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Forbici

Quando inizia il giorno, mentre la luce aumenta e in casa alcuni si rigirano nel letto, sbattono le palpebre, si rannicchiano per dormire ancora un po’ (Sandra, Katie, Roger, Clare), e altri sbadigliano, fissano la finestra o la sveglia, tornano alle preoccupazioni del giorno prima (Charles, Paul, Ingrid) o si limitano a riprendere il filo dell’esistenza (Alison, Gina), quando questo mattino di primavera acquista slancio ci sono nove persone ad Allersmead, nessuna delle quali distante più di un paio di metri dalle altre, ma tutte lontanissime con la mente e con il cuore. Gli adulti non sono capaci di ricordare cosa succede nella testa di un individuo di sei anni e mezzo, o dieci, o quindici. I bambini nel complesso non hanno la più pallida idea di quali spinte o motivazioni facciano agire i grandi, o dello scenario dei loro pensieri. I bambini hanno vari modi di comprendere istintivamente il motivo per cui i loro coetanei si comportano in una certa maniera; gli adulti vivono l’intimità del rapporto giornaliero ma si perdono di vista sotto altri aspetti: come la maggioranza delle persone, si conoscono a fondo e non si conoscono affatto.

Così, inizia il giorno, un giorno come tanti, per ciascuno di loro, anche se va detto che alcuni ne hanno al proprio attivo più di altri: poco oltre i quindicimila Charles, più modestamente duemila abbondanti Clare. Un giorno è un giorno è un giorno... ma alcuni picchiano più duro di altri, e alle otto del mattino non è dato saperlo. Quello di oggi sembra volgere al bello: cielo azzurro d’inizio aprile con un velo di cirri sottili, il sole che brilla sulle gemme di castagno, la radio accanto al letto matrimoniale che accenna a scrosci di pioggia nella Scozia settentrionale, ma che subito dopo passa alla questione più scottante del contingente militare che solca l’oceano diretto verso quelle isole dell’Atlantico meridionale, e della guerra che sta per cominciare. Ci sarà un sacco di gente laggiù per la quale la giornata non sarà particolarmente propizia.

Ad Allersmead è semplicemente un nuovo giorno. Non è il compleanno di nessuno, non ci sono preparativi speciali in vista. Alcuni hanno dei programmi. Charles ha intenzione di lavorare, è in una fase cruciale del suo libro e vuole portare avanti questo nuovo capitolo. Sandra deve assolutamente andare dal parrucchiere e a comprarsi dei jeans e da French Connection. Alison si sveglia pensando alla ricetta del pollo al limone al forno. Paul ha un progetto che lo tiene in apprensione. Ingrid più che pensare rimugina; lo scontento le pervade la mente come una nebbia grigia.

Clare vede, dalla finestra della camera, i germogli di castagno scintillanti, lo splendore dell’erba, e rimane, per un attimo, pietrificata.

Anche Gina ascolta il notiziario alla radio, la sua radio personale, quella che ha ricevuto in regalo a Natale, e si fa un’opinione.

La casa stessa ha conosciuto all’incirca quarantatremila giorni da quando è sorta sul fango di un cantiere edile in tarda epoca vittoriana. Ha visto più di un secolo di colazioni, ha superato svariati decenni di primavere, di gente che diceva: oh, guardate, gli alberi stanno mettendo le gemme, del sole che si faceva strada nelle stanze, di tarme che si insinuavano in finanziere e calzoni alla zuava e twin-set e, oggi, nella giacca buona di tweed preferita da Alison. Ha resistito a pranzi di quattro portate serviti da cameriere, all’arrivo del grammofono a molla e della radio, alla scomparsa delle cameriere, all’assalto dell’aspirapolvere; ha visto nascite e morti, e sesso in grande quantità. Gran parte di tutto ciò non lo dichiara; mantiene il riserbo, non dà testimonianze dello Sturm und Drang, delle voci grosse e delle lacrime, né delle risate, dell’esuberanza, delle aspettative. Non è che l’involucro, l’intelaiatura, ciò che permane quando tutta quell’evanescente materia umana è transitata e passata. È un tripudio di impassibili mattoni rossi, piastrelle nere e bianche, boiserie di quercia, vetrate con gigli e acanti. Non sa né si interessa. Il suo attuale valore di mercato sorprenderebbe i suoi costruttori, ma lo stesso farebbe buona parte di ciò che si incontra nel suo quartiere alberato, in questo sobborgo di provincia: le automobili, le donne con i pantaloni, le automobili, gli uomini senza cappello, le automobili, i curiosi bracci di metallo infilzati su ogni tetto o camino. Ma potrebbero rimanere sbalorditi, o compiaciuti, anche dall’imperturbabile resistenza della casa, che è cambiata pochissimo. Ha visto passare le mode, o piuttosto si è collocata al di sopra delle mode. È saldamente ancorata a un’epoca, ma ha anche navigato libera dal suo tempo, si è conformata ad abitudini e pratiche nuove, ha fatto propri il riscaldamento centralizzato e le lavatrici, l’agnosticismo e il voto alle donne, e i bambini non più soltanto voci da ascoltare, ma anche volti da guardare. Creata come tempio della vita famigliare, tale è rimasta, anche se la vita famigliare è ormai una nozione alquanto diversa.

La famiglia, stamattina, si alza secondo i gusti personali. Sandra fa il bagno, usando il bagnoschiuma Bliss Bubble Bath e impedendo agli altri di entrare per moltissimo tempo. Paul si strofina la faccia con una salvietta, e fine del discorso. Alison fa la doccia e si chiede in quanti mangeranno la ratatouille se non abbonderà con l’aglio. Charles si taglia nel farsi la barba e scende a fare colazione con un pezzetto di kleenex sul mento, cosa che fa ridacchiare Clare.

Ingrid si sistema i capelli in una treccia elaborata e arriva di sotto ben più tardi del solito. Katie, che la precede, scopre che il cane ha fatto la cacca nel guardaroba e pulisce in modo da evitargli guai.

Roger fa la verticale in camera finché Alison non lo richiama. Gina continua ad ascoltare la radio mentre indossa i jeans e il pullover rosso, e decide di scrivere una lettera di protesta alla signora Thatcher.

Charles è presente solo in parte, ecco il perché del taglio durante la rasatura (Alison ha perorato per anni il rasoio elettrico, ma Charles ha le sue preferenze). È al capitolo dodici del suo libro, che tratta dei riti adolescenziali di iniziazione nelle società primitive. L’opera è uno studio generale sul culto della gioventù, nel tempo e nello spazio. Ne è soddisfatto. Ha solamente qualche altro mese di lavoro, poi la limatura, la rifinitura e il controllo, quindi le note a piè di pagina e poi via all’editore, dopo di che potrà cominciare a pensare al prossimo libro, che per ora si limita a frullargli in testa ma che sarà un’analisi del concetto di nostalgia. Charles va fiero del suo eclettismo: non scrive mai due volte lo stesso libro; è conosciuto e apprezzato per l’ampiezza dei suoi interessi, la sua capacità di volgere la mente verso nuovi campi. Non fa per lui il guscio ristretto di una singola disciplina; non fa per lui un qualche polveroso titolo accademico. Per fortuna. In passato ha tentato per un periodo la carriera universitaria, ma l’ha abbandonata presto. Grazie a un padrino che fece fortuna vendendo prodotti per la pulizia della casa agli inizi del ventesimo secolo, Charles gode della protezione di una modesta rendita personale, nulla di principesco ma, rinforzata dai guadagni dei libri, sufficiente per mantenerli tutti, con un po’ di oculatezza. Sia lodato il cielo per il Vim e il disinfettante Dettol e il lucido Brasso.

Così stamattina pensa alle cerimonie di iniziazione dei maschi nell’Africa subsahariana e alla pubertà a Samoa e in Nuova Guinea, e a come infilarci elementi che screditino Margaret Mead, e al fatto che gli manca un riferimento bibliografico piuttosto fondamentale, motivo per cui stamane dovrà andare in biblioteca invece di rinchiudersi subito nello studio. Non importa, può riprendere il lavoro sul capitolo nel pomeriggio. E poi c’è quel filo di sangue sul mento che nota a malapena, preso com’è dalla sua giornata e da quel che ne ricaverà.

Il sabato Charles fa colazione con i figli. Nei giorni feriali la cucina è un turbinio di gente che parte per la scuola, borse per la ginnastica che non si trovano, compiti dimenticati, fretta e momenti di crisi; lui tende ad agguantare toast e caffè e a rifugiarsi nello studio. Nei fine settimana rimane seduto a capo del grande tavolo, legge il giornale e di tanto in tanto ascolta con benevola attenzione conversazioni, opinioni, resoconti, richieste, battute.

Gina annuncia che secondo lei questa guerra è una pazzia. La guerra nelle Falkland. Che senso ha farsi uccidere per delle isole sperdute in mezzo all’Atlantico dove nessuno sano di mente vorrebbe comunque vivere? Charles osserva che, in effetti, quello potrebbe essere un punto di vista, e neppure irragionevole, ma che c’è un problema di diritto internazionale, di sovranità.

Roger sta facendo una ricerca per la scuola sugli antichi greci. Chiede a Charles se ha un libro con un’immagine del Partenone da poter copiare. Charles medita e risponde che pensa di non averne. Tutti quei libri, e neanche uno con il Partenone, ribatte Roger contrariato.

Clare annuncia alla tavolata di avere un dente che dondola.

Katie dice a Roger che anche la sua classe ha fatto quella ricerca e che non serve avere il Partenone, va bene un tempio antico qualsiasi.

Sandra deve andare a fare shopping. Deve comprare una canottiera azzurra. E tagliarsi i capelli. Alison la accompagnerà in città con la macchina?

Paul è piuttosto taciturno. Quando, a un tratto, chiede del pane, Charles rimane sbigottito dalla sua voce roca, cosa molto frequente negli ultimi tempi. Suo figlio maggiore sta cambiando, sta diventando un altro. Charles ne è vagamente sorpreso, ma non sgomento come Alison, che vorrebbe comprimerlo, arrestarne lo sviluppo. Non le piace il fatto che cresca. È rimasta scioccata l’ultima volta che ha accostato Paul alla parete delle stature.

Pian piano, tutti si dileguano dal tavolo della colazione. Tranne Alison e Ingrid, che stanno rassettando. Tranne Paul, che rimane seduto a osservare il padre. Charles è immerso in quella lontana e imminente guerra, in quel nuovo gergo fatto di Exocet e zone vietate. Dopo un po’ si accorge che Paul ha parlato.

«Be’, posso?»

«Puoi cosa?» chiede Charles.

«Posso andare ad Amsterdam per un weekend con Nick e altri della scuola?»

«Per quale motivo?»

«Per farci un giro. Vedere un po’ di roba.»

«Quanto?»

«Trenta sterline. Anche meno.»

«No» dice Charles, tornando agli Exocet.

Alison, all’acquaio, è silenziosa ma in evidente ascolto. Sembra sul punto di parlare, ma non lo fa. Ingrid toglie la tazza vuota di Charles, passa un panno umido sul tavolo.

«I genitori di Nick lo lasciano andare» ribatte Paul. Imbronciato. Offeso. La sua voce sembra un grugnito.

Charles piega il giornale, dà un’occhiata a Paul e poi al suo orologio. «Hai un particolare interesse per Van Gogh?»

«Chi?»

«Appunto» risponde Charles. Si alza, si rivolge ad Alison: «Vado in biblioteca, ma sarò di ritorno per pranzo».

Paul guarda torvo il padre. «Quindi è no e basta?»

«Temo di sì» replica Charles abbastanza gentilmente. «Non vedo nessun motivo sensato per acconsentire.» Esce dalla stanza.

Paul sferra un calcio violento alla gamba del tavolo. «Merda!» Il tavolo oscilla. Ingrid fa schioccare la lingua contrariata.

«Ti capisco benissimo, tesoro» interviene Alison. «Ma hai solo quattordici anni, e non sono sicura che Amsterdam sia davvero... Voglio dire, perché non una gita di un giorno al mare con i tuoi amici, magari a Brighton... A dire la verità sono sorpresa che i genitori di Nick... Ne sei proprio sicuro?»

«Hanno detto forse» ringhia Paul. «Forse, se io ho il permesso.» Aggiunge, in tono pacato: «Odio papà». Esce a grandi passi.

Ingrid dice: «Il latte è finito. Vado a prenderlo. O tu più tardi vai da Sainsbury?»

Da sola in cucina, la cucina inondata dal sole primaverile, Alison pensa al menù. Da un lato, prevede bastoncini di pesce e hamburger di manzo con patatine fritte, pasta al forno, salsiccia in pastella, patate e cavoli fritti; dall’altro, immagina con un certo desiderio coq au vin e cassoulet, e la ratatouille che si prefigge di infilare tra i piatti previsti per questo fine settimana. Ci sono le ricette per la famiglia e quelle per gli adulti, ed è su queste che Alison si vorrebbe concentrare se fosse possibile, ma non lo è perché susciterebbe malumori fra la truppa. La ratatouille potrebbe anche non venire contestata, ed è quasi sicura di passarla liscia con il pollo al limone, che è un piatto al limite tra i gusti dei bambini e quelli propriamente da adulti. È seduta al tavolo a prendere nota degli ingredienti e si accorge di essere a corto di questo e di quell’altro, il che richiederà un giro al supermercato... una seccatura, il sabato.

Alison è una donna di casa, una casalinga, una figura ormai passata di moda, ma le sue capacità gestionali non sono molto affinate. Non programma con sufficiente anticipo, esaurisce le scorte, si dimentica di far revisionare la caldaia o di pulire le finestre, i bambini la rimproverano perché le divise della scuola sono diventate troppo piccole o perché non ha dato loro i soldi per la lotteria di beneficenza. Ingrid le fa spesso da promemoria («Cosa farei senza di te?»); Charles si limita ad avere un’aria rassegnata e distaccata.

Lei è consapevole di queste mancanze, ma non se ne preoccupa più di tanto. Dopotutto, ognuno ha da mangiare, ognuno ha un tetto, cure amorevoli, ascolto, aiuto, i soldi della paghetta, le feste di compleanno, amore, attenzioni e una vita famigliare davvero a quattro stelle, ed è questo che conta, no? Poco importa se talvolta c’è qualche lieve intoppo; poco importa se non è una di quelle case che funzionano come una macchina: quel che conta è essere parte di una famiglia, o no? Una splendida e grande famiglia. Per Alison, Allersmead è come se fosse l’archetipo del focolare domestico acceso, e lei ne è la custode. È ciò che ha sempre voluto: bambini e una casa dove metterli, una casa capiente, ampia. E un marito, naturalmente. E un vecchio e amato cane. E le pirofile Denby e un Moulinex e una pesciera e un set di coltelli Sabatier. Le ha tutte, queste cose, e sa di essere fortunata. Oh, tanto fortunata.

Alison non rimane a lungo da sola in cucina. Gli altri vanno e vengono. Gina vuole sapere l’indirizzo della signora Thatcher. Alison immagina che sia il numero 10 di Downing Street, e le viene mostrata la bozza della lettera di Gina, che è concisa e va dritta al punto. Gina pensa che quella del contingente militare sia un’idea stupida e che questa guerra sia uno spreco di soldi e di vite umane. Avverte la signora Thatcher che lei non la voterà quando avrà diciotto anni. Clare ha perso le forbicine, quelle per ritagliare, e vuole usare quelle da cucina, cosa che Alison le proibisce perché sono forbici vere, affilate, e lei non ha ancora il permesso di usarle. Clare si stizzisce, ma viene sviata da Ingrid, che arriva in quel momento: «Vieni, facciamo degli omini di pasta». Clare è felice tra farina, acqua e mattarello, ed è distratta solo da Roger e Katie che entrano in volata, si buttano sul tavolo e si mettono a fare quel gioco con mani aperte, pugni chiusi e dita a forbice: la morra cinese. Anche Clare vuole giocare. Katie le spiega, con pazienza: «Le forbici tagliano la carta, la carta avvolge il sasso, il sasso spunta le forbici». Clare sceglie sempre le forbici.

Sandra chiede dei soldi per l’autobus. È imbronciata perché Alison le ha rifiutato un passaggio fino ai negozi: più tardi Alison andrà al supermercato fuori città, che è in direzione opposta, e non ha intenzione di guidare ulteriormente per oggi.

Paul non si vede, ma lo si sente sbattere la porta d’ingresso, presumibilmente per andare in cerca di qualche suo amico.

Charles non passa una bella mattinata in biblioteca. In realtà, è deluso. La sezione bibliografica è poco fornita e non è in grado di soddisfare le sue esigenze. Charles non ricorre molto spesso alla biblioteca cittadina – va a Londra, alla British Library –, ma per una semplice verifica di dati verrebbe da pensare che una biblioteca pubblica decente possa bastare. Si aggira irritato per un paio d’ore, tartassa un bibliotecario e se ne va scontento. Sarebbe dovuto andare a Londra. Troppo tardi ormai; dovrà farlo lunedì, e completare qualche passaggio fondamentale in seguito. È ansioso di tornare a quel capitolo; è in vena di scrivere, il lavoro procede fluido, deve approfittare della giornata. Proprio di quella giornata.

Così va a casa, in tempo per il pranzo, di cui sente il profumo non appena apre la porta d’ingresso, un aroma di arrosto, di limone. Il cane (una specie di labrador, preso al canile di Battersea, Alison vuole soltanto trovatelli) lo saluta servile e rispettoso, a differenza dei suoi figli. Charles gira a sinistra ed entra nello studio per lasciare la valigetta e trova Gina, che sta aprendo un cassetto della sua scrivania.

Gina ha contravvenuto alla regola. Ha trasgredito ogni regola. Nessuno dei bambini è ammesso nello studio. Non è consentito disturbare Charles quando è lì dentro («E se la casa stesse bruciando? E se mamma fosse morta stecchita?»), e non devono assolutamente entrarci quando lui non c’è. Ma ecco Gina, davanti a un cassetto aperto.

«Che cosa stai facendo?» domanda Charles.

Gina risponde che sta cercando della carta e una busta. Ha scritto la brutta copia di una lettera alla signora Thatcher e la deve trascrivere in bella su uno di quei fogli con l’indirizzo in alto che ha lui.

«Avresti dovuto aspettare e chiedere» replica Charles. «Lo sai che qui non si entra. E comunque non è in quel cassetto.»

Gina lo chiude, con una certa forza, riuscendo a far volare via i fogli in cima al dattiloscritto accanto alla macchina per scrivere. Charles sbotta arrabbiato e balza in avanti per raccoglierli. «Gina, sul serio non voglio che entri qui. Tieni, ecco della carta e una busta.»

«Non vuoi leggere la mia lettera?» chiede Gina, in tono gelido.

Charles prende la bozza, la scorre e la restituisce. «Ottima.»

«Riceve molte lettere?»

«Senza dubbio» risponde Charles. Tutta la sua attenzione è rivolta al dattiloscritto, le cui pagine sono state messe in disordine.

Gina rimane un attimo in silenzio. Poi: «È il libro che stai scrivendo?»

«Mmm.»

«Di cosa tratta?»

«Di... del comportamento che le persone hanno avuto in passato con i bambini e i giovani in varie parti del mondo.»

«Di cosa tratta quella parte?»

Charles esita. Decide di non addentrarsi nei rituali di circoncisione in Namibia e altri paesi. «Oh... di quel che significa crescere in società diverse dalla nostra.»

«Per la verità» dice Gina, «ne ho letto un pezzo. Mi è sembrato disgustoso.» Fissa il padre con fredda disapprovazione. Charles, colto per un attimo in contropiede, si sente personalmente responsabile di quelle pratiche dolorose. Poi si riprende, recupera la sua superiorità morale e replica: «Gina, non devi ficcare il naso sulla mia scrivania. Non farlo più».

C’è del movimento sulla porta. Entrambi si accorgono di Clare, che li sta osservando con interesse. «È ora di pranzo» annuncia.

«Bene» dice Charles secco. «Gina, prendi la carta e la busta. D’accordo, Clare. Di’ a mamma che arrivo.»

Il pollo al limone non passa incontestato.

«Che roba è?» chiede Roger. «Non mi piace.»

«Neanche a me» dice Clare.

Ingrid dichiara che il pollo è ottimo. Altri mangiano senza commenti. Paul ne prende due porzioni; Alison gli fa un sorrisone. Lui ignora a bella posta il padre.

Charles non nota che Paul lo sta ignorando; nel corso degli anni ha sviluppato una sorta di immunità alle reazioni dei suoi figli. Altrimenti sarebbe difficile agire con indipendenza. Ciò non significa che sia inconsapevole, o indifferente; solo che queste particolari circostanze famigliari richiedono un certo spirito di autoconservazione. In ogni modo, Alison è più esperta di lui nel gestire l’altalena delle emozioni; la maternità è il suo métier. È quello che ha sempre desiderato. Di tanto in tanto lui si sente una presenza incidentale nel grande progetto di lei. Talvolta lo percepisce con notevole intensità.

In questo momento sta pensando alle società di cui ha letto, nelle quali la cura e la sorveglianza dei bambini sono un affare più o meno collettivo. Il kibbutz gli è sempre parso una soluzione parecchio sensata, e ciò gli ricorda che deve fare altre ricerche sui kibbutz e sulle loro finalità. E poi ci sono quei gruppi tribali africani dove tutte le donne tengono d’occhio tutti i bambini, mentre gli uomini portano avanti le loro faccende, quali che siano, il che di nuovo dà l’impressione di essere un sistema sano. Per contro, la pratica occidentale vecchia di secoli di isolare i bambini in singole unità famigliari appare poco pratica – occorrono riformatori o orfanotrofi come sistema di sicurezza – e al contempo potenzialmente letale. Il bambino che ha la malasorte di avere genitori incapaci o crudeli non ha scampo. Il libro di Charles non vuole essere un veicolo delle sue opinioni personali, bensì una riflessione distaccata su pratiche e atteggiamenti, tuttavia, mentre se ne sta seduto a capotavola a pensare, indisturbato (più o meno) dagli schiamazzi di sottofondo della sua prole, decide che un’oculata selezione di singole esperienze famigliari illustrerebbe perfettamente tale affermazione... I Tolstoj, per cominciare. Tutte le famiglie felici... Sì, così facendo si introdurrebbe del colore locale, in giusto contrasto con l’ambientazione a Samoa o nelle foreste del Congo. Quanti figli aveva Tolstoj? Il vecchio Lev è arrivato a sei?

Charles guarda la sua figliolanza disposta intorno al tavolo. Sta pensando all’ereditarietà, ai patrimoni genetici, alla consanguineità. Molto importante, la consanguineità, nelle società primitive. La rete di parentele poteva determinare se si affogava o si rimaneva a galla, mentre nella Gran Bretagna del ventesimo secolo gli obblighi di parentela sono stati soppiantati dallo Stato assistenziale, che sostiene tutti dalla culla alla tomba. In linea di massima, non occorre più che tu ti presenti con il capo chino al fratello di tua madre. I geni contano molto meno, ora. Charles osserva la tempesta di geni che lo circonda oggi, il gruppo consanguineo sistemato ai suoi due lati: l’allampanato Paul, la scura e intensa Gina, la pubescente Sandra, Roger e Katie, entrambi con le lentiggini e la corporatura robusta, Clare con i suoi capelli color paglia. Un bell’assortimento, pensa, nessun tratto dominante, un po’ un fritto misto, davvero. Negli ambienti aristocratici ci sarebbe il naso di famiglia, o le palpebre cadenti, come nei ritratti di Lely. In Namibia ci sarebbero fantasiosi segni tribali.

«Perché mi fissi?» protesta Sandra.

I pensieri di Charles sono tornati a concentrarsi sul rituale. «Quanti anni hai?»

Alison ride. «Su, Charles! Abbiamo festeggiato il compleanno di Sandra solo due mesi fa. Ne ha dodici.»

«Chiedo scusa. Non riesco a tenere il conto. Be’, se tu fossi cresciuta in certe zone dell’Africa» dice a Sandra, «a quest’ora avresti delle cicatrici molto carine su entrambe le guance, e io probabilmente ti starei già cercando un marito.»

Paul sbuffa. Katie ridacchia. Sandra replica: «Cicatrici! Che schifo!»

«È solo una questione di gusti.» Charles guarda le figlie. «Voi vi sentite oltraggiate all’idea delle cicatrici. Altre inorridirebbero davanti a jeans, scarpe da ginnastica e» un’occhiata tagliente a Sandra «unghie dipinte.»

Alison dice: «Sandra, tesoro, lo sai che non mi piace quella roba».

«Per di più verdi» aggiunge Roger.

«Tu sta’ zitto» ribatte Sandra. Alla madre spiega: «Lo fanno tutte, mamma. Tutte le mie compagne».

Charles continua a riflettere sugli ornamenti rituali. Vede le unghie smaltate come una versione occidentale dei volti dipinti, i tatuaggi e l’automutilazione con cui ha acquisito dimestichezza nelle sue recenti ricerche. Di fatto, ne conclude, Sandra sta semplicemente rispondendo all’atavico bisogno di fare del proprio corpo una dichiarazione personale, un’affermazione della sua appartenenza e delle sue aspirazioni. Sta dicendo di essere un’adolescente occidentale alla fine del ventesimo secolo, per la quale l’aspetto esteriore ha un significato fondamentale. Espone la propria merce come i giovani hanno fatto sin dalla preistoria; non c’è quasi nulla da obiettare. Occorre accettare le unghie per il simbolo che sono. Forse metterà Alison a parte di questa sua intuizione, più tardi.

Il pollo è seguito dalla gelatina, accolta con favore da tutti eccetto Charles, che preferisce formaggio e biscotti. Il mattino sta scivolando nel pomeriggio, il sole è alto, la casa brulica di attività... il profumo di pollo al limone, il chiacchiericcio di otto voci (solo Charles sta zitto, a riflettere sulle sue varie intuizioni): è ora della fase successiva, quando tutti si sparpagliano. Sandra prenderà l’autobus per andare in città, Gina ricopierà la sua lettera alla signora Thatcher e poi farà un po’ di compiti, Alison ha il suo appuntamento con il supermercato, Ingrid porterà i tre più piccoli nel parco vicino, dove ci sono altalene e scivoli. Paul è deluso perché il suo migliore amico se n’è andato chissà dove per tutto il giorno; ciondolerà un po’ in giro alla ricerca di qualcun altro.

Charles si ritira nel suo studio. La porta d’ingresso sbatte. Una volta: esce Sandra. Due volte: esce Paul. Tre volte: escono Ingrid e i bambini. Gina sale rumorosamente al piano di sopra. Il cane guaisce davanti alla porta dello studio, desideroso di raggiungere Charles che lo ignora, tutto preso dagli appunti che sta scrivendo sulle idee che gli sono venute durante il pranzo. Ce l’ha una biografia di Tolstoj? No. Bisognerà aggiungerla alla lista per la sessione di lunedì in biblioteca.

Di nuovo la porta d’ingresso: Alison è uscita.

La casa, ora, sembra placarsi un poco, acquietarsi in un relativo silenzio; si sente il cane accasciarsi su un fianco nell’atrio, la pendola ticchettare. Charles infila un foglio nella macchina per scrivere e inizia a battere sui tasti. Il capitolo undici avanza lentamente, riga dopo riga, paragrafo dopo paragrafo. Charles è immerso nei suoi pensieri, nell’organizzazione delle parole, delle frasi. Il tempo passa, ma per lui pare essersi fermato. Ogni tanto guarda dalla finestra, senza vedere; i pensieri gli si accavallano nella testa. È altrove, dentro la sua mente, a caccia di un’argomentazione, di una frase.

Alison ritorna. Charles registra a malapena il rumore della porta.

Alison trascina le borse pesanti fino in cucina e sistema la spesa. Ha caldo, è stanca e irritata. La macchina continuava a spegnersi, è rimasta bloccata a un semaforo con tutti che le strombazzavano dietro, il parcheggio era pieno e ha dovuto girare per dieci minuti, l’agnello era finito e quindi non ha potuto prendere la spalla che aveva previsto di cucinare domani, non c’era il pane integrale né l’olio d’oliva. D’accordo, bisognerebbe evitare i supermercati il sabato pomeriggio, ma non aveva scelta, per un motivo o per l’altro non era riuscita ad andarci in settimana. La giornata sta prendendo una brutta piega, è una di quelle in cui Alison ha l’impressione di venire sopraffatta dalla casa, dalla famiglia, invece di sentirsi in sella, nel suo elemento, nel pieno controllo. C’è stata la faccenda di Paul, e Ingrid negli ultimi tempi è un po’ strana, e Gina dà parecchio filo da torcere, e il forno in alto della cucina ha qualcosa che non va, e quella maledetta auto... In più, ha le mestruazioni.

È ferma in cucina, di cattivo umore, sorpresa di essere sola in quella casa dove non si è mai soli. Le viene in mente che di certo Charles è nel suo studio, ed ecco che sorge il bisogno – un fatale, irresistibile bisogno – di coinvolgerlo nel suo malessere. Sa che non è una cosa saggia, sa che non dovrebbe farlo, ma qualcosa la spinge ad abbandonare quel che rimane della spesa sul tavolo della cucina, a uscire dalla stanza, ad attraversare l’atrio, ad aprire la porta dello studio.

Alison non entra spesso nello studio di Charles. Quando lo fa, è come se provasse l’inquietante sensazione di essere uscita di casa – la sua casa, la loro casa – per entrare in uno spazio estraneo. Lì non è casa sua. La stanza non le è familiare: l’enorme scrivania coperta di libri e fogli, gli scaffali che corrono lungo le pareti e che lei non ha mai esaminato, il caminetto bordato di piastrelle (De Morgan, dice Charles, e Alison lo ripete sempre agli ospiti perché è evidente che De Morgan è qualcosa di desiderabile), il tappeto orientale che proviene dalla casa di famiglia di Charles, la vecchia poltrona di pelle... Conosce il paesaggio, ma al tempo stesso si sente un’intrusa, un’estranea, una persona che ha lasciato il suo confortevole habitat.

«Sono tornata, caro» dice.

«Mmm...» replica Charles, battendo sui tasti.

Alison continua, tutto d’un fiato: «L’auto fa le bizze, continua a fermarsi, è stato tremendo. La dovrò portare dal meccanico, ma naturalmente di domenica non ci sarà nessuno, è una scocciatura, mi serve lunedì per accompagnare Paul dal dentista. E, Charles, ti vorrei parlare di Paul, della faccenda di stamattina, voglio dire... sono sicura che hai ragione, Amsterdam non è una buona idea, ma mi chiedevo se un qualcosa di un po’ meno, be’, straniero, tipo Brighton...»

Charles smette di scrivere. Le parole smettono di affollargli la testa, le frasi di comporsi. La voce di Alison fa irruzione, lo raggiunge come una sconclusionata sequela, qualcosa circa un’auto, un dentista, Paul.

«Paul che cosa?» Guarda torvo la macchina per scrivere, rilegge l’ultimo paragrafo.

Alison ripete quel che ha appena detto, con qualche elemento in più. Paul ha tanto bisogno di fare cose con gli altri ragazzi; il suo amico Nick è davvero uno con la testa sulle spalle; si chiede se la paghetta che danno a Paul sia sufficiente; i ragazzi a quell’età sono così difficili da capire, certo non hanno mai avuto un ragazzo di quattordici anni prima.

Charles sente gran parte del discorso. Replica acido che anche lui ha avuto quattordici anni e si ricorda bene quella fase. Paul la supererà, bisogna avere fiducia, gran parte della gente lo fa. Nel frattempo, è solo questione di tener duro. Le mani tornano sui tasti della macchina per scrivere.

Alison freme di nervosismo, una reazione insolita per lei; non si può essere una buona moglie e una brava madre se si è preda del nervosismo.

«Be’, sì, caro» dice. «Naturalmente. Lo so. Ma io ho lo stesso la sensazione che a volte dovremmo discutere di alcune cose quando c’è un problema con i bambini, soprattutto dal momento che sei stato tu ad avere quel, be’, piccolo diverbio con Paul stamattina...»

Charles la interrompe: «Alison, sto lavorando».

«Sì, so anche questo» ribatte Alison d’impulso.

Charles fa un respiro profondo. Fissa davanti a sé per un attimo, poi si volta a guardarla. «Allora perché sei nel mio studio?»

Alison lo fissa a sua volta. «Perché abito qui.»

C’è tensione ora. Un che di oscuro si è propagato nella stanza.

Charles appoggia una mano sulla pila di fogli del dattiloscritto sopra la scrivania. «Questo libro» dice «è...»

«Lo so» replica Alison, interrompendolo. «Questo libro, e tutti gli altri libri.»

«Stavo dicendo... Questo libro, che immagino tu non leggerai, si dà il caso che sia quasi terminato. Sto lavorando all’ultima e fondamentale parte.»

«Di che cosa tratta?» chiede Alison.

Per la seconda volta quel giorno gli viene fatta quella domanda. «Tratta di... nozioni sulla gioventù, sui giovani.»

Alison ride.

«Un argomento divertente?»

«Oh, no» risponde Alison. «Direi solo che è piuttosto azzeccato.»

Si squadrano a vicenda.

«Io ho dei figli» dice Alison. «E tu hai dei libri. Salvo che ovviamente dei figli ce li hai anche tu.»

«Ovviamente.»

La presenza oscura aleggia nell’aria.

«Per fortuna» continua Alison, «io voglio bene ai figli. A ogni figlio.» Il suo sguardo si fa intenso.

Charles distoglie gli occhi. «Certo che gli vuoi bene.»

Quando Alison è entrata nella stanza, stava leggermente ansimando, infastidita, turbata. Ora si è calmata. È rigida, controllata; non ha per niente il suo solito atteggiamento. Non c’è da meravigliarsi che Charles sia a disagio.

«Alison» riprende lui, «mi rendo conto che stai avendo una giornata difficile. Ma tutto si aggiusterà da sé, ne sono convinto.»

Alison sorride, un sorrisetto poco benevolo. «Oh, sì. Funziona sempre così, no? Persino con le cose più fastidiose. Ti lascio al tuo libro.»

Alison esce. Charles sbatte le palpebre, aggrotta la fronte. Fissa fuori dalla finestra, poi il foglio di carta nella macchina. I minuti passano. Riprende a scrivere, dapprima con esitazione, poi più sciolto. Con uno sforzo, recupera il filo dei pensieri e torna a essere refrattario al mondo. Mezz’ora vola via. Non si accorge di Alison che va di sopra e si ferma un attimo a parlare con Gina. Non si accorge che Ingrid e i bambini sono tornati, accolti rumorosamente dal cane.

Di fatto, Charles è sordo. Deve esserlo. Si è allenato alla sordità. Quando è nel suo studio, inserisce la modalità silenziosa e la casa si allontana obbedientemente. Non sente le grida, le urla, i tonfi, i passi pesanti sulle scale, il telefono, il cane.

Di conseguenza non si accorge nemmeno, dopo un po’ di tempo, che Ingrid bussa alla porta. Né che, infine, lei entra nella stanza. Sente appena quel che dice: «Ti porto il tè?»

Lui non solleva la testa. «Mmm? Oh, sì. Sì, portami il tè.»

Di lì a poco, si ritrova accanto una tazza. Batte sui tasti, si ferma per un momento, prende la tazza, beve, continua a scrivere.

Ingrid è lì in piedi. Dopo un momento, dice: «Sono una domestica».

Charles non la sente subito. Poi, gli arriva un’eco: in quell’eco, non è del tutto chiaro se Ingrid ha posto una domanda o fatto un’affermazione. Charles si sofferma a riflettere tanto su quell’ambiguità quanto sul contenuto: la pedanteria non gli manca. Le mani si sollevano dalla tastiera. «Non essere sciocca.»

«È vero» replica Ingrid.

Charles sospira. «Oh, su, Ingrid. Non dire così. I bambini hanno fatto i capricci?»

«I bambini sono come al solito.»

Ingrid rimane ferma, appena dietro la sedia di Charles. Lui è costretto a girarsi per guardarla. Il viso di lei è, come sempre, a corto di espressioni, ma c’è qualcosa nei suoi occhi che lo induce a cercare riparo. Si volta.

«Senti» dice Charles, «lo sai che noi... lo sai che io...»

«Io non so niente» ribatte Ingrid.

Charles aggrotta la fronte. «Oh, cara, mi dispiace che tu ti senta così.» Le mani tornano lentamente sulla macchina per scrivere. Ma qualcos’altro si è introdotto furtivo nella stanza, accanto a Ingrid. Il disagio incombe. «Ingrid, sono occupato» aggiunge. «Dov’è Alison?»

«Non so. Penso che sia di sopra.»

Silenzio. Ingrid non se ne va. Charles prende una pagina dal suo dattiloscritto, la ripone, attende, si guarda intorno e incontra nuovamente il freddo e azzurro sguardo di Ingrid che lo fissa.

«Ingrid» dice, «sul serio, non so che cosa dovrei...» La sua voce si smorza.

«Lo so che non lo sai» replica Ingrid. «Tu non sai, e io non so.»

Esce dalla stanza.

Solo, Charles guarda con ira il foglio nella macchina per scrivere. Torvo, accigliato, furioso, pesta sui tasti per una ventina di secondi e si ferma. Scopre di non essere più sordo; sente i rumori in cucina, uno dei bambini che urla a un altro, una porta che sbatte. La casa gli ribolle attorno, il mondo lo assedia, che deve fare un uomo?

È ormai tardo pomeriggio. La luce è più morbida, le ombre più lunghe; sono rientrati tutti e la casa brulica di attività. Paul non è riuscito a rintracciare nessun amico e si precipita su per le scale fino in camera sua, dove si lancia sul letto in preda a un attacco di imbronciato vittimismo. Gina va a imbucare la sua lettera nella cassetta della posta all’angolo. Katie e Roger giocano in giardino, con Clare che li segue gattonando. Sandra è tornata dallo shopping, in possesso di un soddisfacente bottino e di un nuovo taglio di capelli. Alison e Ingrid sono in cucina, iniziano a preparare la cena, entrambe insolitamente silenziose.

Charles lotta per un’ora. La vena si è prosciugata. Pigia i tasti, poi butta via il foglio, scrive ancora un po’ e spreca un altro foglio. Non riesce a riprendere il flusso produttivo. Alla fine rinuncia. Mette in ordine le pagine completate, nervoso. Deve uscire, fare qualche passo. Forse così si schiarirà la mente, ma sospetta che il resto della giornata andrà a monte. Aveva sperato di arrivare a un buon punto del capitolo.

Va nell’atrio e si mette il cappotto. Il cane sospinge la porta dello studio e salta sulla poltrona di pelle, uno dei suoi rifugi preferiti. Charles attraversa la cucina per prendere le sue chiavi dalla credenza cui sono appese tutte quelle di casa. Le due donne gli lanciano un’occhiata ma non parlano.

Charles dice: «Vado a fare un giro. Potrebbe volerci un po’».

Mentre attraversa la strada risente la sua voce, e le sue parole – le stesse che pronunciò Oates nell’atto di abbandonare la spedizione di Scott in Antartide – gli appaiono un tantino inappropriate: non sta lasciando una tenda tra i ghiacci per andare incontro a una morte eroica, sta solamente scappando per un attimo dalla sua famiglia. In ogni caso non c’è la minima possibilità che né Alison né Ingrid colgano la citazione.

Charles cammina senza meta per il quartiere, cercando di concentrarsi sul resto del capitolo, di riordinare materiale e argomentazioni, di recuperare il bandolo della matassa. Diversi vicini lo notano, l’uomo che abita ad Allersmead con tutti quei bambini, ma lui non bada granché agli altri. Alcuni lo conoscono come il marito di Alison – Alison è più socievole – e ricordano di non averci mai scambiato più di due parole. Cos’è che fa? Un lavoro di qualche tipo a casa, sembra. Ciò lo distingue da tutti quelli che hanno uffici e orari, e suscita lieve disprezzo o invidia repressa, a seconda dell’indole. Comunque sia, in un modo o nell’altro è considerato un tizio con cui non ci si fa una birra, né un paio di chiacchiere sugli ultimi pasticci dell’amministrazione locale. Una donna lo osserva e pensa tra sé che è un tipo niente male, sembra un po’ quello scrittore americano che sposò Marilyn Monroe, ma sua moglie, quella di Allersmead, non è certo Marilyn Monroe... Dio mio, no.

In realtà Charles non si trova in quella benestante provincia inglese in una serata di primavera del 1982, ma tra i boscimani del Kalahari, dove non è mai stato, e in un kibbutz israeliano, e a osservare lo stile di vita dei contadini francesi del diciassettesimo secolo, e a gettare un occhio indagatore sulla famiglia della regina Vittoria... che aveva una maniera alquanto bizzarra di gestire i figli, no? Sta riprendendo il filo del capitolo, la passeggiata gli sta facendo bene, il malessere dell’ultimo paio d’ore si è attenuato. Si chiede cosa abbia preparato Alison per cena. Pensa che forse potrà rimettersi a scrivere più tardi, spesso trova che le serate siano propizie per il lavoro.

Pasta al forno. Riconosce il profumo appena varcato l’ingresso. Uno dei piatti preferiti dei bambini. Svolta nello studio, con l’idea di buttare giù qualche rapido appunto.

Immediatamente, appena messo piede nella stanza, capisce che c’è qualcosa che non va. Una sensazione di invasione, di disordine. Il cane salta giù dalla poltrona, agitando la coda. Ma il cane non è un problema. Ora Charles vede: vede il pavimento, la scrivania.

Carta. Ma come la carta non dovrebbe mai essere. Quel che vede è carta a strisce, a pezzetti, ridotta in nugoli di frammenti lunghi e bianchi... una tormenta di spaghetti di carta, disseminati sul tappeto, penzolanti dalla scrivania. Una tempesta di carta che ha preso il posto dell’ordinata pila di fogli dattiloscritti che lui aveva lasciato.

Vi si getta sopra. Trova qualche pagina intatta, ma il resto è danneggiato, distrutto, sforbiciato in un miscuglio di striscioline bianche su cui danzano porzioni di parole, lettere, segni d’interpunzione. Non è possibile rimediare, recuperare niente; chiunque sia stato, l’ha fatto con zelo.

Charles afferra una manciata di carta e fa irruzione in cucina. La famiglia è riunita, in gran parte già seduta a tavola. Alison è al fornello davanti a un piatto fumante di pasta al forno ricoperta da una crosta dorata. Si gira. «Ecco qui, tesoro...» Poi sgrana gli occhi: «Oh...»

«Chi?» ruggisce Charles. «Chi di voi?» Pezzetti di carta gli spuntano dal pugno. Tutti i volti sono girati verso di lui. Tutti sembrano stupiti, sbigottiti.

«Chi?» ripete Charles, più calmo ora, risoluto, concentrato. «Chi è stato nel mio studio e ha tagliato il mio dattiloscritto?» Il suo sguardo passa in rassegna gli otto visi, e in quel momento si ritrova a pensare che quel giorno ha offeso almeno quattro dei presenti; quattro gli hanno lanciato un’occhiata che esprimeva, in quel momento particolare, un profondo risentimento.

Silenzio. La mano di Alison sembra essersi congelata a mezz’aria, con il cucchiaio da portata tra le dita. Paul guarda fuori della finestra. Gina fissa il padre. Il tempo è sospeso.

Clare dice: «Non ceniamo adesso?»