenticata del caos che combina un gruppetto di bambini che gironzolano.

È probabile che dovrà cancellare il corso di Mestiere di madre, ma forse sarebbe stato comunque troppo, con quello di cucina base il martedì pomeriggio e quello di livello avanzato il giovedì. Quando aveva iniziato, Alison si immaginava che avrebbe avuto a che fare con giovani spose, per lo meno nel corso base, e non vedeva l’ora di trovarsi davanti ingenue e docili ragazze, invece le iscritte, in entrambi i corsi, sono in gran parte donne mature, di cui parecchie dell’età di Alison, e non sono né ingenue né docili. Ha installato un nuovo piano cottura, persino più grande di quello che aveva fatto il suo dovere per così tanti pasti in famiglia, ma ugualmente ci sono state – e ci sono – evidenti reazioni di fronte alla cucina di Allersmead, che vanno dall’aria divertita al disprezzo bell’e buono. Non si era resa conto che fosse tanto inusuale; erano le cucine degli altri a esserle sempre parse strane, così splendenti e piccole. Quando vogliono fare le gentili dicono: «È così bella e all’antica... mia madre aveva una credenza come quella». Altre osservazioni non sono esattamente così misurate. Alison ha colto dei mormorii a mezza voce sul potenziale di un posto simile, nelle mani giuste, e una volta ha sentito per caso una donna dichiarare, mentre appendeva il cappotto nell’atrio: «Dio, quella cucina... Ma, ammettiamolo, lei è una cuoca fantastica».

E in ciò sta la sua autorità. Quelle che all’inizio erano sfavorevolmente colpite dalla mancanza di stile di Alison («Ma dove compra quelle specie di sacchi che si mette?») e dall’atmosfera particolare di Allersmead, cambiavano presto atteggiamento dopo aver avuto prova della sua abilità. Un interesse casuale diventava nel giro di poco tempo forte ambizione: anche loro potevano sfornare quei piatti eleganti, fare colpo sulle amiche, spiazzare gli uomini di casa. Quelle che si erano iscritte solo per divertimento si trasformavano presto nelle seguaci più ferventi, passando dal corso base a quello avanzato, da idee per insalate veloci alla cucina italiana, mediorientale e thailandese. Alison in versione cuoca è una sorpresa, scoprono; la sua casa potrà avere un disperato bisogno di essere rimessa a nuovo, i suoi abiti saranno di Butterick modello 1975, ma quando si tratta di cucinare Alison è all’avanguardia. Ha preso spunto da tutti i guru del settore e ha apportato variazioni e migliorie di sua invenzione: nell’uso delle spezie ha superato Claudia Roden, ha battuto Nigella, migliorato Jamie Oliver, riportato in auge e reinventato Elizabeth David. Quelle che partecipano ai suoi corsi, donne che pensavano di saperla lunga in cucina, rimangono senza parole davanti a quei risultati di tutt’altro livello. Osservano Alison tagliare, sbattere, mescolare. Guardano con meraviglia quel che esce dai suoi forni. Sottostanno con umiltà, con deferenza, alle istruzioni, tritano e rimestano fianco a fianco nella cucina di Allersmead, contendendosi la sua attenzione: «Alison, è abbastanza denso?»; «Alison, perché non riesco a fare un impasto come il tuo?» Alison cammina a un metro da terra, fluttuando con autorevolezza nel suo elemento, intoccabile. Le donne sanno che non raggiungeranno mai la sua abilità, le riconoscono una sorta di sesto senso culinario a loro inaccessibile, ma capiscono che qualcosa la impareranno, che possono aumentare le loro quotazioni, l’arte della cucina fa furore al giorno d’oggi, vale ben la pena dedicarle un pomeriggio e qualche sterlina.

Per Alison i corsi di cucina hanno significato affermazione personale, e un piccolo introito per sé. Le hanno conferito un nuovo status, ora che i figli non ci sono più, e un po’ di soldi da spendere come desidera. Non ha mai avuto un particolare bisogno di denaro; Charles ha sempre lasciato a lei la gestione delle finanze domestiche e non ha mai chiesto di vedere i conti. Hanno sempre avuto giusto quel tanto che bastava, purché si facesse attenzione, anche se ultimamente ciò che arriva in banca dai dividendi di Charles si riduce sempre più, per un qualche motivo. Non si è mai sperperato ad Allersmead, ma in ogni caso le spesucce fatte con i soldi dei corsi sono state motivo di soddisfazione. Negli anni Alison si è concessa – ha concesso ad Allersmead – le ultime novità in materia di frullatori e forni a microonde, ha preso un’aspirapolvere Dyson e un lavabo come si deve per il bagno al pianterreno al posto di quel vecchio acquaio, su cui aveva sentito fare dei commenti da parte delle sue allieve.

Charles rimane nel suo studio durante le lezioni di cucina. Gran parte delle donne non l’ha mai visto; talvolta si mormora qualche vaga ipotesi, essendo Alison così ovviamente e produttivamente sposata (le foto di famiglia ovunque, le tazze con i nomi). Ingrid è di supporto, sebbene enigmatica; entra ed esce dalla cucina, a volte fa un po’ di rapida pulizia, e Alison la definisce «la mia factotum». Alison non sa con esattezza cosa significhi quel termine; l’ha suggerito Ingrid, e a entrambe suonava bene. Le donne rimangono un tantino sconcertate da Ingrid, che è scostante se sottoposta a interrogatori discreti («Lei deve essere scandinava... Mi faccia indovinare: svedese?») e fa capire con chiarezza che il suo ruolo è strettamente professionale: «Lavoro con Alison già da qualche tempo».

Ingrid si è trasferita dalla camera all’ultimo piano in quella dove dormiva Gina. Nella stanza di sopra si è formata una fastidiosa crepa nel soffitto, che richiede la presenza di un secchio quando piove. È venuto un muratore per dare un’occhiata al tetto; quando è sceso, continuava a scuotere la testa, quindi ha presentato un preventivo palesemente ridicolo, con tutti quegli zeri. Alison ha immaginato che ci fosse un qualche errore, ma a quanto pare non è così. Charles si è limitato a fissarlo e ha scrollato le spalle, e naturalmente non sale all’ultimo piano da almeno una decina d’anni. Adesso i secchi lassù sono delle installazioni fisse, e la cosa sembra funzionare.

Allersmead appare quasi isolata di questi tempi, assediata tutt’intorno da un quartiere che è sottilmente cambiato. Il vicinato è di un altro tipo, ora: macchinone tirate a lucido sono parcheggiate nei vialetti d’ingresso, nella stessa strada una casa grande quanto Allersmead è diventata una residenza per anziani, un’altra è stata suddivisa in appartamenti. I vicini hanno venduto il giardino a una società immobiliare ed è spuntato un villino, con grande indignazione di Alison. La gente del quartiere è più giovane e distratta: schizzano via con le loro macchine eleganti alle prime luci dell’alba e ricompaiono la sera tardi, sia mariti che mogli; i loro figli hanno giovani bambinaie che li portano in giro. Ingrid sostiene che alcuni di questi bambini non riconoscono i genitori.

Nella buca sulla porta d’ingresso vengono infilate lettere di agenzie immobiliari, in cui si dice che tali agenzie hanno clienti impazienti di acquistare una proprietà in zona, simile ad Allersmead o, di fatto – è sottinteso – la stessa Allersmead. Alison le cestina. Sa dai commenti fatti dalle sue allieve che Allersmead appare come un originale connubio di elementi vetusti ed estremamente desiderabili («Voglio dire, che cosa non ne verrebbe fuori...»). Gran parte di quelle donne abita in villette più o meno nuove con quattro stanze da letto nelle vie ombreggiate dei sobborghi cittadini, nei paesini circostanti o nei vecchi magazzini lungo il canale che sono stati convertiti in loft. Rimangono estasiate davanti alle vetrate colorate di Allersmead, al marmo bianco e nero del pavimento nell’atrio. La cosa irrita Alison: non le piace che Allersmead sia vista come una specie di anacronismo, come una reliquia. «Questa è sempre stata una casa» dice. «La casa di una vera famiglia.»

È passato così tanto tempo da quando Alison viveva in un posto diverso da Allersmead, che non ricorda più che aspetto hanno le altre case. Ha lasciato i genitori per sposarsi quand’era molto giovane. I suoi ricordi d’infanzia raccontano di una casa bifamigliare edoardiana nella parte nord di Londra, spaziosa ma non enorme, e comunque di figli ce n’erano solo due. Quando ci ripensa, il paragone con Allersmead è inevitabile e ora le sembra, be’... un po’ angusta.

Individuò Allersmead la prima volta che la videro. La fissava: la gradinata che saliva al portone d’ingresso, le molte finestre che indicavano molte stanze, la sua solidità, il senso di sicurezza... sorgeva in mezzo a grandi alberi, con i suoi mille metri quadrati di giardino che si estendevano sul retro (così diceva la descrizione dell’agenzia). La fissava, e la vide popolarsi davanti ai suoi occhi. Visini sbirciavano dalle finestre; una figuretta girava in bici sulla ghiaia che copriva lo spiazzo rotondo del vialetto. Corse in avanti, seguita a distanza di qualche passo da Charles.

Lui disse: è piuttosto grande, non trovi? Lei era tutta presa dalla suddivisione degli spazi e lo sentì appena. Lui continuò: che cosa se ne fa uno di tutto quel giardino? Lei aveva delimitato il campo da croquet e fissato qualche altalena. Lui commentò: è una cucina di dimensioni industriali. Lei era riuscita a trovare un tavolone scrostato e gli uomini del trasloco lo stavano portando adagio adagio attraverso l’atrio. Lui aggiunse: c’è un altro piano su per quelle scale, è davvero molto grande. Lei stava sistemando Ingrid, o una sua omologa. Lui proseguì: sfora di parecchio le nostre previsioni di spesa, per la verità. Lei disse: quella stanza grande che dà sull’atrio, quella di fronte al salotto, quella con la boiserie e quel buffo vecchio caminetto piastrellato, potrebbe essere il tuo studio. Lui diede un’altra occhiata; cominciò a prendere le misure per le librerie.

Allersmead – la proprietà di Allersmead – si basa sul Vim, il Dettol, il Brasso, l’Harpic e l’appretto Robin. Fu necessario intaccare l’eredità lasciata a Charles dal suo padrino, quel benedetto e sostanzioso ammasso di soldi guadagnati grazie alla ripulitura e lucidatura di milioni di case. Il malloppo prelevato per comprare Allersmead significava che in futuro ci sarebbe stato un calo nelle entrate, ma Alison riteneva che se la sarebbero potuta cavare perfettamente. Di fatto, Allersmead, benché costosa, non era affatto richiesta come pare esserlo oggi. La gente non voleva quelle case vecchie, così grandi e scomode. Come fare per riscaldarla? Come tenerla pulita?

Charles non fece quelle domande. Si chiedeva ad alta voce, di tanto in tanto, come caspita avrebbero usato tutto quello spazio. Alison si limitava a guardarlo radiosa. Sorrideva e sorrideva. Oh, vedrai, esclamava, vedrai, andrà bene. Quanto al riscaldamento e alle pulizie, semplice: dei bei maglioni pesanti in inverno, e non si faranno mica troppe storie per un po’ di polvere. E, alla fine, andò proprio così. I bambini di Allersmead furono tra gli ultimi a conoscere il raffinato brivido estetico dei disegni di brina all’interno dei vetri; una volta al mese un blitz generale di Alison e poi di Ingrid avrebbe provveduto a spolverare un po’.

I bambini di Allersmead. Certo, era quello lo scopo delle manovre, e se Charles non l’aveva capito, be’, era agli inizi della sua carriera di scrittore, aveva altro a cui pensare, un libro pubblicato, un altro in cantiere. Alison gli era capitata, e tutto era successo piuttosto in fretta, e uno deve vivere da qualche parte e preferibilmente non più in un appartamento in affitto, consumando i pasti nel caffè dietro l’angolo.

O fu Charles che capitò ad Alison?

Mi volevo sposare, naturalmente. Voglio dire, allora le ragazze lo facevano: so che adesso è un’altra cosa, quasi tutte quelle del corso di Mestiere di madre non erano sposate, ma a quei tempi lo si dava per scontato. Ci si sposava, e si facevano figli naturalmente, a meno di essere una come Corinna, e davvero viene da chiedersi che vita potrà mai fare, ma lei sembra sempre parecchio soddisfatta, lo lascia intendere in modo abbastanza chiaro. Sapevo di volerne tanti. Crescere in una famiglia con due bambini mi ha sempre dato l’impressione che non fosse la cosa più giusta, in qualche modo. Due non fanno una famiglia. Non che non sia stata un’infanzia felice, beata, non mi posso lamentare, santo cielo, no, è stato un periodo d’oro, proprio come dovrebbe essere l’infanzia, ma ho sempre voluto fratellini e sorelline... chiaramente andavo pazza per le bambole, da piccola. Quindi, prevedevo di avere dei figli, fin da giovanissima; i figli erano una cosa ovvia, e meglio prima che dopo. E immagino che pensassi anche al matrimonio. Be’, allora si doveva, no?

Non cercavo qualcuno da sposare... mio Dio, no, ero giovanissima, non c’era fretta, solo che immagino fosse un pensiero che se ne stava lì. Quando conobbi Charles in quella biblioteca di Highgate, non pensai nemmeno per un attimo di sposarlo. Mamma mi aveva mandata a prendere dei libri e lui era là, e mi aveva aiutata a trovarne uno che lei voleva, e poi prendemmo un caffè insieme e lui mi piacque abbastanza e così lo invitai a un aperitivo che organizzavano i miei genitori, e semplicemente da quel momento le cose più o meno andarono avanti.

Non sapevo niente di contraccezione, non lo si sapeva a quei tempi, e naturalmente in seguito, dopo esserci sposati, non me ne importava, e poi alla fine non ce ne fu più bisogno. E comunque non mi è mai piaciuta l’idea: in un certo senso si uccidono dei bambini, no? In questo c’è da essere dalla parte dei cattolici. E così non mi preoccupavo e basta, e suppongo che non ci sia da meravigliarsi se... be’, se Paul è stato messo in cantiere un po’ presto, per così dire.

Ci saremmo sposati in ogni caso. Oh, sì.

Sapevo che Allersmead sarebbe stata perfetta appena la vidi. Una casa davvero deliziosa, semplicemente in attesa di una famiglia. Sì, certo, era un po’ costosa, ma non così tanto, e a noi non interessava avere un tenore di vita elevato, non come si usa adesso, quelle macchine che si vedono parcheggiate là fuori, e Ingrid dice che vanno tutti in vacanza nelle Indie Orientali o alle Seychelles, niente Devon o Cornovaglia. Ingrid qualche volta parla con le bambinaie: a quanto pare le pagano un occhio della testa.

E Allersmead è stata perfetta. Un sacco di spazio per tutti e il giardino per giocare – e in seguito ottimo per Ingrid e il suo orto –, Charles aveva il suo studio, e la cucina era l’ideale per così tanti bambini, e poi per anni è stata perfetta per i miei corsi. Adesso ci sentiamo un po’ sperduti, direi, ma ogni tanto uno di loro ci viene a trovare, e naturalmente tutta la casa è piena di ricordi. Loro sono ancora qui, per quanto mi riguarda.

In effetti Paul è qui, certo, come è successo di frequente. Spesso le cose non gli vanno per il verso giusto e lui torna a casa, be’, diciamo per fare una pausa e guardarsi intorno. Il lavoro al vivaio è solo una maniera per tirare avanti al momento, intanto che riflette su quel che vuole fare veramente. Alla fine Paul troverà la sua strada; ha avuto così tanta sfortuna, si è ritrovato a fare i lavori sbagliati e, francamente, a volte con la gente sbagliata, fin da quando era giovanissimo e si è lasciato traviare in quella faccenda della droga... Fosse stato per lui non si sarebbe mai fatto coinvolgere. Ha sempre dato qualche problemino, Paul, e certo lui è il maggiore, e suppongo che si abbia una predilezione... sì, si può dire che fosse il mio preferito.

Ma amore se ne ha per tutti, e se sono in sei non ce n’è di meno da distribuire, è come se ce ne fosse di più. Quando sono piccoli lo ricambiano, ma naturalmente dopo anche se lo fanno non si vede molto, e lo si deve solo mettere in conto, non ci si possono aspettare dimostrazioni di affetto da ragazzi di sedici anni, non che Roger non sia sempre stato un ragazzo carino in tutto e per tutto. E le ragazze vanno per la loro strada, niente di quello che dici fa un briciolo di differenza: Gina che scappa via per fare quell’università, Sandra così sicura di sé, matta per i vestiti fin da quando aveva otto anni, e Clare solo danza, danza e danza.

Ho fatto del mio meglio, e per lo meno c’ero sempre, per loro, avevano una madre e una casa, ed è questo che conta. Voglio dire, per tanti bambini non è così... già, chissà i bambini qui intorno, tra le macchine e le bambinaie. Allersmead era una vera casa, io ero sempre qui, li aspettavo dopo la scuola, e c’era la torta con il tè. I bambini hanno bisogno di sicurezza, no?

Quelle ragazze del corso di Mestiere di madre parlavano dei loro compagni e di doveri condivisi. Io non mi sono mai aspettata che Charles facesse granché, anzi, e naturalmente anche lui la vedeva così, soltanto un po’ di aiuto con i compiti qualche volta quando erano più grandicelli... e le discussioni con Gina, immagino che ora si direbbe cure genitoriali. Benché non possa dire che non ci siano state occasioni in cui... be’, in cui avrei voluto buttare giù la porta dello studio. Ma poi ci si rideva sopra, certo, è ovvio che non tutto scorreva via facile con una famiglia come la nostra, ci sono momenti in cui capita di avvilirsi.

È stato solo uno sfortunato incidente, con i piatti di Limoges. Paul non voleva, è solo che non era del tutto in sé quella sera.

Charles aveva il suo lavoro, i libri, e lo rispettavamo. Ammetto di non essere una grande lettrice, ma Charles lo sapeva che non leggo molto – ma le favole della buonanotte ai bambini, quelle sempre, sempre –, e non si sposa qualcuno per quello che ha letto o no, vero? Be’, forse sì se uno è come Corinna o Martin, non che siano sposati, e senza dubbio parlano di Shakespeare a colazione, e francamente non li invidio.

Charles non avrebbe voluto parlare dei libri. Dei suoi libri.

In una famiglia del genere, tutti parlavano, continuamente, all’inizio chiacchiere da bambini, e certo ci sono talmente tante cose pratiche, a uno serve questo o quell’altro, ma poi diventano più da adulti, a volte un po’ troppo, per me, Gina e le sue opinioni, e Charles che allora diceva la sua, non sempre in un modo che agli altri piaceva... papà fa il sarcastico, così dicevano.

Ma se c’era una cosa bella di Allersmead era che ognuno poteva starsene per i fatti propri, se voleva. Charles nel suo studio, e Ingrid nella sua stanza all’ultimo piano, e a volte nessuno la doveva infastidire. E i bambini avevano il giardino e talvolta scendevano tutti in cantina e, pensate un po’, i più grandi leggevano ai più piccoli, a quanto pare. Non è carino?

Le case degli altri davano la sensazione di essere così piccole. E le altre famiglie sembravano... scarne. Solo un paio di figli, tre al massimo. Io mi sentivo così fortunata, in confronto. Oh, commenti ce n’erano... «La tua deliziosa famiglia vittoriana, Alison», e Corinna che diceva: «Mia cognata fa coraggiosamente del suo meglio per sostenere il tasso di natalità in calo», rivolta a Martin, ricordo, la prima volta che lo portò qui, non si era accorta che ascoltavo.

Non ho mai avuto problemi a rimanere incinta. Succedeva e basta. Avevo addirittura l’impressione che forse non serviva... fare l’amore. Che magari sarei rimasta incinta lo stesso. Ora si dice fare sesso, giusto? Non fare l’amore. Suona così... primitivo. Rimasi un po’ scombussolata, la prima volta, ma è sorprendente la rapidità con cui ci si abitua, e alla fine è soltanto routine.

Se messa alle strette sull’argomento – una cosa che non è accaduta, per fortuna –, è probabile che Alison ammetterebbe di non aver mai gradito molto il sesso. Lo accettava abbastanza volentieri per finalità procreative: l’immacolata concezione era un’idea romantica, ma Alison sapeva molto bene che l’unico caso noto è attestato nella Bibbia. Nei primi anni, quindi, il letto a colonne di Allersmead aveva assistito a una quantità standard di sesso coniugale; quel letto, un’idea insolitamente stravagante, era appartenuto a una zia di Alison che stava per cederlo a un’asta, ma Alison l’aveva afferrato al volo e il letto l’aveva scampata. Vi nacquero Paul, Gina e Sandra; Katie e Roger dovettero accontentarsi dell’ospedale locale perché già allora i parti in casa non erano molto ben visti dai dottori e Charles aveva fatto capire che condivideva le loro riserve, benché probabilmente non per gli stessi motivi.

Ad Alison piaceva partorire. Non riusciva a capire perché certe donne facessero tutte quelle storie. D’accordo, era un po’ doloroso, ma non così tanto, nessuno dei suoi travagli era durato molto, solo un’oretta fatidica di lamenti e ansimi, ed eccolo lì, il piccolo e caro fagottino. Lei adorava stare seduta sul letto di Allersmead e mostrare il neonato ai suoi fratelli e sorelle, e a Charles. Provava un tale senso di realizzazione, ed era al centro di un meraviglioso rituale primevo, la donna nel focolare domestico che mette al mondo un figlio; Alison aveva la sensazione che la casa attorno a lei le fosse riconoscente, come se lei l’avesse adornata, come se avesse contribuito al suo arredo con una magnifica aggiunta. L’ospedale era una terribile delusione: estranei tutto intorno, altre donne con i loro fagottini e i loro rumorosi parenti, infermiere che trafficavano avanti e indietro, che attaccavano il bambino al seno come se collegassero un apparecchio alla presa di corrente, la catena di montaggio di dottori e ostetriche che estraggono così tanti neonati ogni giorno.

Non è documentato il numero complessivo delle nascite ad Allersmead, ma si deve presumere che dei neonati vi abbiano emesso il loro primo vagito fin dall’inizio del secolo, nell’età dell’innocenza anteriore al 1914, e in seguito devono esserci state nascite negli anni Venti e Trenta, e poi forse fino agli anni della guerra, a dare il loro contributo a un collettivo gemito di indignazione, l’universale saluto a un mondo freddo e abbagliante. Queste grida sono state assorbite dai muri, insieme a tutto ciò che la casa ha udito e di cui è stata testimone; i bambini sono cresciuti e se ne sono andati, e alcuni di loro sono morti, ma da qualche parte ci potrebbe ancora essere un paio di occhi ormai anziani per i quali la prima immagine fu un soffitto di Allersmead e che sbatterono le palpebre per la prima volta nella luce che filtrava dalle finestre di Allersmead.

Senza dubbio i padri di Allersmead dei tempi passati facevano tutto secondo tradizione e camminavano avanti e indietro mentre altri si occupavano di far bollire pentole d’acqua e il dottore correva su per le scale con la sua valigetta nera. Charles non camminava; continuava il suo lavoro, distratto dall’andirivieni e dall’atmosfera di generale solennità. Lo metteva a disagio la consapevolezza di avere un ruolo secondario, di essere inevitabilmente coinvolto ma anche, in quel momento, superfluo. Levatrici irritanti si riferivano a lui come al «papà», pasti frugali venivano imbastiti in modo frettoloso da Ingrid, gli altri bambini strepitavano per la casa del tutto fuori controllo. Quando il dramma giungeva alla sua conclusione, lui saliva di sopra («Siamo pronti per conoscere il papà, ora») e faceva il suo dovere al capezzale del letto, mentre Alison sorrideva radiosa e il fagottino si dimenava e frignava, e a Charles dava tutta l’impressione di un essere disumano. Pensava sempre al porcellino di Alice nel paese delle meraviglie, suo malgrado.

Alison ripensa con nostalgia a quei primi anni felici. I figli nascevano, e i bambini erano piccoli e ce n’era sempre uno in arrivo, sembrava durasse in eterno, e i problemi erano gestibili – la dentizione e la pertosse e un pizzico di gelosia tra fratelli –, salvo che non durò in eterno, niente affatto; cominciò l’incontrollabile gara su per la parete delle stature, e d’un tratto non ci sono più le docili figurette ma al loro posto un insieme di imprevedibili persone che sono profondamente familiari ma anche inquietantemente sconosciute. Allersmead è stata esposta a una qualche forza aliena esterna, si è verificata una mutazione, e Alison è impotente.

Alison reagisce. Si reinventa. Comprende di essere diventata la custode della loro sicurezza. Hanno ancora bisogno di Allersmead, hanno ancora bisogno di lei; non hanno ancora messo le ali, le stanno solo sbattendo.

Quindi agli anni felici sono succeduti periodi più impegnativi. Alison scopre di riuscire a adattarsi, e Allersmead fa lo stesso. I seggioloni dei neonati finiscono nel ripostiglio all’ultimo piano. I tricicli cedono il posto a biciclette lanciate giù per i gradini dell’ingresso; il grammofono delle filastrocche («Il contadino vuole una moglie, il contadino vuole una moglie...») è surclassato dallo stereo di Paul, dal walkman di Sandra. Sulle altalene in giardino cresce il muschio; la buca della sabbia è sepolta dalle foglie secche. Va bene, va tutto bene, ogni cosa è com’è sempre stata, solo che è diversa. Alison ha tenuto testa al passaggio del tempo e ne è emersa, se non trionfante, comunque a galla, ha tenuto la rotta.

E c’è dell’altro. Molto altro. Ci sono state delle rapide; le ha attraversate e superate. Ha mantenuto la calma e ha agito con giudizio e fermezza, per quanto sia stato difficile, per quanto si sia sentita delusa, tradita; ha tenuto lo sguardo fisso sull’unica cosa che conta: questa è una famiglia, questa sarà sempre una famiglia.

Dissi: faremo così. Ho sistemato tutto così. Lo dissi a lei. Lo dissi a lui.

Be’, dissi più di questo, un bel po’ di più. Non ricordo esattamente ora. So che parlai molto, perché in qualche modo mi era d’aiuto, mentre gli altri no... gli altri non avevano molto da dire, vero? E naturalmente i bambini non dovevano sapere, né allora né mai, quindi la conversazione deve essere avvenuta quando non erano nei dintorni, il che non succedeva di frequente in quel periodo. Roger aveva solo due anni.

Parlai soprattutto con Charles... be’, a Charles, sarebbe più corretto dire. Charles non parlò granché. Se ne stava seduto come fa lui, con quegli occhi fissi che sembrano trapassarti tanto che non sei sicura se sta ascoltando oppure no. Gli dissi che per quanto stessi male e per quanto ci avesse delusi, tutto ciò che contava era la famiglia. I bambini. Tutti, compreso quello che stava per arrivare. E Ingrid. Anche lei. Non ho mai voluto nemmeno per un istante che se ne andasse, gliel’ho detto subito. Era fuori discussione, aggiunsi. Gli dissi che era stato un errore stupido, sciocco, e mi resi conto che... be’, che dovevamo conviverci tutti, per sempre. E l’unico modo, il modo migliore per ciascuno, era farlo insieme, come una famiglia. Salvo naturalmente che i bambini non lo dovevano sapere, non lo devono sapere, nessuno di loro, nemmeno... Clare. Avevo pensato a cosa dire, e così avrei fatto, e fine del discorso. Potevano anche dimenticarsene, sarebbero stati in sei e andava benissimo così. Non c’era bisogno di aggiungere altro, mai più, ci eravamo detti tutto, per lo meno io sì, ogni cosa era sistemata e avremmo fatto del nostro meglio e punto. Capisci? gli dissi. Mi hai capita? E lui continuava a fissare davanti a sé e non ricordo cosa rispose. Niente di che.

Era l’unica maniera. L’unica maniera di affrontare la situazione. Non l’hanno mai saputo, i bambini. Sono sicura di no. A volte me ne dimentico io stessa. A volte.

Ormai è passato così tanto tempo. Alison è un’altra; non è più una giovane madre con vaporosi abiti Laura Ashley e capelli castano-topo che sfuggono dalle forcine, ma una madre sessantacinquenne con scamiciati di velluto a coste e capelli grigio-marrone che continuano a fare lo stesso. È ancora anzitutto e in primo luogo una madre, ma la maternità è ormai un simbolo; è il nucleo della sua condizione, ma non è più il suo mestiere. I suoi giorni sono occupati da Allersmead – Allersmead è ancora esigente, richiede ancora manutenzione, ordine – e dalla cucina. C’è ancora gente da sfamare; due volte alla settimana ci sono le allieve dei suoi corsi, a cui può insegnare come sfamare altra gente. Queste donne vengono e vanno... anzi, con il passare degli anni si sono fuse, per Alison, in un’unica aspirante cuoca che le pasticcia la salsa olandese e le fa sgonfiare il soufflé. Ci sono state delle punte di diamante, che si sono diplomate con lode. E ci sono state quelle le cui personalità hanno lasciato un’impronta permanente, di cui conserva commenti e sguardi, benché vorrebbe tanto cancellarli. Queste donne indossano abiti di qualità, i loro capelli sono curati, hanno un vitino di vespa e belle carnagioni e, è sottinteso, case ben arredate e mariti premurosi. Alison ha capito che se non fosse la cuoca che è, non l’avrebbero notata, che per loro è come se appartenesse a una sottospecie. L’hanno spinta a chiedersi se prova davvero simpatia per le altre donne.

Alison ha meno amici, ultimamente. In passato, quando i bambini andavano a scuola, aveva una cerchia di amiche del vicinato, le altre madri che frequentava, che spedivano i loro pargoli a giocare ad Allersmead, davanti alle quali Alison non poteva fare a meno di compiacersi. Nessun’altra ne aveva sei. Da nessun’altra casa usciva una processione così nutrita, ogni giorno di scuola; nessun’altra casa risuonava di altrettanta vita infantile, profumava altrettanto di famiglia. All’epoca, Alison si sentiva una regina – graziosa, discreta – rispetto ad amiche e conoscenti dalla dotazione più scarsa.

Ora però sembrano tutte svanite, quelle altre madri.

I vecchi visi familiari sono scomparsi (i loro figli cresciuti, le case troppo grandi) e sono stati rimpiazzati dai malfermi ospiti della casa di riposo, o dai proprietari delle macchine costose che di giorno latitano. Non ci si ferma più in strada per fare due chiacchiere, di questi tempi.

Ad Alison non importa, nel complesso. Allersmead è sempre stata autosufficiente; certo, è ai ranghi ridotti ora, con i bambini che se ne sono andati, ma rimane l’unità di sempre. Ed è popolata da tutti quegli amabili fantasmi... eternamente felici, in armonia, la famiglia ideale; dondolano sulle altalene, scavano nella buca della sabbia, il grammofono canticchia sommesso di sopra: «Il contadino vuole una moglie...»

Charles è ingrigito, più curvo, ma per il resto insensibile al tempo, o così sembrerebbe. Passa ancora gran parte delle giornate nello studio, ma è da un po’ che non ne emerge nessun libro. Incontra poco entusiasmo negli editori. I vecchi contatti sono stati rimpiazzati da giovanissimi, uomini e donne, che rifiutano gentilmente le sue proposte: si vedono nell’impossibilità di portare avanti l’idea, per quanto interessante. Charles continua a lavorare a un libro – certo che sì, che altro potrebbe fare? –, ma si accorge che il suo rapporto con questo libro è diverso da quello con gli altri: non c’è ancora molto di scritto, l’urgenza e l’impulso sono scarsi, il libro è come una specie di vestito comodo che indossa quando lo ritiene conveniente. Non gli interessa davvero se sarà pubblicato o no. Gli basta avere motivo di essere impegnato nel suo studio come ha sempre fatto. Talvolta non si sente troppo bene, ultimamente.

Ingrid si è data all’imprenditoria. Durante i mesi di coltivazione vende i prodotti dell’orto in sovrappiù alle allieve dei corsi di cucina. Ha esteso la sua attività ai fiori da vaso, trasformando un ulteriore spiazzo del giardino in un’area che le fornisce un regolare raccolto variopinto. Alison insiste perché tenga per sé quegli introiti, ma Ingrid, in ugual misura, insiste per metterli nella cassa comune di famiglia. Sa di certi problemi di liquidità, forse ben più di Alison o Charles, che preferiscono ignorare questa difficoltà.

Ingrid si è appesantita, non ha più quella figura flessuosa da ragazza. Ma i suoi capelli, quei capelli traditori, sono ancora color del grano, senza un filo di grigio. Ha sempre il suo sguardo impassibile, enigmatico, la stessa tendenza a intromettersi nei discorsi con osservazioni spiazzanti. Le allieve dei corsi di cucina sono sconcertate da lei: non riescono a decifrarne il ruolo, e le risposte scostanti che lei dà ai loro approcci le mettono a tacere; Alison è ermetica se interrogata: «Oh, Ingrid è un tale aiuto: che cosa faremmo senza di lei?» Quel «faremmo» sembra coinvolgere il raramente visibile Charles, il marito nei cui confronti le donne provano una leggera curiosità. Quelle che l’hanno avvistato, e che hanno persino tentato di scambiarci una parola, riferiscono di un uomo dall’aspetto vagamente distinto con la più vecchia giacca di tweed che si sia mai vista, non quel che si dice un tizio socievole, abbastanza educato ma che si rituffa subito in quella sua stanza; che cosa ci farà? viene da chiedersi.

Allersmead suscita una certa curiosità. Forse l’ha sempre fatto, ma nel periodo in cui era più piena, quando pullulava di bambini, il responso comportava anche una lieve critica: che ci fa quella gente con una famiglia così grande di questi tempi, a quanto pare non sono nemmeno cattolici, e che strana coppia mal assortita, lui tanto riservato, saluta a malapena, mentre lei è tutta sorrisi e chiacchiere. Oggi l’interesse si concentra sugli abitanti – un terzetto alquanto anacronistico (tranne per quanto concerne l’arte culinaria), e che cosa fa esattamente quella Ingrid? –, ma in pari misura sul luogo. I vicini hanno quasi tutti un grande senso della proprietà – o sono seduti su una miniera d’oro o si sono dovuti ipotecare anche la madre per comprarsene una – e notano che Allersmead è lontana dall’essere in condizioni accettabili. Il tetto ha un evidente bisogno di riparazioni, le grondaie si incurvano, l’intonaco si scrosta e c’è una crepa che sale a zigzag sul muro in mattoni della veranda. È per incuria, o mancanza di fondi?

Ingrid si è procurata un computer qualche anno fa, dopo aver spiegato la posta elettronica ad Alison, che ne ha visto subito il potenziale: ecco il modo per non perdere di vista nessuno. Ingrid deve fare da tramite: i saltuari tentativi compiuti da Alison per acquisire competenze informatiche si sono rivelati presto vani; Charles ha dato un’occhiata e ha girato lo sguardo. Il computer è collocato nella stanza del televisore, il che l’ha trasformata nel cuore dell’Allersmead del ventunesimo secolo. Ingrid controlla le e-mail ogni giorno, e invia quelle redatte da Alison. Nessuno è fuori portata, ora; i tentacoli di Allersmead abbracciano il globo. Inoltre Ingrid ha allestito il sito web dei «Corsi di cucina di Allersmead», cosa che ha attirato più clienti di quante Alison riesca a gestire. La lista d’attesa è lunga e gratificante, e le donne che finalmente arrivano in cima sono più che impazienti di trarre profitto da questa ambita esperienza. Ingrid dice che Alison dovrebbe aumentare il prezzo.

Quando c’erano ancora i bambini, in qualche modo Alison non aveva mai immaginato il momento in cui non ci sarebbero stati. Oh, sapeva che sarebbe arrivato, ma non ne considerava mai le implicazioni, non saggiava l’idea di una casa svuotata, non stava in ascolto per percepire il silenzio. Se ne sono andati per gradi, naturalmente, quindi il silenzio è arrivato allo stesso modo, e ci sono stati ritorni, e ora c’è di nuovo Paul e il silenzio è mitigato. Ci si è abituata. Ci si può abituare a tante cose, lo sapeva da un pezzo.

È piuttosto soddisfatta di come Allersmead si sia reinventata, di come sia diventata utile in una maniera diversa: i prodotti di Ingrid, i corsi di cucina. Un tempo, sfornava bambini; ora ha un’altra forma di creatività. Ma continua a essere un tempio votato a ciò che conta: l’edificazione del focolare domestico. Alison si rammarica che le sue idee in materia fossero accolte con un certo gelo nel corso di Mestiere di madre; avrebbe voluto sviluppare il tema illustrando alle partecipanti, in forma del tutto astratta, certamente, come si possano superare gli inevitabili intoppi della vita famigliare usando determinazione e buonsenso. Ma a quelle interessavano soltanto cose come la dermatite da pannolino e i rigurgiti. Alison darà un bel taglio a quel corso, ma ne ha in mente uno nuovo sulla pasticceria e la preparazione di marmellate e conserve.

In casa le stanze vuote non mancano proprio, di questi tempi. Il soggiorno viene usato di rado, la stanza del televisore è nel complesso più comoda. Ingrid ha trasformato una delle camere all’ultimo piano in un laboratorio con la sua macchina per cucire. Di sotto ci sono camere da letto vuote, anche se Paul dorme nella sua di sempre e Charles si è trasferito da un pezzo nella vecchia stanza di Roger. Quel letto matrimoniale a colonne ha ormai un’aria beffarda. Dopo l’arrivo di Clare, Alison era diventata piuttosto riluttante al sesso; era meglio che non ci fossero altri figli, tutto considerato.

E ho sempre detestato l’idea della pillola, quindi meglio andare sul sicuro. Comunque Charles se ne andava spesso nella stanza degli ospiti quando voleva leggere e io volevo spegnere le luci, quindi non cambiava molto.

Mi lasciano sempre sgomenta quando tornano ora... mi dimentico di come saranno e mi ritrovo degli adulti. Gina con un altro uomo, e naturalmente Charles ci ha dovuto discutere, suppongo perché negli ultimi tempi non ne ha molta occasione. Meglio non chiedere cos’è successo con quel David, Gina non è mai stata una da confidenze. La moglie di Roger è di una dolcezza squisita, davvero: ho provato la sua ricetta delle cialde, e me ne spedirà altre per e-mail. Ci si abitua completamente al suo aspetto cinese, anche se all’inizio sembrava strano, non te lo immagini che parli inglese così, con l’accento canadese. Katie non la vediamo da secoli, ma dice che forse verranno l’anno prossimo. Clare sembrava molto, per così dire, straniera, l’ultima volta che è venuta, ho quasi pensato che si sarebbe messa a parlare in francese o altro. E, certo, Sandra è così elegante, ma lo è sempre stata, persino con la divisa della scuola... e che regali porta, cose da mangiare ottime e foulard di seta che non posso indossare, ma a volte li mette Ingrid.

Charles è difficile in questi giorni, ma non è mai stato un uomo facile, il più delle volte andava preso con le pinze. È difficile in modo diverso ora, non così irritabile e chiuso in se stesso... è più nervoso, agitato, non sopporta quando il cane abbaia e a volte sembra veramente invecchiato. Da qualche tempo si ferma a metà scala quando va di sopra, si siede sulla panca sotto la finestra, e ha preso l’abitudine di portarsi la mano al petto. Non ha niente che non va, naturalmente, Charles ha sempre avuto una salute di ferro, è solo una questione di umore. In più, si è rimesso a bere nel suo studio, cosa che non faceva da anni.