È giunto il mattino. Tra le imposte si insinuano i primi raggi del sole nella stanza buia. Rinasce dovunque la vita, e la luce fuga l’ombra della notte dagli occhi di Giacomo. In quell’ora antelucana, a metà tra le forme delle cose che cominciano a prendere corpo e a farsi più distinte e la tenebra notturna, si insinua un simulacro umano di evanescente bellezza. In lei, in uno stato tra veglia e sonno riconosce quella che per la prima volta gli ha fatto provare il sentimento d’amore. È una donna reale, che è effettivamente vissuta ma è anche ideale. Viene come una sembianza dall’oltretomba e porta con sé un’amara meditazione sull’esistenza. Al suo apparire dissolve la luce del mattino, riportando Giacomo alla dimensione interiore del sonno, nello spazio interno della stanza e della coscienza, in un guscio di apparenze inconsistenti e di dimenticanza.
La donna, avvolta nello spazio metafisico dell’illusione, gli si avvicina. Lui crede che sia viva e si accalora, rievoca il fuoco della passione che lo aveva fatto ardere di amore per lei. Lei poi, come una Sibilla, gli rivela che è morta, che la sua esistenza è stata spezzata da un destino crudele nel fiore degli anni, in quella gioventù in cui la vita è più dolce e prima ancora che avesse potuto rendersi conto che vane sono tutte le speranze umane. Come una larva che viene dal mondo degli Inferi dove tutto è oblio, gli profetizza la verità nuda e cruda: tutti i mortali prima o poi finiscono per desiderare la morte, ma questa è molto più triste e dolorosa quando con la falce miete le vite dei giovani, infrangendo le loro speranze prima che queste possano fiorire e giungere naturale compimento. I giovani sono ancora inesperti della vita, e la natura cela loro la triste e drammatica verità: non hanno ancora coscienza dell’infelicità comune a tutti gli esseri umani.
La donna, dopo aver svelato a Giacomo in una specie di “surreale” dialogo tra un vivente e un morto l’arida verità, sprofonda nuovamente nel cerchio dell’oscurità da cui è venuta. Lei porta nella sua vita non la speranza della felicità o di un avvenire migliore, ma lo fa regredire verso la disperazione, a una coscienza più acuta della vanità di ogni piacere e dell’impossibilità della felicità. Le sue parole gli spezzano il cuore, e lui soffre indicibilmente per la perdita dell’amata e per la consapevolezza di essere invece ancora vivo. Non la ritroverà più e vorrebbe anche lui poter morire e sottrarre così il capo all’atroce odio del fato, che lo ha condannato all’infelicità. È giovane ma non può godere i piaceri della sua età e teme l’approssimarsi della maturità e della vecchiaia, perché è persuaso che la natura gli riservi dei mali ancora più grandi. Un comune destino lo lega al fantasma che gli è apparso. Entrambi sono stati maledetti dal cielo e dal fato, che li ha condannati a essere infelici. A unirli però non è solo la stessa sorte ma anche un calore di affetti, di una pietà reciproca che, se nella realtà quotidiana è impossibile, lo diventa invece in quella del sogno.
In questa dimensione tutta interiore, confinata in una zona del non essere, c’è ancora spazio per l’illusione. Qui i due si ritrovano e scoprono l’autenticità di un dialogo che non erano riusciti ad avere quando la donna era viva. L’impossibile si fa possibile, e lei gli rivela che mai era stata indifferente da viva alla sua sofferenza. Lui prova a baciarle le mani, ma è a quel punto che il velo del sogno si squarcia. Invano si infiamma e freme d’amore. Lei è un sogno, e per l’eternità le loro «menti» sono state separate dalla dura legge della vita. All’arrivo del mattino il simulacro, come è arrivato, così si dissolve. A Giacomo però resta per sempre negli occhi e gli sembra di vederlo ancora nel tenue raggio del primo sole.
La poesia è stata composta probabilmente tra la fine del 1820 o nel 1821. Il metro usato è l’endecasillabo sciolto.