Treia è una cittadina marchigiana non lontana da Recanati. Carlo Didimi è un giovane nel pieno vigore del corpo. Incarna l’ideale di bellezza e di perfezione degli atleti greci, e durante una gara di gioco del pallone è applaudito dalla folla, che si trova sulla gradinata dell’arena. È un momento di festa e di gioia per tutta la comunità che suggerisce a Giacomo, nel 1821, una meditazione sul valore della gloria nell’età moderna e su come l’uomo può sfuggire alla infelicità e alla noia.
Se Carlo vuole che il suo nome sia ricordato e non sia preda del tempo, che divora nella sua inarrestabile corsa ogni cosa, deve cercare di conquistare la virtù con la dura fatica, che è superiore al molle ozio. Il popolare favore della folla lo chiama a compiere grandi azioni, a rinnovare le antiche lodi della patria e a emulare l’esempio degli atleti greci, che vinsero a Maratona i persiani e poi, dopo averli terrorizzati, li misero in fuga.
Certo lui penserà che sia vano il gioco che libera delle faville dell’antica virtù o che accende negli animi, ormai fiacchi e corrotti, il momentaneo ardore dello spirito vitale. Se questi pensieri lo assalgono deve ricordarsi che le opere dei mortali non sono altro che un gioco e che la verità è vana almeno quanto le illusioni. La natura, conscia di questo, per il loro bene aveva nascosto la verità con dei «lieti inganni» e con delle «felici ombre», ma la corruzione dei costumi ha fatto sì che loro perdessero le illusioni e sostituissero le gloriose occupazioni con vili e squallidi ozi. Gli esercizi ginnici non sono solo utili ad acquisire il vigore del corpo, a fare la guerra o a conquistare la gloria, ma sono necessari anche a tenere vivo l’animo e ad alimentare sentimenti come il coraggio e l’entusiasmo che rendono grandi gli uomini e le nazioni.
La speranza che Carlo possa far risorgere la virtù antica cozza però con la drammatica realtà. Quel mondo ideale, eroico, non soggetto al divenire del tempo, non perturbato dalla malattia, sia fisica che spirituale, e dal sentimento malinconico della vita, appartiene al passato. E probabilmente se il cielo, ritornato benigno, non accenderà nelle menti corrotte degli italiani l’amore per le glorie antiche, accadrà nel giro di pochi anni che sulle rovine italiche saltino sopra gli armenti, che l’astuta volpe abiti tra le città latine e tra le loro mura mormori l’«atro bosco».
Se il giovane fosse nato in un’altra epoca, sicuramente il suo valore avrebbe reso illustre l’Italia, ma questo non è possibile nell’era in cui lui vive. I valori degli antichi sono tramontati per sempre e tutto ciò che Carlo può fare è di non sopravvivere alla rovina della patria e di sollevare per se stesso la mente verso una meta ardua. Deve ricordare, lui e tutta la gioventù italiana, che la vita umana non ha alcun valore e che, allora, vale qualcosa quando disprezziamo i pericoli e osiamo affrontarli dimenticandoci di noi stessi.
Quando il nostro piede sfiora il «varco leteo», cioè quando corriamo il rischio di morire, la vita ci appare più lieta e grata e non avvertiamo più lo scorrere putrido delle ore, come le acque stagnanti e limacciose di un fiume. Allora rinascono in noi l’antico istinto e la passione per la vita che la società moderna, incline alla riflessione e all’analisi e genitrice di alienazione, ha mutato in piaceri non pieni e appaganti. Per paradosso, nel mare in tempesta, nel vortice dei flutti e nel costante pericolo, possiamo anche se per poco allontanare il male oscuro della nostra inquieta natura.
La canzone è stata scritta nel 1821, a Recanati. È costituita da 5 strofe di 13 versi ognuna, che ripetono sempre lo schema metrico AbCBACDEFDFgG.