XX

A un certo punto della sua esistenza, Giacomo aveva scoperto il deserto del cuore. Il fuoco della vita dentro di lui si era spento. Da ragazzo, pur nei dolori e nella consapevolezza di essere afflitto da diversi mali fisici, riusciva a trovare sempre la gioia di un dialogo autentico con il proprio mondo interiore e con la natura. Soffriva, ma la voce della bellezza e della poesia erano vive nel suo spirito. Poi qualcosa era cambiato. Il dolore si era mutato in disperazione. L’armonia antica con la madre si era spezzata. Quelle belle immagini che lo consolavano nei giorni tristi lo avevano abbandonato e gli si era schiuso davanti il mondo nella sua geometrica freddezza. Il cuore era diventato indifferente a tutto. La voce della natura non parlava più in lui e aveva perso quel caro immaginare, che lo faceva palpitare e sospirare, e quelle fantasie poetiche che gli facevano dono del miracolo del verso. Non era più capace di concepire nessun desiderio. Neanche la morte lo spaventava più. Tra la morte e la vita non vedeva più alcuna differenza; e anche nel dolore, che a volte pure gli regalava degli istanti di piacere, non trovava alcuna consolazione. Non credeva che quelle belle immagini sarebbero mai risorte e si preparava a dedicarsi negli ultimi anni della sua vita agli studi filosofici e all’indagine dell’«arido vero».

All’improvviso però a Pisa, nel 1828, in una certa strada silenziosa sente di nuovo la voce di una volta. Pensava che nel fiore della giovinezza fossero per sempre venuti a mancare quei cari moti dell’animo, che ci fanno sentire grata qualunque cosa è nel mondo. Il cuore gli si era fatto freddo, impenetrabile, indifferente e incapace di sospirare dinanzi alla bellezza del mondo. La vita in quello stato gli appariva muta, inanimata e la terra arida, chiusa in un gelo eterno. Il giorno per lui era diventato un deserto e la silenziosa notte tacita e oscura. La luna e le stelle si erano spente in cielo e non trovava più alcun diletto a parlare con loro. Non gli facevano compagnia nei vagabondaggi notturni e non alleviavano il peso della sua solitudine. Però quel pianto, che gli nasceva spontaneo per il nuovo stato in cui si trovava, veniva dall’antica capacità di provare le passioni. Nel petto il cuore non era morto, ma solo assopito. Anche la fantasia si era solo infiacchita e aspettava che risorgessero le antiche immagini. In quel periodo però lo lasciava indifferente la «rondinella» che intorno alle finestre cantava il nuovo giorno, la solitaria villa nel pallido autunno, la campana del vespro o il sole che fuggiva. Se si trovava per un sentiero solitario e vedeva «brillare il vespero» o se udiva per la valle il canto flebile dell’usignolo, ciò non suscitava in lui alcuna commozione. Viveva in un sopore del corpo e della mente così profondo che neanche gli sguardi furtivi, erranti, o il contatto di una mano nuda di una donna riuscivano a sciogliere il gelo della sua anima.

Una forza nuova lo fa risorgere dalla grave, immemore quiete. Risorgono i moti soavi, le immagini, i palpiti, le felici illusioni, che sono l’unica luce dei suoi giorni. Ritorna a vivere la pianura, il bosco, il monte. Gli parlano le fonti, il mare. Dopo tanto oblio riesce a piangere di nuovo. Dà sfogo a tutto il male che ha dentro, e al suo sguardo il mondo appare cambiato, luminoso, come non lo era più da tempo. È finalmente libero. Nonostante la sventura e gli affanni, il suo cuore vive ancora e, finché palpiterà, non considererà più ostile il cielo e non nutrirà più alcun odio per la vita.

Si tratta di un componimento scritto a Pisa nel 1828, formato da 20 strofe di settenari.