VI

Bruto si muove tra le rovine. È solo sul campo di battaglia. È stato sconfitto da Ottaviano Augusto alla battaglia di Filippi nel 42 a.C. Sta per darsi la morte. La virtù italica è stata divelta, e sta per iniziare la decadenza del mondo antico. Solitario si aggira per la notte. Con parole feroci percuote l’aria notturna che porta il sonno a tutte le creature umane. Si volge contro gli dèi e le divinità infernali. Poi alza la voce contro la stolta virtù, che impartisce precetti dalle inconsistenti nebbie e dai campi degli inquieti sogni. Gli dèi sono statue di marmo indifferenti al dolore dell’uomo. Permettono il male e non puniscono l’ingiusto ma l’uomo pio.

Nel cuore di Bruto brucia una terribile ferocia. Ha perso il senso del sacro, e l’ordine che lo legava al cosmo si è infranto. Il dolore gli lacera l’anima ed è pronto a ingaggiare una guerra contro il fato. Non spera più. Odia se stesso e l’esistenza. Il pensiero del suicidio gli procura un riso maligno e irride le nere ombre degli Inferi. Un tempo gli uomini trascorrevano liberi nei boschi una vita innocente. La civiltà ha posto fine a quei regni felici e ha assoggettato la vita già infelice ad altre leggi. Gli dèi vietano all’uomo di suicidarsi; ma se l’esistenza è contro natura non c’è nulla che possa impedirgli di rinunciare a una vita innaturale e infelice. La legge che lo proibisce è stabilita dalla religione o da una oscura teoria filosofica ed è valida solo per l’uomo. Gli altri animali infatti trascorrono un’esistenza serena e senza alcuna consapevolezza dei mali che li affliggono fino alla morte. Se il loro affanno però li spingesse a gettarsi da una rupe o a fracassarsi la fronte contro un duro albero, nessuno si stupirebbe o si opporrebbe a questo. L’uomo, invece, è l’unico tra i figli di Prometeo che si annoia e per il quale la vita è un peso, che non può rinunciare all’esistenza, anche se è infelice e la morte non arriva.

La luna, di un bianco luminosissimo, sorge dal mare ed esplora la notte angosciosa e la campagna. Bruto alza lo sguardo al cielo. Si rivolge a lei e le parla. Nel chiarore che si diffonde sul campo di battaglia gli sembra di vedere Cesare, il tiranno che calpesta i corpi dei fratelli. Sui colli di Filippi si aggirano ancora i vinti e i vincitori in cerca di scampo e di preda. Dalle somme vette cala la rovina dell’antica Roma. La luna però, nella sua eterna e siderale bellezza, è quieta. Non la tocca il dolore dell’uomo e lei, che ha visto nascere la stirpe di Lavinia, silenziosa verserà la sua luce quando «rintronerà» sotto il piede dei barbari la solitaria sede delle Alpi.

L’uomo non solo non può mutare l’ordine naturale ma è la parte peggiore delle cose. La sua sciagura e quella dei suoi compagni non ha turbato le zolle bagnate del loro sangue, non ha turbato gli antri che risuonano delle loro grida, e i loro affanni non hanno fatto impallidire le stelle in cielo. I nudi sassi, la bestia selvaggia che si aggira nel bosco, l’uccello su un ramo verde con il petto pieno del consueto sonno, ignorano la grande catastrofe che si è appena consumata e che le sorti del mondo sono cambiate. Al sorgere dell’aurora la casa del villanello operoso rosseggerà, l’uccello che riposa su un ramo desterà con il canto le valli e la bestia selvaggia caccerà come sempre per i balzi la moltitudine degli animali selvatici.

Bruto sta per esalare l’ultimo respiro ma non invoca né la pietà dei sordi dèi dell’Olimpo, né di quelli del Cocito, né quella dell’indegna terra. Non si rivolge neanche alla notte e rifiuta il conforto dei posteri. I pianti di una massa vile non possono placare il suo spirito sdegnoso. Verranno tempi peggiori, e non si può affidare ai corrotti nipoti il compito di onorare i grandi antenati e quello di rendere vendetta ai vinti dopo la morte. Intorno a lui ruoti pure il corvo le sue penne, lo calpesti la bestia selvaggia, la furia degli elementi travolga la sua spoglia mortale, il vento si porti via il suo nome e di lui non resti alcuna memoria.

Si tratta di una canzone scritta nel 1821, a Recanati. È composta da 8 strofe di 15 versi ognuna, secondo lo schema metrico AbCDCEfGhILHmnN.