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Giacomo ha diciannove anni, nel 1817, quando incontra la cugina Gertrude Cassi Lazzari. Si era recata con il marito a fare visita alla sua famiglia e si trattiene solo alcuni giorni. Con lei scambia poche battute a tavola ma bastano a destare in lui una giovanile passione, il primo amore della sua vita. L’incontro con la cugina gli lascia un segno indelebile nella coscienza. Desta un calore di affetti, un piacere sottile e di natura tutta mentale. Il viso di Gertrude, i suoi gesti gli si imprimono dentro, risvegliano un fuoco e un’energia fino ad allora sopita. Producono in lui un’affezione che lo spinge frequentemente a pensare a lei. La passione lo fa ripiegare su se stesso e gli insegna ad ascoltare i moti del cuore. Il primo amore diventa per lui un’altra occasione per compiere un passo avanti nel lungo dialogo di esplorazione del proprio universo interiore. È una passione che dura poco, ma che volentieri rievoca nel ricordo. Quelle belle immagini, anche se sono lontane nel tempo, gli appaiono ancora grate e piacevoli.

L’amore per Gertrude ha interrotto la monotonia dei giorni, che a Recanati scorrevano lenti e infiniti. Ha turbato la quiete e la noia che spesso lo invadevano e gli ha fatto conoscere il tumulto del cuore. La sua vita si è fatta inquieta, e tutto ciò che prima lo appagava gli è diventato insopportabile e fonte di fastidio. La mente è occupata dal pensiero d’amore e lo fa palpitare sul cuscino durante le ore notturne. Un delirio e una febbre potentissima gli impediscono di dormire e gli fanno vedere, quasi fosse una potentissima e miracolosa apparizione in mezzo alle tenebre della notte, a occhi chiusi, la dolce donna amata. Il desiderio gli fa fremere le ossa e vibrare l’anima, e la sua figura passa dinanzi a lui come un vento che scorre in un’antica selva, dove mormora e geme a lungo.

Amore però è un fanciullo libero e, come un «venticello» che soffia dove vuole, presto vola via. Una mattina si apposta sotto la casa paterna una carrozza trainata da cavalli che porta via da lui per sempre la cugina. Da allora custodisce l’immagine di ogni atto della ragazza negli oscuri recessi della sua coscienza, nella cella solitaria della sua interiorità. Comincia ad assaporare il piacere che nasce dall’alimentare quel dolore che gli è nato e che gli cresce nello spirito, come quando piove sulla terra e il cielo lava malinconicamente i campi. Comprende così che tutti i sentimenti umani sono vani e che tutte le passioni sono passeggere. Scopre allora il linguaggio del cuore e un gusto nuovo nel ragionare con se stesso e con la propria anima. Il suo spirito si ripiega su se stesso, nello spazio chiuso del proprio intimo, e lì custodisce ogni sua emozione. È uno scrigno in cui ripone i rari diletti che la sorte gli dona. Lì conserva quei preziosi tesori e vi attinge ogni volta che il senso del dolore e della vanità di ogni cosa lo assale. Nella cella dell’anima risplende «illibata» la candida immagine della donna, che diventa simbolo della pura bellezza e dell’elevazione spirituale verso una dimensione più alta. Nel proprio cuore la venera come una reliquia sacra e vigila affinché nulla possa turbare la purezza di questa creatura, che ha preso dimora presso di lui. Non prova alcun pentimento di non aver goduto appieno della sua presenza reale e fisica, né vergogna per aver fatto qualcosa che non doveva fare. Il sentimento che gli era nato nel cuore era puro e casto. Era un fuoco che gli aveva fatto scoprire le vette più belle e inaccessibili della sua spiritualità. Come la superficie di un lago che non viene mai turbata dal vento, la bella immagine è scolpita dentro di lui e gli reca nel ricordo una felicità grande e di natura celeste, di cui ancora si appaga.

È un componimento scritto presumibilmente tra il 12 e il 14 dicembre del 1817, a Recanati. Il metro utilizzato è la terza rima, o terzina.