Giacomo immagina di essere a San Leopardo, in campagna, probabilmente nella villa di famiglia. È lontano da Recanati e dalla vita cittadina, che per lui è causa di ogni male. È alla ricerca di un contatto più genuino con la natura e l’esistenza, e la solitudine gli fa bene allo spirito. Gli arreca quel conforto di cui avverte il bisogno, placa il suo malessere, dà un sollievo anche se temporaneo alla sua inquietudine. Si immerge allora con tutto se stesso in quel mondo. Sente il battito della pioggia sul tetto di casa, la gallinella che gioisce nel pollaio, il contadino che si affaccia sul balcone. Vede il sole che sorge e brilla con i tremuli raggi tra le stille di gocce d’acqua. Riassapora la felicità autentica di una volta. È inebriato da una sinfonia di suoni e di colori. Una freschezza e un’armonia che non aveva mai visto e provato attraversa ogni cosa. La pioggia ha infuso negli alberi un’energia e una vitalità nuova e li ha come trasfigurati. Benedice le nuvole sparse nel cielo, il canto degli uccelli, l’aria fresca e le pianure ridenti. Passa le giornate ad ascoltare se stesso e a esplorare i sentieri della sua anima; a volte si siede su un’altura solitaria, sulla riva di un lago incoronato da piante taciturne e osserva il sole che si riflette nel lago, l’erba, le onde e le foglie degli alberi immoti nell’ora in cui non c’è vento. Quella tranquillità edenica non è interrotta neanche dal volo di un uccello: lì può avere la sensazione che le membra si sciolgano dal corpo, e non siano più animate né dai sensi né dallo spirito vitale, e che si confondano in una quiete antica diventando tutt’uno con il silenzio del luogo.
Il contatto con la natura, l’allontanamento dalla città e l’esperienza del silenzio hanno sull’animo di Giacomo un effetto benefico. Sono l’unico antidoto contro la noia o l’odio, cioè il poco amore per se stessi, che sono il frutto dell’esperienza delle cose e della scienza e che hanno coperto la voce della natura. In mezzo alle delizie della campagna rientra in amicizia con tutti quegli esseri che non gli hanno arrecato alcun male, che non hanno altra colpa se non quella di essere stati sottoposti al vaglio della ragione, la quale li ha esaminati e ha colto il senso della loro finitudine. Le cose che sono intorno a lui restano benefiche e grazie a loro l’immaginazione può risorgere e con lei rinascere la poesia e l’intensità del cuore. Allora lui sprofonda in una natura remota, in un tempo in cui ancora non è sorta la vita dell’uomo. Si risveglia l’emozione che un tempo gli ha fatto bruciare il cuore di amore, che l’ha fatto rovente, caldo di passioni, ma anche la delusione cocente, la fredda mano che l’ha reso sciaguratamente di ghiaccio e incapace di provare sentimenti.
In un moto tutto interiore, la sua mente vola a quel dolce e irrevocabile tempo in cui, durante la gioventù, gli si è squadernata davanti la scena del mondo. Nella solitudine della natura il suo cuore, nonostante le delusioni, ritrova l’antico ardore: specie quando si ferma a guardare i campi assolati, la taciturna aurora, le case, le campagne e i colli che brillano al sole; o quando incontra lo sguardo di una bella donna; o quando in una notte quieta si ferma a contemplare la deserta terra; o infine sente lontano il canto notturno di una fanciulla. In quegli istanti la sua anima palpita di bruciante vita.
A San Leopardo ritrova anche l’antico dialogo con la luna: per lui apre alla vista lieti colli e spaziosi campi. Volge allora lo sguardo a lei, regina e madre benigna della notte, creatura siderea e spettatrice dei suoi affanni: spesso lo vedrà solitario e muto errare per i boschi e sulle rive dei fiumi o sedere durante la notte sopra l’erba verde.
Si tratta di una poesia composta nel 1821, a Recanati, che segue l’andamento ritmico dell’endecasillabo sciolto.