XXIII

È una notte d’estate. In un deserto dell’Asia, un pastore seduto su una pietra vede nascere in cielo la luna. Accanto a lui c’è il suo gregge, che lo segue ovunque. Volge lo sguardo alla volta celeste. Quella notte la luna è più bella e luminosa del solito. Lo bagna con la sua luce, stende il velo d’argento sulle pietre, sulla sabbia rovente. Il pastore alza lo sguardo e le domanda che cosa fa in cielo. Ogni sera sorge e con il volto benevolo contempla dall’alto i deserti. Poi nuovamente, passata la notte, tramonta e ritorna da dove è venuta. Dall’eternità non fa che ripercorrere i sentieri del cielo. E lo fa seguendo un ordine che è immutabile, stabilito dalla natura, e che nessun vivente può cambiare. Il pastore si commuove. La vita della luna è molto simile alla sua. Anche lui si alza nel primo mattino, all’arrivo della prima luce del giorno, quando la tenebra della notte si dissolve e comincia a girare in lungo in largo con il gregge; non riposa se non la sera, e nel suo cuore nessun’altra speranza coltiva.

Il pastore si domanda che significato abbia la sua vita e quella degli astri in cielo. Quale sia il fine della breve esistenza umana e del corso invece immortale della luna. Al pastore la vita umana appare come il viaggio di un vecchio canuto, infermo, vestito male e scalzo che, dopo aver camminato con un gravissimo carico sulle spalle per montagne altissime, dopo aver attraversato luoghi sommamente aspri e faticosi e dopo aver sopportato la neve e il gelo, arriva là dove era il fine ultimo di tutte le sue fatiche: all’abisso orrido della morte. Per lui questa è la vita mortale, e altra speranza per l’uomo non c’è. La nascita stessa per l’uomo è dolore, perché già al momento di venire alla luce corre il rischio di morire. Il suo primo vagito non è di gioia ma di tormento e pena, motivo per cui i genitori lo consolano di essere venuto alla vita. Poi, quando cresce, gli fanno coraggio e cercano di aiutarlo ad accettare quella che è la condizione umana. Perché gli esseri umani continuano a perpetuare la vita se questa porta loro solo infelicità? si domanda allora il pastore.

La luna non è mortale, e forse poco le importa delle sue parole. Lei sa ciò che, invece, ignora l’umile pastore. Lei sicuramente sa che cosa è la vita terrena, la morte, lo scolorire del viso di un uomo nell’ultimo istante. Lei sicuramente conosce il perché delle cose, perché il giorno nasce e tramonta e perché tacito e infinito scorre il tempo. Quando il pastore la vede stare muta sulla pianura deserta, al limite con l’orizzonte, sembra che lei lo segua mentre lui si sposta con il gregge. In quella solitudine desolata, nel cielo ardono le stelle e si interroga sulle cause ultime dell’universo. Si domanda lui cos’è e per quale fine tutte le cose, quelle terrene e quelle celesti, sono continuamente affaticate da una forza che poi le fa tornare sempre allo stesso punto. Nonostante si sforzi, non riesce a trovare alcuna ragione che giustifichi l’esistenza sua e quella degli altri esseri viventi. Ma la luna di certo conosce il tutto. Il pastore sa solo che per lui «la vita è male».

Un’ombra di amarezza lo avvolge, inondando tutta la scena. Si volge allora con accenti accorati e pena struggente al gregge. Forse, pensa, il gregge è felice. Non è consapevole della sua miseria e subito dimentica. La sera giace lieto sull’erba e non sa cos’è il tedio. Perché – vorrebbe domandarle – lui invece, se giace in ozio, è assalito dalla noia? Ma il gregge tace. La luna scompare nel cielo. Sul pastore scende un cono di tenebre. Vorrebbe spiccare in cielo e poter contare le stelle ma la terra da cui viene lo chiama. Un accesso di lucidità gli squaderna però la verità ultima sulle cose: tutti i viventi sono infelici per volontà di un malvagio ordine cosmico, e per loro è fonte di male il giorno della nascita.

La data di composizione, come si può leggere nell’autografo, è tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830. Metricamente, si tratta di una canzone libera di 6 strofe di endecasillabi e settenari.