XXVII

La passione, che non dà pace alla mente, svela a Giacomo una verità che già conosceva da tempo: non c’è un principio di bene che si contrappone al male ma entrambi dipendono da una sola potenza, una tremenda energia che regola il mondo e può risolversi per l’uomo in felicità o infelicità. Amore, il signore del suo spirito che gli aveva fatto cantare la bellezza e dava consolazione al suo cuore, gli fa conoscere ora un dolore che non aveva mai provato, più acuto, più oscuro, cieco e inesorabile. Giacomo precipita in un abisso dal quale non vede alcuna via d’uscita e si fa amante della Morte.

Amore e Morte sono fratelli. Sono stati generati insieme e sono ciò che di più bello e tremendo esista sulla terra. Tra le stelle che brillano nell’alto e immenso cielo, al di sopra di questi due fratelli c’è solo il fato, il quale ha disposto che i viventi debbano essere infelici. Da Amore nasce la felicità suprema, l’unica che l’uomo possa provare sulla faccia della terra e si possa assaporare nell’intero universo. La Morte mette fine invece a ogni male. La gente vile la teme più di ogni altra cosa e la rappresenta come una donna brutta. Lei invece è una fanciulla meravigliosa che accompagna spesso Amore. Entrambi sono avvolti in un’aura di bellezza eterna, che non può essere sfiorata dalle miserie umane. Queste due divinità volano insieme al di sopra del cammino della vita mortale.

Quei cuori che vengono percossi dalla potenza di Amore si elevano al di sopra della vile umanità: diventano saggi, valorosi e disprezzano ogni pericolo. L’energia creativa e «dionisiaca» di Amore, come un’immagine nello specchio, si riflette però su se stessa. Non riesce a esprimersi nella totalità dell’universo che lo circonda. La forza di quel sentimento dura poco, subito si fa languido e stanco, e Amore come Narciso si specchia nel fiume vedendo la propria ombra. Il desiderio di lei lo invade e si muta in ansia di morte. Senza quella infinita e unica felicità che la sua mente immagina, la vita gli sembra a quel punto un deserto e la terra inabitabile. Davanti al fiero desiderio che ruggisce come un tuono, brama la quiete e non ha altra via di fuga che il porto della morte.

Amore con il suo potere avvolge ogni cosa e l’invincibile passione si impadronisce dell’animo dell’innamorato. Tormentato dal desiderio, invoca la morte e trascorre insonne le notti. Se sul far dell’alba ha un po’ di ristoro, non desidera rivedere più l’amara luce del giorno. Quando la campana suona a morte, con sospiri che gli vengono dal profondo del petto invidia colui che se ne va. Perfino l’umile plebe, il campagnolo ignorante, perfino la «donzelletta» timida e schiva alla quale si rizzavano i capelli alla sola parola «morte», quando sono invasi dalla passione d’amore comprendono la nobile bellezza del morire e non hanno più paura della tomba. L’insegnamento di Amore brucia così intensamente che induce l’innamorato con violenza a darsi la morte. Il contadino e l’umile ragazza si suicidano, ma la gente comune e vile, alla quale il cielo darà pace e vecchiaia, non intende il fuoco che arde nelle loro viscere e così li deride.

Amore e Morte sono le uniche due divinità che possano rendere fervidi, felici e animosi gli ingegni degli uomini: Giacomo ha provato la potenza di Amore e invoca quella della bella Morte. Le domanda di ascoltare le sue preghiere e di chiudere ormai i suoi tristi occhi: l’attende non come un uomo disperato ma con la fronte alta, renitente al destino, pronto a non colmare di lodi e a non benedire, come invece fa la gente vile, la natura, che gli manda continue pene e si bea di colorarsi la mano nel suo «sangue innocente». Non aspetta altro che di deporre ogni speranza e di poter piegare il volto, addormentato, sul suo bel seno verginale.

La data di composizione è il 1833, a Firenze. Si tratta di una canzone libera formata da 4 strofe di endecasillabi e settenari.