III

Il male del secolo trova nell’animo di Giacomo un terreno fecondo. In un biennio la consapevolezza della crisi del proprio tempo si acuisce, e il presentimento che l’uomo sia in balia del fato lo invade. Nel 1820 però apprende che il filologo Angelo Mai (1782-1854) ha ritrovato in un codice vaticano il trattato De re publica di Cicerone. Il poeta s’infiamma, e il ritrovamento diventa un’occasione per scrivere una canzone che lui stesso definirà piena di fanatismo politico.

L’ancien régime è finito e ha portato via con sé anche il mondo antico. La realtà che lo circonda gli appare segnata da macerie sia fisiche che ideali ed è completamente svuotata dei valori che ha appreso dai libri. Non ha creduto nei francesi e non crede nei vecchi governanti, che sono ritornati al potere dopo il Congresso di Vienna. Intuisce che le energie di cambiamento degli italiani cercano invano una strada, e si fa interprete di un malessere generale che si diffonde sempre più. Matura una totale disaffezione verso tutto, un radicale pessimismo che lotta con la sua volontà di credere che ci siano ancora esempi della grandezza antica. Alle «anime prodi» del passato, a una sorta di aristocrazia che coltivava i grandi valori dell’amore, della gloria e della virtù è subentrata la vile plebe. Gli italiani hanno perso ogni ardire e ogni capacità di agire: sui monumenti degli antichi è sceso l’oblio.

Grazie ad Angelo Mai sembra che sia tornato l’Umanesimo. Allora l’Italia era ardente e viva e il vento che soffiava poteva accendere delle faville di fuoco. Il tempo di Dante, delle sue ceneri «calde» e «sante» è tramontato, e anche quello dello sfortunato amante che fu Petrarca. Dal loro dolore è nata la poesia italiana, ma i moderni non sanno più neanche soffrire. Si sono allontanati dalla natura e hanno smarrito la loro essenza di uomini. Non nascono alla gioia ma alla noia, che stringe i loro cuori dalla nascita e li accompagna fino alla morte.

L’equilibrio tra l’uomo e il cosmo si è spezzato, e la condizione della modernità non può che essere di alienazione e malessere. Gli antichi erano felici ma l’uomo, mosso dal desiderio di conoscenza e di piacere, è voluto andare oltre i limiti imposti dalla natura. Il progresso tecnologico e la scoperta della navigazione lo hanno spinto a vagare in lungo e in largo per il globo terrestre per conoscere i luoghi della terra. Poi è venuto Colombo, ha scoperto l’America, e così hanno capito che il mondo non è infinito ma ha confini certi. Così in loro si è radicato il senso della finitudine delle cose e del nulla.

La civiltà accresce l’infelicità dell’uomo e come l’età felice per l’umanità è quella primitiva, così per l’individuo è quella dell’infanzia. La maturità è solitudine, dolore e decadenza. Giacomo stesso, che è quasi un uomo maturo, ha fatto esperienza di questa verità. La sua ragione però lotta con il cuore. Gli si spalanca dinanzi la vastità del deserto, che lo attira in una silente disperazione, ma lui resiste. Avverte che quello stupendo potere della mente, che creava sogni e immagini e che lo confortava dagli affanni, si sta affievolendo. Può però ancora richiamarlo per mezzo della memoria, grazie a quell’affetto e a quel grande sentire che lo accomuna ai grandi spiriti della tradizione come Dante, Ariosto, Tasso e Alfieri. I suoi veri compagni, gli unici che forse potrebbero capirlo, sono proprio quegli uomini che non ci sono più, e non i suoi contemporanei, che si distinguono non per il loro valore ma per la loro mediocrità.

Nella corruzione generale, però, Angelo Mai rappresenta un’eccezione: con la sua scoperta ha acceso una luce nella crisi intellettuale e morale del presente. Ha mostrato una strada da seguire. E Giacomo, già disilluso, spera che Mai continui a svegliare i morti, perché i vivi dormono avvolti dal sonno della viltà.

Scritta a Recanati nel 1820, la canzone è composta da 12 strofe di 15 versi ognuna. Dal punto di vista metrico lo schema utilizzato è sempre lo stesso in ciascuna strofa, e cioè AbCBCDeFGDeFGHH.