Il mondo del piccolo borgo di Recanati si è sedimentato nella memoria di Giacomo e si è fatto mito, ricordo, rimpianto per una stagione che non c’è più. Da quella terra oscura riemerge il volto di Silvia e porta con sé il segno della giovinezza che è passata, che è volata in un baleno. Silvia è morta, ma vive ancora. È entrata a fare parte delle sue fantasie poetiche, dei moti del suo cuore, del suo caro immaginare; e così parla con lei evocandola da regioni remote del suo essere e rivede ancora una volta il suo bel viso e i suoi occhi «ridenti» e schivi agli sguardi dei giovani amanti. È davanti a lui come un tempo e passa le giornate cantando: nelle vie del paese si spande il suono della sua voce, fresca e nel pieno del vigore della vita. È ignara del futuro e di ciò che la vita le riserva e va incontro al domani con spensieratezza.
Entrambi sono come allora nel «maggio odoroso», nella primavera dell’esistenza, e la natura fiorisce in tutto il suo incantato e incontaminato splendore. Ogni cosa a Silvia appare bella, avvolta da un candore che mai ritornerà. E anche per lui è così. Entrambi sono giovani e speranzosi e trepidanti per il lieto avvenire: Giacomo ogni tanto lascia gli «studi leggiadri», le «carte» su cui passa buona parte delle sue giornate, si affaccia sul balcone paterno, ascolta la sua voce che canta e la vede che tesse la «faticosa tela». Il cielo è sereno, le vie sono bagnate dalla luce del sole e lontano ci sono gli orti, i monti, il mare. Medita e tiene per sé nel cuore la passione d’amore che gli brucia nel petto. Sa che lei mai potrebbe ricambiare il suo sentimento, ma la sua gioia è tutta nel contemplare in maniera candida, verginale, la sua gioventù che fiorisce. Ciò gli suscita nella mente pensieri soavi e la speranza di un avvenire radioso. Il cuore è puro, intatto, non conosce ancora la pena cocente della delusione e della disillusione. È inesperto degli uomini e soprattutto del mondo. La vita umana gli sembra ricca di attese e di aspettative.
La visione è così forte che sembra che quel tempo ci sia ancora. E invece non è così. Sembra presente, ma invece è solo ombra e passato. Silvia vive ormai soltanto nello spazio della sua coscienza, e quelle speranze in cui entrambi credevano sono state tutte vanificate. A questo pensiero, un dolore acerbo e sconsolato gli stringe l’animo, e l’immagine della giovane fanciulla viene fugata dal senso della sofferenza e della sventura. La natura non è una madre buona ma malvagia, che inganna i propri figli e che non mantiene quanto ha promesso. Il senso del male e del nulla lo invade. Le illusioni sono naufragate per sempre, sono un pallido miraggio di un tempo che non c’è più. Vorrebbe tornare indietro, ma non è possibile. Una linea d’ombra si stende inesorabile alle sue spalle. Qualche pallido frammento però riaffiora e ancora una volta durante le feste del paese rivede Silvia, che non si cura di chi loda i suoi capelli scuri; evita i discorsi d’amore e gli sguardi brucianti di desiderio dei giovani. Non può sapere che la sua giovane esistenza sarà falciata dalla morte e che il fato troncherà il fiore della sua esistenza prima che possa assaporare le gioie della vita.
Il destino di Giacomo però non è molto diverso da quello di Silvia. Anche le sue speranze tra poco moriranno. Lei è morta per una malattia, lui invece non ha mai potuto godere della giovinezza. A questo pensiero la Silvia dei suoi ricordi svanisce. Non è più la fanciulla che ha incontrato e conosciuto da ragazzo, ma si fa simbolo delle sue illusioni, della giovinezza, delle speranze che sono cadute all’«apparir del vero», all’arrivo dell’inverno della vita, della cruda realtà che gli mostra in un gesto ultimo «la fredda morte» e una tomba deserta, che in un futuro non lontano lo attende.
È una canzone libera scritta nel 1828 a Pisa, composta da 6 strofe di settenari ed endecasillabi.