VII

La primavera per Giacomo è una medicina contro lo sfinimento dell’animo e contro quel malessere esistenziale che sempre più lo invade e addolora. Il tempo nel borgo scorre lento. Le giornate non passano mai e lui le trascorre immerso nella lettura e nella riflessione continua. Però alla vista del cielo limpido, finalmente sereno e senza nubi, e della luna, dopo il lungo inverno, prova una gioia genuina e sente rigenerarsi l’amore per la vita che sembrava per sempre spento. Questo miracolo si schiude inaspettato e fa vibrare tutto il suo essere. Avverte di essere ancora una volta in armonia con la natura e gli sembra di udirne la voce e di ritrovare la felicità perduta. Vagheggia un mondo lontano in cui ogni cosa era viva e in cui l’uomo era in sintonia con il creato. Il suo spirito è attraversato da un momento di quiete e lo sguardo si volge a contemplare il ciclo della natura. Il sole diventa ogni giorno più caldo e ridesta dal sonno gli alberi e i fiumi, ripara i danni arrecati dal ciclo di morte dell’inverno. Lenisce ogni affanno, nutre ogni cosa e cura anche le ferite dell’anima. Con la sua feconda energia infonde vita ai venti malsani e disperde le nubi nelle valli. Le foglie degli alberi, gli uccelli che sfidano con il debole petto il vento e gli animali che si aprono a un nuovo desiderio di amore e di speranza ritrovano lo slancio vitale. La primavera scioglie il gelo del cuore inaridito e rende più sopportabili le pene delle menti umane provate dal dolore. Con il suo calore e la sua luce illumina e rischiara la terra desolata della disillusione.

La natura è viva. Lo chiama. Gli chiede di mettersi in ascolto e di tradurre in poesia il suo linguaggio oscuro e segreto. Lui lo fa, e il cuore palpita per l’intensità delle emozioni. Riaffiora come per incanto un mondo di immagini e di sensazioni che credeva per sempre perduto. Vede le bianche ninfe che si raccolgono intorno ai corsi d’acqua, le Orcadi che intrecciano danze immortali, il pastorello che durante il meriggio porta le agnelle assetate alla fiorita riva del fiume, Pan che suona lo zufolo e Diana che deterge le proprie membra dopo la caccia. Ritrova quella lontanissima età dell’oro, quel paradiso perduto in cui l’uomo ancora non sapeva che la natura rispondesse a leggi meccanicistiche ma pensava che fosse animata da uno spirito vitale. Allora la luna era vicina al viandante nella notte solitaria e partecipava della sua storia. Prima che cominciasse la civiltà, la natura era attenta alle umane vicende e aveva cura degli uomini. Per questa ragione consentì la metamorfosi di Dafne, che era amata da Apollo, in alloro e quella di Filli, che credeva che Demofoonte l’avesse abbandonata, in mandorlo. Fu sempre la natura, che una volta era madre, a mutare in pioppi le Eliadi (le figlie di Climene e di Apollo), che erano disperate per la morte di Fetonte e che continuarono a piangerlo stillando resina dalla corteccia; a mutare Eco, rifiutata da Narciso, in un inganno vano dell’aria.

L’usignolo, che ritorna e spande i suoi lamenti per i campi e nell’aria silenziosa e oscura della notte, spinge Giacomo a meditare sulle sofferenze umane, a sperare che il suo spirito possa ritrovare il calore e l’ardore dell’infanzia e che la natura possa essere, se non «pietosa», almeno spettatrice degli affanni degli uomini. La stagione bella lo trasporta nella terra assolata e atemporale del mito, dove tutto ciò che lo circonda parla, ha storie da raccontare, e l’impossibile diventa possibile. Le favole degli antichi ridestano l’eco di quelle idee primitive nelle quali è scritta la storia della sua vita. Rompono la dimensione del presente e lo riconducono indietro nel tempo, oltre la linea d’ombra della maturità e del dolore facendogli riconoscere e ritrovare il linguaggio dimenticato dell’Eden perduto.

Scritta nel 1822, a Recanati, è una canzone composta da 5 strofe di 19 versi ognuna. Poggia sullo schema metrico aBCDbEFGHGiKIMNoMPP.