Un mite chiarore si diffonde sulla campagna e sulle lontane montagne. La notte è luminosa e senza vento, svela i profili netti e ben definiti delle case. Tra gli orti sorge la luna. Giacomo dalla sua stanza guarda questo spettacolo, che placa il suo animo e gli infonde pace e dolcezza. Le passioni del giorno, l’inquietudine, la fatica degli studi trovano consolazione nelle forme serene della natura, che rivela nell’incanto notturno una recondita bellezza.
La mente corre alla sua donna, a una figura ideale, senza corpo, di pura fantasia, o forse a un incontro avvenuto durante la giornata che si è impresso nella memoria, lasciandogli dentro un’emozione che gli fa ancora bruciare l’anima di passione. Ogni sentiero tace, dai balconi brillano le fiaccole notturne. Lui è sveglio. Vigile. Lei, la sua donna, dorme nelle proprie stanze. Nessuna preoccupazione la affligge, la sua esistenza scorre placida, come quella di tutti gli altri esseri umani. Anche lei è diversa da lui: non sa nulla dei moti della sua anima. È incapace di penetrare nel suo mondo e di comprendere il dramma della sua vita. Non può sapere che gli ha aperto una ferita d’amore in mezzo al cuore. Il destino ha voluto che lui non fosse come gli altri. La natura onnipossente e il cielo benigno l’hanno fatto per il dolore. A lui è stata negata anche la speranza, e i suoi occhi brilleranno sempre solo di pianto.
La sensazione di serenità, che la notte con il suo chiarore gli aveva comunicato, si dissolve. Quella luce che aveva rischiarato le tenebre si offusca. Il cuore di Giacomo si turba e si abbandona a tutta la piena del dolore e del malessere, che rendono la sua vita infelice. Il giorno che è appena passato era un «dì di festa». Fantastica e vede la sua donna mentre dorme. Gode del meritato riposo dopo aver gioito di tutti i piaceri che la vita le ha offerto. Soffre alla constatazione che quelle cose semplici, naturali e normali, siano a lui precluse. Immagina che lei forse, un po’ spinta dalla civetteria giovanile, passi in rassegna gli uomini ai quali è piaciuta. E tra loro c’è sicuramente anche chi è piaciuto a lei. Anche lui avrebbe voluto piacerle, ma sa che non è così. Non è di aspetto gradevole e non può essere amato dalle donne. Loro non possono innamorarsi di lui, e gli studi, il suo grande talento, sono diventati anche una maledizione, una condanna che lo segnerà per tutta la vita. È giovanissimo ma pensa già alla morte. La invoca. La desidera. Il dolore è diventato incontenibile. Gli squarcia l’anima: si getta per terra, grida, freme. Il suo amore non sarà mai ricambiato, e lui non sarà mai felice. La natura e tutto ciò che lo circonda gli appaiono ostili e si sente rifiutato dalla vita. Sono giorni orrendi per lui, benché sia giovane.
Lontano però c’è qualcuno, in quella notte silenziosa, che è ancora sveglio. È l’unica presenza oltre alla sua. È l’artigiano. Lo sente cantare mentre torna alla sua povera casa, dopo essersi divertito con gli altri del paese. Ritorna per un istante, anche nel suo cuore, la serenità. Riesce ad andare oltre il suo dolore personale. Si ferma a riflettere sul destino di tutti gli uomini, che sono in balia del tempo. Nel mondo tutto passa e non lascia traccia. Il giorno di festa è già finito e tra poco arriverà anche quello in cui tutti torneranno al lavoro. Il tempo scorre in maniera vorticosa e cancella anche la sofferenza umana. Nulla è rimasto dei popoli antichi e del grande impero di Roma: il silenzio della notte stende il suo velo di oblio.
Giacomo medita sulla vanità di ogni piacere e si ricorda che un tempo, anche lui, aspettava bramosamente il giorno di festa; ma non appena era passato, si stendeva sul letto: per il dolore restava sveglio fino a tarda notte, e allora gli capitava di sentire un canto che si diffondeva in lontananza per i sentieri e che poco a poco moriva, e gli stringeva di dolore il cuore.
Scritto a Recanati tra il 1819 e il 1821 (o forse nella primavera del 1820), è composto da 46 endecasillabi sciolti.