La casa sente tutto. La casa sa. Sa ogni cosa detta, ogni cosa fatta. Discorsi taciti aleggiano nell’aria e ripetono le parole sospese nella testa delle persone: «Sono una domestica», «Mi sembra di ricordare che tu fossi incinta», «A chi volevi più bene?» La casa conserva questo archivio inaccessibile; e le persone fanno lo stesso, perché non hanno scelta. Sentono ripetere le stesse cose, più e più volte. Si portano via da Allersmead questo carico personale, ovunque vadano; non possono abbandonarlo. Passato e futuro diventano una sola cosa: quel che si è detto, quel che si dirà, la silenziosa testimonianza di questo luogo.
Gina è seduta in uno studio televisivo, in attesa del suo momento, e senza il benché minimo motivo Paul parla, la sua voce invade il presente, riaffiora in superficie da un altro giorno, da un altro mondo: «Mangia un ragno!» intima.
La cantina non è affatto una cantina. È, a seconda dei casi, l’oceano Pacifico, l’Antartide, una prateria aperta e molto altro. Quando scendono laggiù, subisce una metamorfosi: le umide pareti edoardiane di mattoni si dissolvono, il pavimento di calcestruzzo scompare. Le casse da imballaggio, il tavolino rotto da ping pong, la credenza senza antine: tutto diventa un’abitazione; il vecchio tosaerba è una slitta, un cavallo, un veliero. Navigano alla deriva su una zattera, vanno in slitta fino al Polo Sud, respingono gli indiani sul loro carro coperto... perché è il 1979, esistono ancora cowboy e indiani. Così come altre cose. L’estremità della cantina, la parte buia, dove non penetra la luce delle finestre, quell’angolo è la terra dei Dalek; lì vivono quegli esseri invisibili, appostati nell’oscurità. Possono farsi avanti, se provocati. Le scale di pietra appartengono a James Bond; dal gradino più in alto spara verso il nemico e poi si mette in salvo con un’abile mossa.
Paul fa sempre James Bond. Finché... Finché Sandra un giorno dice: «Oggi farò io James Bond».
«Non puoi. Sei una femmina.»
Sandra ribatte: «Se possiamo far finta che uno di noi è James Bond, possiamo anche far finta che sono un maschio».
Paul è spiazzato, cerca in tutti i modi di aggirare una tale logica. Infine dice, riluttante: «Va bene. Solo per stavolta». Gli passa per la testa un pensiero inquietante: «Ma io non faccio la ragazza di James Bond».
Possono litigare, possono non andare d’accordo, ma nel momento in cui scendono le scale in gruppo per andare a giocare lo scopo è unitario. In un modo o nell’altro, è stata presa una decisione collettiva: oggi si gioca a cowboy e indiani, oggi si gioca alla nave.
E c’è anche un altro gioco. È più tranquillo, meno spettacolare, ma è un pezzo forte, lo rifanno spessissimo. Non ha un nome, è semplicemente un canovaccio in cui si calano, quasi senza discutere. La cassa da imballaggio diventa un’abitazione, la casa. Paul fa sempre il padre. Gina, di solito, è la madre, ma qualche volta la parte la vuole Sandra. Più spesso, Sandra preferisce fare la figlia, una dei figli, e in genere una figlia ribelle, che contesta, che disobbedisce. È Sandra, il più delle volte, a dover fare la penitenza. Clare fa la neonata; ogni tanto deve acconsentire a lasciarsi avvolgere in un umido pezzo di tela da sacchi e sdraiarsi nella cassetta arancione che fa da culla. Per la verità non le dispiace troppo; se ne sta lì distesa con un sorriso pacifico, succhiandosi persino il pollice. Katie e Roger sono semplicemente dei figli, fanno numero.
La vita famigliare non è particolarmente tranquilla. Paul è un pater familias vittoriano: esige obbedienza assoluta, sottomissione totale. Il sistema educativo in vigore è draconiano: si devono imparare a memoria pezzi di uno sbrindellato elenco telefonico, si devono sommare colonne di cifre. Ma tutto è regolato da una sorta di tacito accordo: la protesta è rituale, è stilizzata. I figli sospirano e si lamentano e alzano gli occhi al cielo. Soltanto quando le cose si spingono troppo in là – Sandra – scatta il prezzo da pagare.
Gina è una madre particolare. Non cucina; i pasti spuntano dal nulla e vengono mangiati con gusto, sempre salsicce e purè di patate con ketchup. A lei interessa raccontare storie; ci si deve sedere in cerchio, dopo di che la storia inizia e va avanti per un po’, talvolta inglobando anche loro stessi – loro di quell’altra vita di Allersmead, che scorre in superficie – al punto da confondere in modo interessante i piani: non sanno più chi o dove sono.
In generale è Gina a inventare i giochi in cantina, che si tratti delle scene di vita domestica nella cassa da imballaggio o di una sessione in alto mare. Lei dirige la narrazione e propone chi fa cosa e quando, benché anche gli altri possano dare un contributo. Paul vuole che ci sia un sacco di azione, mentre è risaputo che Katie e Roger hanno da ridire se i loro ruoli sono troppo insignificanti o troppo impegnativi.
«Non voglio giocare» dice Katie.
«Devi» replica Paul gentilmente. «Tutti devono. Lo sai.»
«Non voglio essere quella che finisce mangiata dagli squali.»
Interviene Gina: «Può essere salvata. Le lanciamo una corda».
Paul aggrotta la fronte. Così si rovina tutto. Non è alla ricerca di un finale rilassante. «Clare, allora.»
Clare sorride felice. Di preciso non sa che cos’è uno squalo.
In realtà, Clare può essere un problema. Tende a fare di testa sua, a inserire un elemento di disordine da bambina di quattro anni. È stata inclusa solo da poco e non ha ancora afferrato il requisito indispensabile del lavoro di squadra. Vige una forma di democrazia: si possono sollevare obiezioni rispetto a quanto viene richiesto a ciascuno personalmente, si possono dare suggerimenti e fare proposte, ma nessuno può partire per la tangente inseguendo una propria trama secondaria o, appunto, dedicandosi a una qualche attività del tutto avulsa. Non possono – Clare non può – mettersi a giocare con la pila di vasetti di marmellata sullo scaffale della credenza rotta, né andare a saltare sul materasso, che non è un materasso ma una barca o un carro coperto o una slitta. E meno male che la cantina ha il suo lato cattivo nascosto, e Clare lo sa; non le piacciono i ragni né gli onischi, ancora meno le vanno a genio i serpenti che le dicono essere in agguato negli angoli bui, per non parlare degli invisibili Dalek. Clare si deve nascondere dietro il divano quando in televisione danno Doctor Who. Quindi in generale rimane vicino a tutti gli altri e fa ciò che le dicono, spesso confusa da quel che succede.
A volte, i bambini invitati a casa sono costretti a fare il gioco in cantina. Di solito non si divertono; hanno la sensazione di stare ai margini, di non capire fino in fondo, di essere inadeguati, estranei. E quando arriva il momento di fare la penitenza, scoprono che preferirebbero andarsene a casa.
«Mangia un ragno!» intima Paul. Sussulti. È una novità, un ordine severo. Tutti guardano Sandra. Sceglierà di beccarsi un punto di penalità sulla lavagna? Pare di no: «Okay» dice con calma. Si dirige nell’angolo pieno di ragnatele sotto la finestra. Cerca.
Le penitenze non sono affatto l’unica finalità del gioco in cantina. Certe volte non c’è nessuna penitenza da fare. Sono piuttosto una sorta di abbellimento, un picco creativo ed emozionante che si raggiunge di tanto in tanto. Qualcuno passerà il segno – il più delle volte apposta, per provocare – e non ci saranno alternative. Quando giocano alla casa, uno dei figli farà il ribelle, il disobbediente, e andrà messo in riga. O ci sarà un ammutinamento sulla nave, o qualcuno non supererà una prova di coraggio. Alcune penitenze sono piuttosto blande: stare seduti bendati per dieci minuti, rimanere accovacciati per cinque minuti, fare il giro della casa con addosso soltanto le mutande, cantare God Save the Queen. Altre sono più impegnative: andare nel giardino sul retro, cercare un verme sottoterra e portarlo giù, rubare una delle forcine di mamma, rimanere nell’angolo dei Dalek per cinque minuti. Le penitenze sono tanto una sfida quanto un divertimento. Chi viene sfidato guadagna prestigio se la accetta e la porta a compimento; gli spettatori si divertono ma sono anche stuzzicati dall’idea che la prossima volta potrebbe toccare a loro.
Esiste una via di scampo. Chiunque si può rifiutare di fare una penitenza, ma in quel caso deve pagare pegno. Perde la faccia e si ritrova un punto in più di penalità scritto con il gesso sulla lavagna, dove rimarrà in eterno. Clare non ha mai davvero capito cosa significhi, e il numero delle sue penalità è di due cifre, malgrado il fatto che le sue siano personalizzate. «No» dice, «non voglio fare una capriola. Non adesso.»
Si ricercano continuamente nuove penitenze. Le varie proposte di Paul che prevedono l’uso di fiammiferi e accendini sono state bandite; sembra vigere un qualche istinto primitivo, quando si tratta di salute e sicurezza.
«Faccelo vedere!»
«Ce l’ho in mano» replica Sandra. «Se ve lo faccio vedere, scappa.»
«Quant’è grande?» chiede Roger.
Katie è preoccupata. «Secondo me è una cosa crudele. È davvero crudele per il ragno.»
Paul dice: «Non ci credo che l’hai preso sul serio».
Sandra lo squadra con freddezza. «Affari tuoi» commenta. Si porta la mano alla bocca, la apre. Inghiotte, ha dei plateali conati di vomito, li fissa trionfante.
Gina si rende conto che non lo scopriranno mai. L’ha fatto o non l’ha fatto?
Quel che affascina del gioco in cantina è la sua natura riservata e segreta; di sopra, in superficie, non se ne parla, nessun adulto sa che cosa succede. Se si accorgono che sono stati laggiù, Paul o Gina o Sandra diranno con noncuranza: oh, scendiamo per leggere qualcosa ai piccoli. La lettura fa sempre guadagnare punti di merito ad Allersmead. Oppure: stiamo costruendo un museo, lì sotto (creativi, impegnati, bravi). Oppure: pensavamo di fare un po’ d’ordine (positivamente zelanti). Ad Alison non interessa la cantina e non ci va quasi mai. Charles forse sa a malapena che esiste.
La cantina è il loro territorio. E il gioco in cantina è un universo alternativo in cui, di tanto in tanto, si ritirano. Non ha nulla a che fare con la vita reale; lì hanno il permesso di diventare altre persone, benché il ruolo e il carattere che hanno in superficie continuino a dirigere e a permeare il gioco. Paul è sempre il maggiore, e pertanto autorizzato a far pesare il suo grado. Gina ha le idee più creative e inventa soggetti e costumi. Katie e Roger sono sostanzialmente inseparabili e prediligono le parti che lo attestano. Sandra è caparbia e indipendente; se ha voglia di agitare le acque, lo fa. E Clare è talvolta un ostacolo, un elemento incontrollabile.
Oggi si gioca alla famiglia. Gina è la madre. Paul ha ucciso un bisonte, e perciò Gina ha preparato salsicce di bisonte e purè di patate, e ora è giunto il momento della storia. «Siete seduti comodi?» chiede.
Sandra protesta e lancia sguardi fulminanti.
La storia ha inizio. Parla di sei bambini, che hanno un’aria stranamente familiare. Vengono scambiati sorrisini e gomitate. C’è un episodio in cui attraversano a nuoto la Manica; Clare per poco non affoga, Roger effettua un valoroso salvataggio. Poi la storia vira in una direzione inattesa. Sono tutti adulti. Katie ha otto figli. Roger è un pilota della British Airways. Clare è una pop star. Paul è il primo ministro (grandi risate). Sandra... Sandra è la preside di una scuola.
«Assolutamente no» replica. «Non esiste proprio.»
Gina è risoluta. «Nella storia lo sei.»
«Allora non sono nella storia» ribatte Sandra.
Paul dice che ci deve stare. Paul è inflessibile quando si tratta delle regole.
Sandra alza le spalle. «Puoi anche metterci questa preside, se vuoi, ma io non la faccio. E tu invece cosa sei?»
Gina risponde che lei è una scrittrice. Lei racconta la storia.
«Allora non sei brava» continua Sandra. «È ovvio che non sono il tipo di persona che diventerà mai una preside.»
Gina si sta arrabbiando. «Nella storia è quello che sei. E poi che ne sai tu di cosa diventerai da grande?»
«In realtà» risponde Sandra con disinvoltura, «ti sei inventata questa storia della preside solo perché sapevi che mi avrebbe fatto arrabbiare.»
Ah. Una verità spiacevole, forse. È accaduto qualcosa. La realtà ha invaso il gioco. Il gioco ha perso la sua autorevolezza, la sua immunità; il mondo reale si è fatto largo con forza, imponendosi.
In effetti il gioco in cantina ha il destino segnato, il tempo incombe inesorabile come una spada di Damocle. A dodici anni, Paul partecipa ancora; a tredici non lo farà più. Sandra, la sofisticata, ha già probabilmente spiccato il volo. Ben presto la cantina tornerà a essere quel che era. Il materasso, la cassa da imballaggio, la credenza rotta resisteranno ai decenni, non considerati, non cercati. I Dalek sprofonderanno nelle tenebre del loro anfratto. Ma la lavagna sotto la finestra continuerà a riportare le colonne PEGGNI e PENNALITÀ.