«Ciao! Dove sei?»
«Sono a casa» risponde Gina. «Paul, è quasi mezzanotte. Non telefoni mai in orari civili.»
«Be’, perché tu a quelle ore non rispondi? E sei troppo impegnata a dare la caccia alle notizie per richiamare. O sei dall’altra parte del mondo. Okay, chiudo.»
«No» dice Gina. «Si dà il caso che non sia ancora a letto. E Philip è via. Tu dove sei?»
«Dove vuoi che sia? Ad Allersmead. Come al solito. Come il più delle volte. Dove uno della mia età non dovrebbe stare... a casa dei genitori.»
«Senti, Paul...»
«In realtà, ho fatto domanda per un lavoro a Wisley. Visto che ho tutta quell’esperienza in orticultura. Dici che mi prenderanno? Ho scritto una lettera così convincente. E ho spedito le mie credenziali.»
«Ah» fa Gina. «Quali credenziali, di preciso?»
«Il mio curriculum dimostra flessibilità, se non altro. Barista, inserviente in un ospedale, custode di un campo sportivo scolastico, pony express, raccoglitore di frutta, guardiano di un parcheggio. Ampia gamma di esperienze abitative: una serie di case occupate, divani e sistemazioni varie, condivisione di appartamento con... mmm... altri cinque, ostelli per lavoratori agricoli, stanze in comune nei centri di recupero. Nottate nelle celle della polizia.»
«Io quest’ultimo dato lo eliminerei» commenta Gina. «Se fossi in te.»
«Io sono per l’onestà, o no? E comunque è stata repressione gratuita. Degli sbirri sottoccupati hanno raccolto un tizio che si stava godendo una piacevole serata in giro. Eccesso di zelo.»
«Fa’ come vuoi» dice Gina. «Se l’onestà irriducibile è la tua idea di curriculum.»
«Il fatto è che offro il soggetto nella sua interezza. Adattabile, eclettico e non privo di difetti. Agli strizzacervelli del centro di recupero interessavano moltissimo i difetti. Conosci te stesso. Abbiamo rimuginato sui miei difetti per molte sedute produttive. Scommetto che riuscirebbero a trovarne un paio anche a te, se ti studiassero per bene.»
«Decine» replica Gina. «Philip sarebbe felice di elencarteli.»
«Tipo simpatico, mi è sembrato. È una cosa seria?»
«La smetti?»
«Scusa, scusa. Chiedevo soltanto. Mi preoccupo per il benessere di mia sorella. Torniamo a me, un soggetto decisamente più instabile. Dove eravamo? Ah, il curriculum. Dog-sitter. Manovratore di autoscontri... l’avevo già detto?»
«No» risponde Gina. «Non ne so niente.»
«Probabilmente è meglio così. Ti dirò solo che consiglio di non avere mai a che fare con i giostrai. Gente piuttosto sgradevole persino per i miei standard, e ho imparato a non fare il difficile. È così che ho perso un incisivo. C’era una ragazza con cui di solito chiacchieravo, e al suo fidanzato la cosa non andava giù. Mi ha insegnato a stare più attento quando ci sono di mezzo le donne.»
«Cosa sempre opportuna quando sono di qualcun altro» commenta Gina.
«Lasciamo perdere. Di fatto, nel curriculum non c’è neanche una donna, nemmeno una convivente. Dici che mi farà sembrare...»
«Gay?» suggerisce Gina.
«Non sarebbe un problema. Pensavo più... indesiderabile. Sgradevole. Materiale di scarto. Forse le donne le metteremo come nota a piè di pagina. I soliti legami sentimentali, quel tipo di cose.»
«Ti rendi conto che sta diventando un curriculum un po’ bizzarro, vero?»
«Da spirito libero, diciamo così. Originale. Stiamo cercando di riflettere la mia personalità. La si potrebbe definire piuttosto originale, giusto?»
«Temo di sì» risponde Gina.
«È una critica? Oh, be’, ci sono più che abituato. Fin dai tempi della scuola. ’Ancora una volta Paul non è riuscito a esprimere le sue potenzialità.’ Tu, naturalmente, sei sempre stata una fuoriclasse, quanto a risultati.»
«Era una scuola di merda» ribatte Gina.
«L’hai detto. Ma le entrate di papà non sarebbero mai bastate per dare un’educazione privata a tutti e sei.»
«Ci saremmo dovuti impiccare nell’armadio della paura» dice Gina. «...siamo troppi.»
«Cos’hai detto?»
«Citazione letteraria.»
«Sai benissimo che so leggere a malapena. Non c’è bisogno che sfoggi la tua cultura. Be’, torniamo al curriculum. Abbiamo finito con le esperienze lavorative, niente male, anche se ho tralasciato un bel po’ di robette. Abbiamo accennato all’itinerario, per così dire... il percorso geografico, anche se ci starebbe bene qualche aggiunta. Abbiamo deciso che la vita sentimentale la lasciamo da parte.»
«Dimmi un po’» chiede Gina, «a che cosa serve esattamente questo curriculum? Non per Wisley, immagino.»
«Ah, giusta osservazione. Lo vogliamo chiamare più una sorta di consuntivo? Un esercizio di valutazione. Lo facciamo sempre al vivaio. Quel che abbiamo e quel che ci manca. Tra parentesi, ultimamente sono un mago con le piante. Ti potrei snocciolare miscanthus e verbena bonariensis e quant’altro. Forse la mia è una vocazione mancata. Perché non mi hanno fatto studiare orticultura? Sono un amore quando aiuto le vecchiette a cercare dei bei rampicanti per i loro pergolati.»
«Paul» dice Gina, «tutto questo discorso che senso ha?»
«Te l’ho detto. Autoesame. Sincera valutazione dello stato di servizio a tutt’oggi.» (Pausa.) «Non so se ridere o piangere. Ricordami quanti anni ho.»
Gina non risponde.
«No, non farlo, a pensarci meglio. È una cosa che cerco di dimenticare.»
«Basta così» dice Gina.
«Basta cosa?»
«Autoflagellarsi.»
«Ne ho già sentito parlare. Forse è un termine che usavano gli strizzacervelli. Tendevo a non ascoltarli, i paroloni. Anche le domande, per quanto possibile. Molto ostinati, gli psico. ’Mi vorresti parlare della tua infanzia, Paul?’ No, grazie. Ma poi ti tocca, per tenerli buoni. Una volta gli ho raccontato del gioco in cantina.»
Gina ride.
«Erano tutto orecchi, davvero. ’E tu che ruolo avevi, Paul?’ James Bond. Capo dei pirati. Lo strizzacervelli annuisce con l’aria di chi ha capito.»
«Che altro gli hai raccontato?»
«Quasi nulla. Non erano affari loro.» (Pausa.) «Comunque non lo puoi raccontare agli altri, giusto? Non si traduce esattamente in parole. È nella testa, e lì rimane. Fine del discorso. Oppure no, a seconda dei casi.»
«Sembra proprio di no. A questo servono gli strizzacervelli.»
«Uhm...» (Pausa.) «Vuoi che ti dica una cosa?»
«Dimmi pure» fa Gina.
«Lei una volta mi disse che ero il suo preferito. Non avrebbe dovuto, giusto? Vero o non vero. Non sono cose da brava madre. Le brave madri non hanno preferiti, o per lo meno non lo dicono. Era vero?»
«Sì» risponde Gina.
(Pausa.) «Lo sapevano tutti?»
«Sì.»
(Pausa.) «Era un problema?»
«Per me? Non particolarmente. Pensavo che fosse una scelta piuttosto irrazionale, ricordo.»
«Grazie tante.»
«Senti, stai bene?» chiede Gina.
«Certo che sto bene. Quand’è che non sono stato bene?»
«Be’...» mormora Gina.
(Pausa.) «Lasciamo stare, va’.» (Pausa.) «Sto bene, tranne il mal di schiena per i sacchi di concime che sollevo. Siamo noi lavoratori manuali a far girare sul serio il mondo, mica chi se ne va in giro a farsi bello davanti a una telecamera.»
«Comunque sia» dice Gina, «tutti e due dobbiamo lavorare domani, ed è mezzanotte passata.»
«È un’allusione? Okay, ti lascio andare. Ciao, allora.»
Paul è sdraiato sul letto. Mette giù il telefono e fissa il soffitto, un soffitto che conosce da una vita. Quelle crepe, simili a un fiume con i suoi affluenti. Il colore sbiadito... ad Allersmead nessuno va matto per gli arredamenti nuovi. Dopo ogni assenza – qualche mese, un annetto – Paul torna a contemplare quel soffitto, e prova sia rassegnazione che rabbia. Tale è il suo rapporto con il soffitto. È il suo soffitto privato: un conforto e una beffa.
In questo momento si fa beffe di lui. Le crepe nell’intonaco disegnano il profilo di un volto, e il volto diventa quello di una ragazza che frequentava un tempo, e ora Paul è seduto accanto a lei sul muricciolo della passeggiata a mare ed è felice. In realtà non riesce adesso, ad Allersmead, mentre fissa il soffitto e ritorna a quel momento, a vederla molto bene, eccetto la linea di quel profilo, ma stranamente la sente, e sente i gabbiani, e lo sciabordio del mare sui ciottoli. E riconosce la felicità; si ritrova a pensare che allora non sapeva di essere felice, che solo adesso riesce a distinguere il sapore di quel momento.
Lei ride di Paul perché fa il barista. Non una risata di scherno, ma divertita. È un mestiere così forte! È più giovane di lui e lavora in un negozio di fiori lungo la strada oltre l’hotel, il che non è proprio così forte, dice. In effetti non porta da nessuna parte, è solo un modo per passare il tempo mentre si guarda intorno. Potrebbe andare negli Stati Uniti, ha dei cugini là. Abita con i genitori in una di quelle grandi case ai margini della città, ma non vede l’ora di andarsene via e nel frattempo è più che disposta a incontrarsi con Paul quando entrambi hanno del tempo libero. Si sono baciati sulla spiaggia e dietro la siepe davanti alla casa dei genitori di lei, e qui sul lungomare si tengono per mano e Paul è felice, felice. Ci sono state altre ragazze, certo, ma lei è diversa. Ha la pelle abbronzatissima e gli occhi scuri, e quella risata piena che lo fa fremere ogni volta che la sente.
Fanno sesso sul letto della minuscola camera di Paul all’ultimo piano dell’hotel, dopo che lui ha convinto il suo compagno di stanza, l’altro barista, uno studente assunto per l’estate, a starsene alla larga. Lei è un po’ meno divertita da quell’ambiente leggermente fetido (lenzuola maleodoranti, vestiti smessi) – è una ragazza abituata alla pulizia e all’ordine dei quartieri residenziali – ma non si tira indietro, è fantasiosa, eccome, dopodiché vanno a cena nel ristorante turco, il che costa a Paul gran parte della sua paga settimanale. Lei gli chiede che lavoro vero intende fare, alla fine, e Paul si destreggia come può; non accenna alla sfilza di altri impieghi temporanei, né del periodo nel centro di recupero. Evita di menzionare più o meno tutto, e mira a dare l’impressione di uno invidiabilmente libero e indipendente, per lo meno fintanto che lo desidera.
Lei non lo invita a casa sua, che ricorda Allersmead... stessa imponente presenza nel vicinato, analogamente fornita di alberi, prato e vialetto ricoperto di ghiaia. Paul sa da dove viene lei, perché anche lui viene da quell’ambiente, e si presume che lei lo percepisca, motivo per cui è divertita dalla mascherata del barista. Lui in realtà è un cittadino solido, anche se ci sta mettendo un po’ troppo a solidificarsi.
Perché non lo invita a entrare, perché non lo presenta ai suoi? Forse perché sa che i genitori non sarebbero così entusiasti all’idea di un barista come fidanzato della figlia, quantunque un barista dilettante, quantunque lei stessa non gli abbia mai conferito il titolo di fidanzato. È una storia passeggera, per quanto la riguarda, che si svolge in spiaggia, sulle scogliere fuori città, nei caffè e nei pub e – quando Paul riesce a convincerla – su nella camera all’ultimo piano dell’hotel.
Lei la vede così. Il guaio è che Paul si sta avviando su una rotta diversa. In passato le ragazze andavano e venivano senza rimpianti, ma questa volta non riesce a sopportare l’idea di lasciarla andare. Lei è importante. Lui è cotto. Sì, è innamorato, è finalmente entrato a far parte del genere umano. Non gliel’ha ancora detto, perché ha la sensazione che lei potrebbe tirarsi indietro. Cerca di tenere in piedi la messinscena del flirt, del divertimento estivo, dell’unione disinvolta.
Finché un giorno lei è distratta, irritabile, e il giorno dopo non si presenta all’appuntamento stabilito. Non lo richiama. Sua madre risponde al telefono e dice che le lascerà il messaggio; ha un tono freddo.
Una settimana, e non si sono visti. Dieci giorni. Due settimane. Lui è passato davanti al negozio di fiori una decina di volte, l’ha vista all’interno; in un paio di occasioni si è fatto coraggio ed è entrato; lei ha aggrottato le sopracciglia e gli ha detto che non poteva parlare in quel momento, che l’avrebbe richiamato.
Ad Allersmead, dopo tutti quegli anni, la ragazza piomba nella testa di Paul insieme ad altre cose, tante cose. È per lo più un calare di ombre, la nebulosa figura di lei, ma soprattutto lo spettro dei sentimenti, di quel che provò quando lei...
Quando lei gli dice di essere incinta. Per un attimo rimane scioccato, ma poi monta l’euforia. Incinta. Incinta significa un bambino. Un bambino significa una coppia. Una casa. Un posto dove vivere, qualcuno con cui stare. Le dice che si dovrebbero sposare. Vuole sposarla. Non vede l’ora di sposarla.
E lei replica: «Ma sei matto?»
Non vuole sposarlo. Non ne ha la minima intenzione. È un casino, non sarebbe dovuto succedere, ma non significa assolutamente che staranno insieme. Non ce n’è, non lo capisce? Anzi, è venuta per dirgli che forse dovrebbero smettere di vedersi.
Lui si sente gelare lo stomaco. Dall’euforia al gelo. La fissa. Poi la supplica, la implora, le dice che si cercherà un lavoro vero, che si troveranno un posto dove abitare, che avere un figlio sarà... (cerca la parola giusta, una parola adatta a lei)... forte.
Lei lo ascolta fino in fondo, il volto privo di espressione. Poi dice: «È assurdo, Paul».
È implacabile. Fredda, distaccata. È diventata un’altra; quella splendida risata non si sente più. Si è rinchiusa nel suo problema e non c’è posto per lui. È tagliato fuori, messo da parte. È distrutto, è confuso; gli sembra di avere un qualche ruolo, in quel frangente, persino un qualche diritto, ma non sa come farlo valere. Prova un tremendo senso di perdita: per un attimo ha intravisto un futuro utopistico, ma lei gliel’ha strappato via.
Tra la confusione, lo sgomento, l’incapacità di pensare con chiarezza, dice che vorrebbe vedere il bambino, quando arriverà.
Lei lo guarda con una sorta di stanco disprezzo. «Non ci sarà nessun bambino» replica. «Dovrò pur sistemare la faccenda, no?»
Di tanto in tanto, nel corso degli anni, Paul ha riflettuto su questo bambino mancato, così come di tanto in tanto si ricorda della ragazza. È passato molto tempo; era davvero giovane. Ora è decisamente più vecchio, e forse non molto più saggio, ma senz’altro in grado di guardarsi indietro con lucidità. Per lo più non gli piace ciò che vede, e ovviamente è questo il problema. Se solo avesse... Se solo non avesse... E l’estate con quella ragazza gli sembra un momento in cui la vita avrebbe potuto prendere una nuova piega, se solo lei...
E invece no. Ora lei è svanita, affondata in quel groviglio di persone che si sono conosciute in passato, di cui talvolta si sentono ancora le voci, quasi tutte a dirgli cose che preferirebbe non ascoltare. Figure autorevoli lo accusano di scarsa motivazione, datori di lavoro si chiedono se sia davvero tagliato per quell’impiego, ragazze gli dicono che non hanno affatto l’impressione di poter contare su di lui, quelli del centro di recupero continuano a ripetergli di perseverare e impegnarsi e darsi una possibilità.
Non si droga da anni, per la verità. Solo ogni tanto. Sbronze... be’, sbronze piuttosto spesso ma senza eccessi, niente in confronto a certa gente, per l’amor del cielo.
Ogni volta che ricapita ad Allersmead, nella sua vecchia stanza, nel suo vecchio letto – per giorni o settimane o mesi – ha l’inquietante sensazione di non essersene mai andato. È come se la sua vita fuori di lì non fosse che una specie di escursione immaginaria, mentre lui in realtà non si è mai mosso. Il Paul attuale sembra un anacronismo... quest’uomo massiccio; c’è un alter ego che si nasconde dietro di lui, il bambino, il ragazzo.
«Devi considerare Allersmead come una rete di sicurezza» aveva detto lei. Una volta. Anni fa. «Ci sarà sempre per te. Noi ci saremo sempre.»
Papà non l’ha detto, né niente di simile. Ha usato altre parole, di quando in quando.
Consuntivo. Esercizio di valutazione. Belle definizioni per questo processo involontario, questo fatto che accade ogni volta che Paul torna ad Allersmead: la comparsa intorno al letto di figure che richiedono di essere ricordate, che gli impongono di riflettere su quel che è accaduto.
Stasera tocca al tizio che gestiva i pony express, Speedbikes. È seduto dietro una disordinata scrivania in quel lurido bugigattolo di ufficio da cui gestisce le spedizioni, e dice a Paul che lo sta congedando. Non hanno più bisogno dei suoi servizi. È licenziato, in breve. E Paul, che se l’aspettava, vede la faccia florida dell’uomo, sempre con la barba incolta, che gli è rimasta in mente fin da allora benché il nome sia svanito. Vede questo viso ormai così familiare, e le sopracciglia rossicce, le venuzze rotte e arrossate, il grosso collo increspato, ed è felice di non rivederlo più (e invece lo farà, eccome), e non gli importa del lavoro; troverà qualcos’altro, e comunque si era rotto le scatole. Il tizio ha la mano tesa per farsi dare le chiavi della moto e continua a parlare, sembra che questa settimana la paga non ci sarà per via del risarcimento preteso dalla pasticceria. La cosa gli procurerà qualche grana, dovrà chiedere un prestito a qualcuno, o vedere se la banca gli verrà incontro, ma è chiaro che litigare non servirà a niente, e ora vuole soltanto andarsene. Ne ha abbastanza di quel tipo, ne ha abbastanza di sfrecciare in mezzo al traffico, di starsene in sella alla moto in un ingorgo a respirare gas di scarico.
La prossima volta qualcosa di rispettabile, in un ufficio. Direttore di giornale, neurochirurgo, parlamentare.
Fare il fattorino andava bene, agli inizi. Vestito di pelle nera dalla testa ai piedi, a sgusciare tra autobus e camion, a sgommare ai semafori, a zigzagare per le strade della città, le vie secondarie, le scorciatoie. C’era da esaltarsi... oh, quella sì che era vita. Consegnare con un sorriso le merci a centraliniste carine dietro banconi di vetro in ingressi di marmo con vegetazione da giungla; attendere una consegna e ogni tanto farsi un caffè e due chiacchiere. Per lo più trasporta documenti: buste grandi, buste piccole, bustoni imbottiti, pacchetti. Schizza con il suo carico di carta in giro per la città; chissà di che cosa si tratta... non sono affari suoi; lui non è che il tramite di tutta quella carta, il mezzo attraverso cui vola da un indirizzo a un altro. Ogni tanto trasporta cose diverse: bobine di pellicola, misteriosi imballaggi. Per lui è indifferente: portare la roba da A a B, e attendere il successivo blocco di istruzioni gracchianti dal tipo in ufficio. Il più delle volte è un giochetto da ragazzi, solo qualche sporadico intoppo quando non riesci a trovare il posto che cerchi, o il traffico ti blocca e ti fanno una testa così per non aver consegnato in tempo.
Altre volte va peggio. Alla sua prima caduta dalla moto – una svolta troppo veloce – il tassista che accostò per aiutarlo a tirarsi su disse: «Vita breve e spensierata, eh?» Assicuratosi che Paul fosse illeso, aggiunse: «Devo ancora vederne uno di voi con più di venticinque anni». Paul sogghignò.
In seguito ci furono altre cadute. La bardatura in pelle ti risparmia le abrasioni sull’asfalto, in parte serve a questo, e impari a rotolare via dalla moto, sperando che dietro di te non ci sia una macchina. L’importante è: ce l’hai ancora la consegna? Lui ce l’aveva sempre, fino a quell’ultimo giorno.
Be’, non proprio sempre. In un’occasione per poco non perse un grande raccoglitore piatto, disegni di architettura, si scoprì. L’aveva fissato al sellino, certo, ma la cinghia si ruppe quando la moto si ribaltò – urtò il cordolo, quella volta – e il raccoglitore si aprì sparpagliando il contenuto per tutta la strada e in parte danneggiandolo. Si beccò una lavataccia di capo per quello. In ufficio, Faccione andò su tutte le furie.
Faccione teneva sempre d’occhio l’orologio. Sapeva esattamente quanto ci voleva ad andare da un punto all’altro; se ci mettevi di più, dovevi renderne conto. E se c’era una cosa che davvero lo faceva imbestialire era il sospetto che tu avessi fatto una puntata in un pub. Paul teneva sempre la radiotrasmittente nella tasca della giacca.
Quel giorno, quell’ultimo giorno, si era fermato un paio di volte per una birra. Faceva caldo e il traffico era infernale, e per due volte aveva scoperto che, guarda caso, il percorso più breve per una certa consegna passava davanti a uno dei suoi pub preferiti. Non si era fermato a lungo nessuna delle due volte, solo quanto bastava per scolarsi una pinta e sentirsi molto più efficiente. E poi, dopo la seconda sosta, il telefono gracchiò le istruzioni per il lavoro successivo, che era un po’ strambo: ritirare una torta di compleanno da una pasticceria e portarla ad Hampstead Heath, in una di quelle residenze signorili lungo il parco – e datti una mossa, la vogliono per la festa di una ragazzina ora.
La tipa della pasticceria era un po’ contrariata: «Perché non hanno mandato il furgone? Di solito usano quello, per le torte». Paul spiegò che il furgone non era di strada al momento. «Non ci saranno problemi.» Il contenitore della torta era dentro una scatola. «Guardi, la scatola entra benissimo nel mio portapacchi.» Ed era proprio così, anche se il coperchio non si chiudeva del tutto. «Andrà bene, non c’è da preoccuparsi.»
L’autocarro fece una brusca frenata mentre risalivano Haverstock Hill, un cane gli era sbucato davanti. Paul vi finì contro, cadde dalla moto, la moto derapò sulla strada, il portapacchi si spalancò, lo stesso fece la scatola con la torta, e buona notte. Si vedeva che era un lavoro di classe, quella torta, persino a pezzi sull’asfalto: glassa bianca e rosa, con le roselline e le scritte con la panna. Peccato.
E così era finita, alla Speedbikes. «Be’, ne hai fatta una di troppo, bello» disse Faccione. E adesso eccolo lì, accanto al letto ad Allersmead, a ripeterglielo. Ma di persone così ci si può sbarazzare, se ti impegni. Ti concentri su qualcos’altro, su qualcun altro, e gli dici di togliersi dai piedi.
Non riaffiora mai nel giusto ordine, questa gente che ha in testa. Charlie del centro di recupero viene di gran lunga prima di Faccione della Speedbikes, ma salta fuori solo adesso, a reclamare il suo turno.
Paul e Charlie erano compagni di stanza. Quando si conobbero Paul disse: «Ti chiami come mio padre». L’aveva detto così per dire, ma anche perché era rimasto colpito dall’incongruenza. Charlie era un ragazzo allegro e sveglio di South London, quanto di più lontano ci fosse da papà. E Charlie rispose, imitando uno strizzacervelli dall’aria interessata: «Parlami del rapporto con tuo padre, Paul». Dopo di che si erano rotolati sul letto dalle risate e avevano capito che ce l’avrebbero fatta a tirare avanti là dentro, con un po’ di sostegno reciproco.
Charlie era magro e nervoso e non la smetteva mai di parlare; aveva dato una mano al padre nella bancarella che gestiva al mercato fin dall’età di sei anni, e marinato la scuola come scelta politica, e naturalmente si era fatto di droga. Aveva tre sorelle, la madre era morta quando lui aveva nove anni, a dieci era stato pizzicato per taccheggio e a dodici era volato dal motorino ed era rimasto in rianimazione per una settimana. Oppure no? Charlie aveva molte storie di vita, a seconda delle occasioni. Era quello che contribuiva nel modo più volenteroso e fecondo alle sedute di gruppo durante le quali una manciata di loro si sedeva in cerchio con un tizio del centro, e a ciascuno veniva richiesto di dar sfogo a una qualche confessione. Il «palio dei contriti», lo chiamava Charlie, e riusciva sempre a surclassare tutti offrendo esempi fino a quel momento inediti di mancanze personali, abusi o angosce represse. Pungolato dal suo esempio, Paul presentava Allersmead come un inferno sartriano, dove lui e i cinque fratelli si contendevano briciole di attenzione da parte dei genitori. Tentava di spogliarlo degli elementi borghesi, attribuendo a suo padre un’inettitudine cronica anziché un’inclinazione a scrivere libri, eliminando Ingrid e trasformando sua madre in una megera egocentrica. Il senso di colpa che ciò gli procurava era più che opportuno, poiché dava al suo racconto un tono abbattuto ed esitante, il che era ben visto. Si guadagnava così una buona dose di comprensione e di consigli amichevoli da parte degli altri membri del gruppo.
Persino Charlie ne rimaneva colpito. Dava per scontato che Paul non dicesse la verità, e gli interessava poco la sua situazione reale; si trattava unicamente di manipolare quel sistema, dar loro quel che volevano e in tal modo ingraziarseli. Se ne stava seduto sul bordo del letto, stringendosi le ginocchia, una figuretta convulsa, e istruiva Paul su come avere il controllo di ogni situazione in cui si fosse trovato: «Tu guardati bene intorno, okay? E poi te la giochi come vuoi, ma in modo che loro non se ne accorgano». Charlie era benvoluto sia dal personale sia dagli altri ricoverati, e avrebbe senza dubbio lasciato il centro con un carattere in apparenza ravveduto. Alcuni indizi facevano pensare che avesse già familiarità con posti del genere. Ma questa volta ne stava uscendo, dalla droga, disse a Paul con franchezza, era la volta buona, non c’era dubbio. Farsi era da idioti.
In quei momenti Charlie era credibile. Paul si ritrovava a invidiargli quella sorta di innata fiducia in se stesso che gli consentiva di portare avanti il suo percorso di inganno e persuasione. Ci volevano energia e forza immaginativa. Paul sapeva bene che gli mancava il requisito della motivazione – figure autorevoli glielo avevano ripetuto per anni – e studiava speranzoso Charlie, chiedendosi se un po’ di quel suo metodo non potesse trasmettersi anche a lui. Charlie aveva una sua coerenza: poteva offrire versioni contrastanti di sé, ma lo faceva con una convinzione incrollabile. Aveva un piano e lo rispettava. E il piano, grosso modo, era di vivere come aveva scelto di vivere e non come potevano scegliere altri per lui.
Paul provava invidia anche per quel piano. Lui non ne aveva nemmeno uno, e ne era consapevole. Non era stata una sua decisione quella di non passare gli esami al college, di vagare da un lavoro senza prospettive a un altro, di cadere nella droga... tutte cose che erano successe e basta, e più accadevano più sembravano diventare una sequenza che si perpetuava da sé. Gli altri non la vedevano così, naturalmente; aveva perso il conto delle volte che gli avevano detto di prendere in mano la sua vita o (una delle frasi preferite in assoluto, questa) che era lui il peggior nemico di se stesso.
La teoria del nemico aveva una certa presa su di lui. Suggeriva un insuperabile conflitto interiore, due personalità in guerra: il bravo e laborioso Paul perennemente rovinato dal Paul cattivo e ostruzionista. E se uno era nato così, c’era ben poco da fare, o no?
Ora Paul non ricorda più quanto tempo è rimasto al centro di recupero; quel periodo si è ridotto a una collezione di immagini che balenano ogni tanto, riproponendogli strizzacervelli e altri ricoverati, ma soprattutto Charlie. «Dammi retta» diceva Charlie, «se gli fai vedere che ti arrendi, ti hanno in pugno.» Paul non era sicuro di cosa intendesse per arrendersi, ma Charlie sapeva essere carismatico quando voleva convincere, e pareva una buona idea allearsi con lui per sovvertire l’autorità. Di conseguenza, Paul diceva a quelli del centro qualsiasi cosa riteneva volessero sentire e cercava di assorbire da Charlie una qualche linea di condotta personale. Un piano.
Charlie terminò il periodo al centro poco prima di Paul, giurandogli eterna amicizia. Gli scrisse su un biglietto un numero di telefono: «Fammi uno squillo, okay? Ci becchiamo... ci facciamo un giro in città».
Paul non lo rivide più. Quando chiamò quel numero, la persona che rispose non aveva mai sentito parlare di Charlie. Solo ora ogni tanto va a trovarlo, facendogli dei grandi sorrisi accanto al letto di Allersmead. «Ti ricordi di me?»
A volte è papà a comparire vicino al letto. Papà naturalmente dorme nella camera lungo il corridoio; questo è un altro papà, quello che si rifiutò di sganciare i soldi per farti andare ad Amsterdam con gli amici quella volta, il papà che arrivò scuro in volto alla stazione di polizia di Bude, con mamma che gli piagnucolava dietro. Quel papà è laconico, sarcastico; il suo tono gli è infinitamente familiare, e per la verità capita ancora di sentirlo nel papà di oggi, ma ora ha un peso minore, è sbiadito dall’abitudine, è diventato una sorta di rumore bianco, irritante ma privo della forza di un tempo. Paul guarda papà in questi giorni e vede un uomo che sta diventando vecchio, e la cosa gli sembra in qualche modo patetica. Persino lui, persino papà.
Ma quel papà aveva un peso, all’epoca. Caspita se ne aveva. La sua lingua sapeva ferire; riusciva a farti sentire più inadeguato di quanto tu non sapessi già di essere. Quella sua maniera di spuntarla sempre nelle discussioni, di fare l’osservazione che ti smontava definitivamente. Lo sguardo attento con cui esaminava le pagelle, che restituiva con un significativo silenzio.
Quando giocavamo in cantina, pensa Paul, e io facevo sempre il padre, l’idea era di essere quanto più possibile non-papà. Cacciatore di bufali. Capitano della nave. James Bond, se ne avevo l’ispirazione. Ma papà si insinuava sempre come un’ombra, mi pare di ricordare... li tenevo tutti in riga, li comandavo a bacchetta. Ora tocca a me, quaggiù.
Di quando in quando sbuca uno dei fratelli. Sandra apre il pugno serrato e si mette un ragno in bocca... oppure no? Roger esamina con interesse clinico il dito tagliato di Paul: «Devo vedere quanto sanguina». Clare vuole che la guardi mentre fa la verticale. Katie lo osserva con aria preoccupata, lui ha l’influenza o qualcos’altro, e mamma l’ha mandata su con un bicchiere di limonata. «Morirai?» gli chiede.
Gina gli dice di darsi una regolata. È dura. «Non puoi continuare così» gli fa. «Un lavoro del cavolo dopo l’altro.» La scena è di un anno prima, risale a quando Paul faceva l’inserviente in un ospedale. Si trovano per bere qualcosa; lei è appena uscita da uno studio televisivo, lui per oggi ha terminato di spingere carrelli nelle sale operatorie. Lei parla di corsi di formazione, dei diplomi di City & Guilds. Sta cercando di farlo tornare a studiare, sembra, e lui svicola. È solo per un periodo, la rassicura; si guarderà attorno per trovare qualcosa di serio quando sarà pronto, un lavoro vero. Lei lo guarda accigliata: «Non puoi andare avanti così, Paul».
È solo con Gina che parla ora, nella realtà attuale. Strano come gli altri siano disseminati così lontano. Roger in Canada, Katie negli Stati Uniti, Sandra... dove? In Italia, giusto? Clare qua e là con quella compagnia di danza. Non parla con nessuno di loro da una vita. Una volta erano tutti gli uni addosso agli altri, ogni giorno dell’anno, le loro facce e le loro voci gli erano familiari quanto la sua, e poi... puff! Volati via. Allersmead è come un soffione dai semi dispersi.
Tranne lui. E Gina, che è ancora nei paraggi, per così dire, anche se in giro per il mondo spesso e volentieri. È stata una scelta di tutti quella di andarsene il più lontano possibile?
Mamma parla. Spesso. Naturalmente. Parla a fiumi, come sempre, e in prevalenza sono solo crepitii atmosferici, anche se ogni tanto si percepisce uno squarcio forte e chiaro. Gli sta dicendo che papà non vedrà quell’orribile pagella: «Facciamo che la perderò, tesoro». Piange, a Crackington Haven: «Sono stati quegli altri ragazzacci, vero? Da solo non l’avresti fatto, vero?» Supplica: «Dacci un numero di telefono. Non so mai dove sei...» Del turbinio di ricordi in cui lei compare, Paul sente solo questo: «Certo che sei sempre stato il mio preferito».
In quel periodo, al vivaio, Paul non rivela mai dove abita. «A dire il vero, sto con i miei genitori e la loro... ehm, ragazza alla pari.» Non se ne parla proprio. Paul suscita un interesse indiscreto, è inevitabile: troppo vecchio per un lavoro del genere. Perché lo fa? Qual è il problema? Lui elude le domande, tattica che usa ormai da anni; è bravissimo a stringere conoscenze cordiali e temporanee senza mai lasciar avvicinare nessuno quanto basta per entrare nei dettagli. La sua strada è disseminata di persone che l’hanno conosciuto discretamente bene, che hanno chiacchierato con lui, bevuto con lui, che ci sono andate a letto, ma che si sono poi rese conto di non saperne nulla. Dicevano che sembrava non avere un passato.
Disteso sul suo letto di Allersmead, con quell’inevitabile e affollato passato che gli riecheggia intorno, Paul passa in rassegna le figure che gli si parano di fronte e fa avanzare Sophie, l’insegnante della scuola in cui ha lavorato come custode per... oh, un paio d’anni. È stata una cosa seria, e Sophie ne fu in larga misura responsabile. Arrivarono a convivere; erano una coppia... il preside lo sapeva e sorrideva benevolo.
Sophie insegna ai bambini di prima. È incantevole: uno scricciolo, sorridente e socievole, ed è così che gli piace pensarla ora, e non come quell’altra Sophie che sarebbe comparsa in seguito. La vede sorridergli dall’altra parte del tavolino in un pub, la vede camminargli accanto a grandi passi durante una passeggiata al parco, la vede a letto, estatica. Ma una volta che l’ha lasciata apparire, ecco che inevitabilmente si intromette a forza l’altra Sophie, che parla in un modo diverso.
«Non dovrei conoscere i tuoi genitori?»
«Dov’è che hai fatto il college, Paul?»
«Il problema è che in realtà fare il custode di una scuola non ti porta da nessuna parte.»
Sophie diventa un’altra. Assume un tono di voce che a Paul suona noiosamente familiare, sentito per la prima volta molto tempo addietro ad Allersmead, e in seguito da una figura autorevole dopo l’altra: la voce che gli dice quello che dovrebbe fare al posto di quello che fa, che contesta, critica, raccomanda. Si sarebbe aspettato di meglio da lei.
Lei accenna a una sistemazione a lungo termine. Il matrimonio. Un figlio.
Un tempo, ormai piuttosto lontano, di fronte alla prospettiva di un bambino inatteso Paul aveva accettato subito l’idea di una vita diversa. Ma era allora, era un’altra ragazza, era lei che lo teneva sulla corda. Adesso non è così. Per come si stanno mettendo le cose, potrebbe essere necessaria una mossa evasiva.
Il matrimonio, Paul valutò allora e pensa adesso, fa per gli altri, non per lui. Come si fa a sopportare quella prossimità, il fatto di dover sempre considerare l’altra persona, quelle pastoie? Be’, con difficoltà; ne è prova il numero di divorzi, ne sono prova i matrimoni di cui si ha notizia.
Loro. Mamma e papà. Papà non fa molto testo, nel complesso: la porta del suo studio lo ha preservato da un eccesso di prossimità; a quanto pare, non si è sempre sentito impastoiato. Per mamma, il matrimonio è il suo mestiere o, meglio, lo sono state le conseguenze del matrimonio. Allersmead. Noi.
Paul pensa a sua madre, che dorme qualche stanza più in là lungo il corridoio. Anche lei è sulla soglia della vecchiaia, naturalmente, ma chissà perché nel suo caso è un evento meno inaspettato; quando sfoglia all’indietro le immagini di sua madre, Paul vede una serie di mutazioni: è sempre un po’ più rotonda, e un po’ più ingrigita. E le sue parole sono sempre state la musica di sottofondo ad Allersmead, il tappeto sonoro, una variante domestica di Vivaldi, l’accompagnamento dell’infanzia, della crescita. Risuonavano nella testa, che le avesse udite o no. E lo fanno ancora.
Paul adotta una misura evasiva. Ignora le allusioni di Sophie. Si assenta sempre più. Sophie protesta. Finché un giorno lui non c’è più e basta. Si è dimesso dalla scuola e, come Sophie dirà amaramente a tutti quanti, se l’è squagliata. E tutti quanti osservano che era un tipo un po’ bizzarro e che per lei forse è meglio che sia andata così. Sophie non ne è del tutto sicura ma apprezza la comprensione, ed essendo una ragazza sensata si mette d’impegno per cancellare Paul e guardarsi intorno alla ricerca di un nuovo interesse. Potrebbe darle una certa soddisfazione sapere che, a distanza di anni, farà saltuarie e brevi comparsate accanto al letto di Paul.
I membri di questo drappello notturno tracciano il diagramma della vita di Paul... un’accozzaglia di persone, alcune fondamentali, altre incidentali. A volte si accalcano; altre volte una di esse sgattaiola fuori, inaspettata, e obbliga Paul a tornare in un luogo specifico. Sophie è seduta sul divano di quell’appartamento dove convivevano e lo rimprovera per essere sparito tutta la sera, e anche il giorno prima. Faccione tende la mano per farsi dare le chiavi della moto. Lo strizzacervelli del centro di recupero vuole sapere che opinione ha di sé.
Quel poliziotto si sporge dalla finestra dicendo: «Paul, facciamo due chiacchiere».
E invece no, replica Paul, anni dopo. Vedi di sparire, okay? So che hai buone intenzioni, ma non ci vengo.
La stanza è all’ultimo piano di un alto edificio, una palazzina di uffici dove c’è stato un incendio. È da solo nella stanza, di cui deve ripulire i muri anneriti dal fumo. L’impresa di pulizie è forse il punto più basso che abbia toccato, un lavoro che raccatta chi non è riuscito a trovare un impiego meno sgradevole. I suoi colleghi sono quanto di più variegato ci sia: una squadra poliglotta nella quale molti non parlano granché di inglese. Poco importa, un uomo delle pulizie può essere istruito con gesti e incitamenti. Paul ne fa parte perché in quel periodo non gli importa di nulla, non gli importa quello che fa o dov’è, preferirebbe non essere proprio da nessuna parte, preferirebbe non essere. Si limita a passare da un giorno all’altro, un inutile e doloroso giorno dopo l’altro; non ha aspettative, tranne forse una dose quando riesce a procurarsela, è senza speranza, senza volontà. La volontà che gli rimane viene impiegata nelle operazioni di pulizia, perché altrimenti il supervisore non gli darà tregua.
È solo in questa stanza già da parecchio. È la sua stanza, è compito suo. È in gran parte vuota; mobili e moquette sono stati rimossi. Ci sono solo una grande scrivania, danneggiata dall’acqua, e quei muri neri e unti sui quali si sta applicando da un’oretta circa. La porta è aperta e si sentono le voci degli altri provenire dalle stanze lungo il corridoio. Il supervisore è passato cinque minuti fa; non tornerà più per parecchio.
Paul va alla finestra, che è spalancata e dà su uno stretto terrazzino in comune con le altre stanze del piano. Il balcone corre lungo tutto l’edificio e ha una ringhiera. Paul lo fissa, poi mette una gamba fuori dalla finestra, poi l’altra, e rimane lì in piedi.
Guarda oltre la ringhiera. È un bel salto, fino alla strada sottostante, è davvero un bel salto. Non è una via trafficata... auto parcheggiate, qualche passante, un uomo che entra nell’edicola sul marciapiede di fronte, un cameriere che fuma una sigaretta fuori dal bistrot accanto.
Paul guarda. Rimane lì a guardare per un po’. Un minuto? Cinque minuti? Un quarto d’ora? E chi lo sa... il tempo non ha più molto significato.
La ringhiera è abbastanza alta, ma non troppo. Paul fa qualche passo alla sua sinistra, si allontana dalla finestra finché non arriva a metà tra la sua e quella successiva. Sporge una gamba, poi l’altra, ed è seduto sulla ringhiera, le gambe penzoloni oltre il bordo, sopra la strada. Ha le vertigini, il che di fatto rende tutto più facile. Dai, si dice.
Il cameriere alza lo sguardo. Lascia cadere la sigaretta e grida. Paul non sente quello che dice. Escono un altro cameriere e un tizio che potrebbe essere il proprietario, in maniche di camicia. Tutti e tre guardano in alto, lo stesso fa una donna che stava passando e si è fermata. L’uomo che era entrato nell’edicola esce e anche lui si aggrega al gruppo di spettatori. Gesticola, urla.
Paul abbassa gli occhi e li guarda. Sembra che siano lontanissimi e che non abbiano assolutamente nulla a che fare con lui. Dai. Dai.
Si è fermato un altro passante. E un altro. C’è una conversazione in atto, un consulto. Il proprietario del bistrot rientra.
Ogni cosa è pienamente reale, ma anche del tutto irreale. Paul sente un clacson, un aeroplano, uno sportello di automobile che si chiude. Vede una faccia a una finestra dell’edificio opposto, vede due piccioni che scendono cautamente lungo il tetto, vede un gabbiano che si libra nel cielo. Quando guarda in giù, ha di nuovo le vertigini, tutto ondeggia un poco, la strada si increspa. Sente la sirena urlante di una macchina della polizia.
L’automobile svolta l’angolo della strada e accosta, tace ora, la luce azzurra lampeggia. Scendono due poliziotti. Paul li vede ma allo stesso tempo non li vede. Dai. Adesso.
I poliziotti non ci sono più e la piccola folla sul marciapiede è cresciuta. Una donna si copre la bocca con la mano.
Paul osserva un aereo che solca lentamente il cielo sopra la linea dei tetti. Va così piano. Come faranno a stare su? Ora lui allargherà le braccia e diventerà un aereo.
Qualcuno gli sta parlando. C’è una testa che spunta dalla finestra un paio di metri più in là. La testa parla. Dice una cosa, e poi un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra ancora. A tratti Paul risponde.
«Come ti chiami?» chiede il poliziotto.
«Paul» risponde Paul. «Ma non ti avvicinare, va bene? Stammi lontano.»
«Ascolta, Paul» dice il poliziotto. «Facciamo due chiacchiere. Entra, così facciamo due chiacchiere.»
«No» dice Paul.
«Hai una famiglia?» domanda il poliziotto. «C’è qualcuno che vorresti che contattassimo?»
«Non ho una famiglia» risponde Paul.
«Qualcun altro?» fa il poliziotto.
Paul non parla. Ora il poliziotto è fuori dalla finestra, in piedi. Paul si allontana da lui strisciando lungo il parapetto, ma poi vede che c’è un altro poliziotto all’altra finestra.
Paul dice: «Non ti avvicinare».
I piccioni sul tetto di fronte si alzano in volo. Dai. Adesso.
Il poliziotto continua: «Vado alla partita dell’Arsenal oggi pomeriggio. Tieni all’Arsenal, Paul?»
Il traffico giù si è fermato. Un’altra macchina della polizia è messa di traverso all’estremità della via.
«Fa caldo qua fuori» prosegue il poliziotto. «Vuoi qualcosa da bere, Paul? Una bottiglia d’acqua?»
Paul guarda in basso. Guarda i visi della gente voltati all’insù. Ha l’impressione che lo stomaco gli si sciolga e deve alzare gli occhi, li punta sul tetto di fronte, dov’è arrivato un altro piccione. Paul lo studia, il suo petto iridescente, la testa che beccheggia.
Il poliziotto sposta i piedi, con un lieve strascinio.
«Non ti avvicinare» dice Paul. «Altrimenti...» Guarda di nuovo in basso.
Ora parla l’altro poliziotto. Anche lui è fuori dalla finestra, in piedi sul balcone. Quando è uscito? «Paul» inizia, «perché non entri, così facciamo due chiacchiere?»
Paul gira la testa verso di lui. «Non ti...»
Due braccia forti lo afferrano per la vita e lo tirano indietro giù dalla ringhiera. Tutti e due i poliziotti si buttano su di lui e lo trascinano dentro attraverso la finestra. Lui non reagisce.
«Bravo ragazzo, Paul» dice il primo poliziotto. «Ben fatto.»
Se ne va, il poliziotto. Se ne vanno entrambi; tornano a confondersi nel groviglio di persone che ha in testa, e Paul ne è sollevato. Non gli piace quel posto in particolare; lo vorrebbe buttare via, ma non si può scegliere quello che andrà buttato via e quello che resta, vero?
«E la prima cosa da fare» disse Gina «è mollare quella schifosa impresa di pulizie. Fra tutti i lavori del cavolo... Ascoltami, ho un piano...»
«A lei non dirlo» replicò Paul. «A loro non dirlo. Di... quello. Lo giuri?»
Gina sospirò. «Sto cercando di dirti il mio piano. D’accordo. Anche se personalmente ritengo che lo dovrebbero sapere.»
«Giura.»
«Ho detto d’accordo. Adesso ascolta... Ho trovato questo corso di formazione.»
A Paul non piace rivisitare nemmeno quel luogo. I corsi di formazione non hanno mai fatto per lui. Duravano in eterno, non riuscivi mai a vederne la fine, qualunque fosse la materia per cui ti formavano, ti annoiavi già dopo pochi mesi, o poche settimane. L’ideale era togliersi dalla catena di montaggio prima che fosse troppo tardi, prima che ti trasformassero in qualcosa che non volevi diventare.
Guarda fisso il soffitto di Allersmead e gli sembra che anche Allersmead sia a modo suo un corso. Crescere. Crescere qui, in quel modo. Ma ci siamo vissuti in sei, e guardateci, pensa. Non esattamente omogenei, come prodotti.
Allersmead gli si adagia intorno, quei familiari scricchiolii notturni. Lui ha di nuovo sei anni, o dieci, o sedici.