XXXII

Giacomo medita e si interroga sul ruolo dell’uomo nella società e nel cosmo. È a Napoli e la Toscana è lontana nel 1835. Lo storico e pedagogista Gino Capponi e gli altri amici dell’«Antologia» credono nel progresso e in scienze come la statistica e l’economia. Sono convinti che le nuove cognizioni tecniche renderanno la società e l’uomo migliore e più felice di prima. Lui invece pensa che il progresso tecnologico e la diffusione del “capitalismo” non appaghi il desiderio di felicità degli uomini. Scrive quindi fingendo di rinnegare le sue idee (palinodia) e fa una critica feroce a tutti i paradigmi della modernità. Tutti i giornali del mondo annunciano una nuova età dell’oro e promettono strade ferrate, amore universale, commerci tra i popoli, macchine a vapore, caratteri tipografici ed epidemie di colera, che renderanno più vicini i popoli, sebbene questi siano lontani tra loro e soggetti a climi diversi. Tutti si aspettano che i pini e le querce stillino latte e miele, danzino al suono di un valzer e cominci così la pace universale. Non c’è niente di più falso. Accadrà invece proprio il contrario. La nuova era non porterà la pace, e l’uomo non deporrà le armi. La nuova età dei commerci tra i popoli sostituirà l’avidità d’oro e d’argento con quella per le cambiali e i biglietti di banca, e gli uomini faranno guerre in tutto il globo per il pepe, la cannella e la canna da zucchero.

Chi crede che la fine delle vecchie monarchie, l’avvento al potere della classe borghese e la nascita di nuove forme di governo (la repubblica) renderanno migliore il mondo, si sbaglia. L’uomo, qualunque saranno le istituzioni politiche, resterà sempre lo stesso, e il vero valore e la virtù saranno alieni dagli affari politici ed economici. Chi pratica la frode e l’iniquità continuerà a soverchiare i più deboli, sia che il potere sia accentrato nelle mani di uno solo (monarchia), sia che sia diviso tra più persone (repubblica). Questa legge di natura non potrà essere cancellata né dalle scoperte di Alessandro Volta né di Humphry Davy, né ci riuscirà l’Inghilterra con tutte le sue macchine; né l’Ottocento con tutta la sua fiumana di scritti politici pari al corso del Gange. Chi è buono sarà sempre infelice, chi è vile e imbroglione sarà invece in festa e vivrà negli agi, contro i giusti si alzeranno la calunnia e il livore.

È la più grande menzogna del secolo l’idea che la felicità consista nell’estensione a tutti di alcuni benefici materiali, quali la possibilità di indossare vestiti di cotone; di adornare le case con leggiadri tappeti, seggiole, canapè, sgabelli, mense e letti; di potersi spostare in breve tempo da un paese all’altro; di essere illuminati dalla luce elettrica nelle città. Sono falsità che insegnano i giornali, i quali a breve con la nascita dell’industria della stampa saranno distribuiti su larga scala, saranno l’anima e la vita dell’universo e l’unica fonte di sapere per l’essere umano. La cultura, ridotta a merce e a tecnica, perderà la propria libertà e sarà subordinata ai bisogni del secolo e del mercato e non più alla ricerca della verità. L’uomo moderno invece non solo non può realizzare la felicità del singolo, ma neanche quella di tutto il genere umano. Egli è nulla, e niente può contro la natura che come un fanciullo crea e distrugge. Questa è l’unica verità che andrebbe insegnata. È l’«arido vero» che ha appreso durante tanti studi ma sa che è sgradito al suo tempo, che vuole intellettuali servi del poteri, adulatori e disposti a cantare la speranza ottimistica di realizzare un’umanità felice.

A conclusione della palinodia, Giacomo finge perciò ancora una volta di essersi ricreduto e di voler elogiare e adulare la speranza della felicità, che sta per tornare sulla terra come nell’età dell’oro. Ribadisce così di nuovo la sua missione di intellettuale laico e libero, aperto e indipendente, critico rispetto alla modernità e a qualunque forma di ottimismo che imbrigli la ricerca di senso dell’uomo in facili e accomodanti risposte.

La data di composizione è da collocarsi probabilmente nel 1835, a Napoli. Il metro usato è l’endecasillabo sciolto.