XXII

Giacomo è di nuovo a Recanati nel 1829 e si commuove dinanzi allo spettacolo di un cielo di fine estate. Vede davanti a sé la costellazione dell’Orsa, scintillante, e dalla casa paterna ne contempla lo splendore e la maestosità. Si rivolge a lei, come da bambino. Le stelle sono lontane, eppure vicine. Palpita il suo animo al ritmo dell’universo, medita su tutta la sua esperienza esistenziale, su come proprio in quella casa, nella quale non pensava mai di fare ritorno, ha visto la fine di ogni sua gioia. Però non è infelice. È una notte serena ed è in pace con la natura, anche se ora sa, perché la scienza glielo ha rivelato, che è regolata da principi meccanici.

Quel mondo come un tempo gli parla e gli ricorda che, durante l’infanzia, dinanzi al fascino del cielo si metteva in moto una fantasmagoria di sensazioni vive e ardenti. Sedeva sull’erba verde e contemplava la volta celeste, ascoltava il canto della rana che veniva dalla campagna. Le lucciole erravano tra le siepi e sulle aiuole, il vento sussurrava nel bosco tra i viali odorati e i cipressi. Dalla casa gli giungevano, in un continuo susseguirsi di domande e risposte, le voci dei servi, che svolgevano tranquillamente le loro mansioni. Come allora, quel mare lontano, che immagina di vedere al di là dei monti azzurri, gli suscita pensieri immensi e dolci sogni. Pensava che al di là di quelle montagne, con la speranza un giorno di varcarle, ci fossero mondi misteriosi e affascinanti e l’arcana felicità. Era nel fiore degli anni, non conosceva qual era il suo destino e quante volte la sua esistenza dolorosa e priva di diletti avrebbe volentieri dato in cambio della morte. Né il suo cuore gli diceva che avrebbe consumato la gioventù a Recanati, in mezzo a gente zotica e vile, che aveva in odio ogni forma di cultura e sapere e che lo odiava e lo fuggiva. Lì è stato costretto a passare gli anni senza amore, senza vita, e a spogliarsi di ogni pietà e virtù.

Si alza il vento. Giacomo sente il suono dell’ora segnato dalla torre del borgo. Si ricorda che da bambino passava le notti sveglio per pericoli di ogni sorta (brutti sogni di cadaveri e strepiti notturni) e aspettava trepidante il mattino: anche allora quel suono gli infondeva conforto. La loggia rivolta dove il sole tramonta, il sole che nasce nella solitaria campagna, le finestre su cui sibilava il vento, tutto a Recanati evoca un dolce «rimembrare», un pensiero del presente doloroso e un vano desiderio del passato. Gli richiama alla mente il tempo delle illusioni che trasfigurava le cose: le illusioni che gli apparivano piene di dolcezza e quell’età in cui il giovane amava la vita come un inesperto amante e le attribuiva una bellezza divina che in realtà non ha.

Il rientro a Recanati coincide anche con il ritorno ai suoi sogni, alle speranze di un tempo, a quegli «ameni inganni» della gioventù che, per quanto siano cambiati i suoi sentimenti, non riesce a dimenticare. La sua vita è dolore, la gloria e ogni tipo di piacere sono pure illusioni ma, ogni volta che ripensa a quel caro immaginare di quando era fanciullo, sospira. Quel pensiero, pur nella sofferenza più cupa e nell’idea della morte che un giorno sopraggiungerà, tempera l’affanno e lo rende meno doloroso. Solo questo gli resta. Null’altro. E così vaga nella notte seguendo l’onda dei ricordi. Ripensa ai primi amori. Arriva sotto la finestra dove un tempo si affacciava Nerina. Ancora la bagna il raggio triste delle stelle ma lei, che era il suo eterno sospiro, non c’è più. È morta e su di lei, come su ogni cosa, il tempo ha steso il suo velo. Ad altri, non più a loro due, tocca in sorte di abitare quei colli. E lui altro non può fare che evocarla nel doloroso ricordo come una cara compagna dei suoi tristi e cari sensi, dei moti del suo cuore, del suo «vago immaginar».

Composta nel 1829 a Recanati, la poesia ha la forma di una canzone libera di 7 strofe di endecasillabi sciolti.