Il primo amore insegna a Giacomo che c’è una melodia dello spirito, una dimensione dell’animo tutta interiore, dove è possibile contemplare belle immagini e trattenerle dentro di sé nella loro pura bellezza. Dallo spazio privato della propria interiorità, lui ogni giorno stende lo sguardo sul mondo che lo circonda. Imprigionata in un corpo brutto, la sua anima è però sensibile e dotata di una grande capacità di immaginazione, per cui si ferma su un passero che dalla vetta di una «torre antica» va fino alla campagna: si lancia con lui in voli impensati e intona un canto che spande per i campi finché non muore il giorno. Gode di una libertà nuova. Il cuore si commuove a tanto spettacolo di bellezza. La primavera brilla nell’aria, le greggi belano e gli altri uccelli nel cielo fanno ghirigori immensi. Medita sulla natura degli uccelli. La loro condizione è preferibile a quella degli uomini e la primavera è il loro tempo migliore. Anche se vivono di meno, sono più vitali e più felici. Il passero però è diverso da tutti gli altri. Ha una inclinazione pensosa. Non vola insieme agli altri. Non ama la compagnia, evita i divertimenti e così passa il tempo migliore della sua vita.
L’animo di Giacomo si ripiega nuovamente su se stesso. Dopo un volo dello spirito nella campagna soleggiata, ritorna nella sua dimensione intima, nella cella del proprio animo. Questa volta non contempla la figura della donna amata che non c’è più, ma riflette sulla propria situazione umana ed esistenziale. La vita del passero gli sembra simile alla sua. Anche lui non si cura dei divertimenti e passa la vita in solitudine.
Si volge a contemplare il giorno che sta per finire. È passato in un lampo e cede già alla sera. È una giornata di festa e tutta la gioventù si appresta a scendere nelle strade del paese per abbandonarsi a canti e a balli. Per l’aria serena si sente il tintinnio della campana e delle scariche di fucili da un casolare all’altro. I giovani lasciano le case e si spandono per le vie: sono tutti felici di stare insieme agli altri e di godere di un istante di gioia che non tornerà più. Lui invece se ne sta in disparte. Soffre per la sua natura solitaria. Il sole che tramonta gli ferisce lo sguardo e cade tra monti lontani, a poco a poco dileguandosi. Tutto sembra che voglia ricordargli che la giovinezza rapidamente passa. Non si vive se non perdendo qualcosa del proprio sé. Ogni giorno qualcosa dell’essere umano muore.
Il bene più profondo che ha l’uomo sono le illusioni, ma tutte si dileguano via via che cresce in esperienza e verità. L’essere umano nasce ricco di tutto ma crescendo diventa povero, e giunto alla vecchiaia, in un percorso a ritroso, non ha più nulla. Lo turba questo pensiero. È il suo cruccio più doloroso, però non si sente chiamato all’azione ma alla riflessione e alla meditazione. Tutta la sua vita si svolge nel chiuso dell’interiorità ed è da lì che scruta le contraddizioni della propria anima.
L’uccellino solitario non si dorrà mai del suo costume, in quanto ogni sua inclinazione è frutto della sua natura. Per gli uomini invece non è così. La loro natura è difficile e contraddittoria. Lui stesso non fa eccezione. La ragione e un’acuta sensibilità lo rendono diverso dagli uccelli ma anche dagli altri uomini. La sofferenza, lo stare lontano dai suoi simili, il pensiero che in vecchiaia si pentirà di non aver goduto per tempo delle gioie della gioventù sono fonte di malessere, ma anche di un torbido e oscuro piacere. Vorrebbe lanciarsi a perdifiato nella vita ma non ci riesce. Solo l’uomo sociale può fare questo, e lui non lo è. Si sente infelice, e la sua esistenza è tutta in se stesso e nella contemplazione delle illusioni. Finiranno con la gioventù, e nella sera che sopraggiunge spande uno struggente canto al tempo che passa e le porta via per sempre.
La prima ideazione della canzone risale al 1819, con probabile composizione tra il 1829 e il 1831, forse a Recanati. Metricamente, è costituita da 3 strofe libere di settenari ed endecasillabi.