XXVIII

L’amore per Fanny ha fatto bruciare di emozioni violente il cuore di Giacomo. Gli ha fatto conoscere il potere della passione ma ha anche acceso in lui un vivo desiderio di morte, e quella energia positiva, che gli infondeva speranza e ardore, si è ora mutata in una forza negativa che virilmente ha accettato. Così anche l’ultima illusione è crollata. Altro a questo punto non gli resta che un dialogo intimo con se stesso, una sorta di meditazione amara e un mesto resoconto sulla sua dolente esperienza esistenziale. Il suo inesauribile desiderio di conoscenza l’aveva spinto ad aprirsi al mondo; deluso, ora tenta un estremo ritorno al punto di partenza, cioè a quel nodo di pulsioni talvolta tra loro confuse e inestricabili che è la sua coscienza. È l’unico approdo che può aiutarlo ad anestetizzare il male. La vita gli si è mostrata in più occasioni in tutta la sua vanità, e nulla può più consolarlo. Tutto ha inizio dal suo inquieto cuore, lì il principio e la fine di ogni suo affanno. E dopo quest’altra, ancor più cocente delusione, potrà avere pace per sempre. Finalmente sa che la vita non è che uno stato violento e che la natura non ha previsto nei suoi fini ultimi che l’uomo sia felice. Quel «pensiero dominante» che aveva invaso la sua mente non era che un’illusione. Non è possibile per l’uomo un piacere pieno, totalmente appagante.

Ha capito che tutto quanto turba l’animo umano poi non fa altro che spargere altre piaghe sul suo spirito già provato da infinite pene. È una violenza continua, alla quale l’uomo è esposto e che non cessa mai. E così è stato anche questa volta per lui. Aveva creduto nell’amore, in qualcosa di eterno che potesse dargli la felicità, ma questa illusione è morta e solo in se stesso, in un ultimo ripiegamento nella propria interiorità, nel sonno eterno dello spirito, può sperare di trovare un po’ di quiete. Non brama più nulla, se non l’annientamento della passione. Il piacere vero è un oblio della vita, una specie di sonno, un’imitazione dell’insensibilità della morte.

Il suo cuore ferito si rifiuta di partecipare ancora una volta al respiro universale della natura e vuole ritornare all’essenziale, alla regione oscura del non essere e lì desidera posare per sempre. Brama ardentemente di andare oltre se stesso e di spegnersi per l’eternità. Se non batterà più, se in lui non palpiteranno più sentimenti e se si farà puro moto meccanico, indifferente a tutto, potrà trovare quel nulla in grado di dargli un po’ di serenità. Vuole chiudersi e rifugiarsi in un guscio nudo e scabro, in una terra oscura e inesplorata di pallide e grigie ombre. Nella negazione del respiro del mondo, dell’eterno, delle vaghe apparenze, dei fuochi fatui e dei simulacri che tanto lo avevano fatto vibrare, regredisce a uno stadio anteriore al tempo della sensibilità e della coscienza, per farsi parte di tutto ciò che esiste. Vuole farsi forma primigenia, assenza, puro palpito, sensazione fisica, silenzio prima della parola.

Giacomo ama profondamente la vita e, non riuscendo a raggiungere la pienezza alla quale aspira, vuole convincersi che le passioni, il mondo, non sono altro che vanità. Vuole incidere questa verità a lettere di fuoco per sempre nel suo animo. Ha ancora un grido di disperazione, poi imporrà al suo spirito di tacere per sempre. L’amore è finito ed è rimasta quella bellissima fanciulla che lo accompagnava, cioè la Morte, senza più alcuna sembianza umana. Ha assunto le fattezze di una forza maligna e ignota che governa l’intero universo: con la sua nefasta energia invade ogni cosa e si è fatta signora del suo spirito. Lei è l’ultimo e unico bene che Giacomo spera di ricevere dalla vita. Dopo aver conosciuto cos’è l’esistenza, non desidera altro che acquietarsi nel grembo del nulla per sempre.

La composizione di questi versi va collocata, probabilmente, dopo il giugno del 1833, a Firenze. Quanto al metro, si tratta di una strofa libera di 16 versi di endecasillabi e settenari.