Giacomo nel 1836 si sposta con Antonio Ranieri nella Villa Ferrigni di Torre del Greco. Passa le notti a leggere e a volte si ferma a guardare la luna che scende sopra le campagne e inargenta le acque. È primavera e la natura, dopo il suo ciclo di morte, sta rinascendo: nell’aria aleggia già Zefiro, un lieve venticello che porta i profumi dei campi che sorgono lì all’ombra del Vesuvio. La luna è giunta all’orizzonte, le ombre creano figure indefinite e irreali apparenze sulle onde quiete e blu notte del mare, tra i rami, le siepi e le collinette che si estendono rade intorno a gruppi di case e che si spargono per la campagna solitaria e silenziosa. Poi la luna tramonta e la luce fugge via e il mondo si scolora. Spariscono in un baleno tutte le ombre, sulla valle cala l’oscurità e il monte si veste di color bruno. La notte resta priva del chiarore lunare e il carrettiere, che si trova ancora sulla strada, canta una triste melodia salutando così la luna, che lo ha guidato nel viaggio notturno.
Come l’astro della notte in un baleno si eclissa lasciando la notte senza la sua luminosità, che indica agli uomini la strada durante il loro cammino, così passa nella vita dell’uomo la giovinezza, che dura un lampo: prima che gli esseri umani ne abbiano consapevolezza, è già finita. Con lei vengono messe in fuga le ombre e le sembianze delle illusioni, le speranze che la vita riservi agli uomini nel corso dell’esistenza la felicità, su cui trova sostegno la mortale natura umana. Una volta che è passata, però, la vita resta come la notte «abbandonata» e «oscura». In lei porgendo lo sguardo il viandante smarrito, privo ormai della luce della giovinezza che lo guidava durante il cammino, cerca invano la meta o la ragione di ciò che ha ancora da vivere. Da allora sarà estraneo agli uomini e alla terra stessa. Una volta che sarà uscito dalla gioventù, perderà anche la stessa capacità di comunicare e di entrare in relazione con gli altri. Non riuscirà più, come prima, a esercitare una sorta d’influsso sulle altre persone e sarà circondato da creature sensibili che saranno indifferenti a lui. Gli dèi non sono stati generosi con gli uomini e la natura non ha fatto altro che spargere pene a larga mano. La condizione umana sarebbe parsa infatti al cielo troppo fortunata e lieta se la gioventù, che pure è caratterizzata da infinite sofferenze, fosse durata per tutta la loro esistenza o se la morte, la quale colpisce ogni essere vivente, non arrivasse dopo la dolorosa vecchiaia, che è il peggiore di tutti i mali. In questa stagione, anche se il desiderio è ancora intatto, è morta però per sempre la speranza, e i sensi sono incapaci di provare piacere. I dolori dell’uomo sono sempre più grandi e all’essere umano non è data la possibilità di sentire più alcun bene.
Le collinette e le pianure però sono più fortunate dell’uomo. Sono assorte in una specie d’incoscienza e di ordine naturale che si ripete ciclicamente. Tutto ciò che muore rinasce: alla primavera segue l’estate, l’autunno e l’inverno, poi tutto ricomincia. Così è anche per la luce. Per quella notte lo splendore della luna, che inargentava il velo della notte, è tramontato ma le montagne e le pianure non saranno orfane per molto tempo del suo chiarore. Nel giro di poche ore, vedranno a oriente sorgere l’alba, e il cielo sarà imbiancato nuovamente. Nascerà anche il sole e con le sue fiamme possenti lancerà nel cielo folgori di luce che inonderanno, come lucidi torrenti, gli spazi celesti e tutta la terra. Lo stesso purtroppo non accadrà per l’uomo. Non appena la bella giovinezza sarà finita, non si colorerà più di nessun’altra luce né di altre aurore. Sarà costretto ad attraversare il resto dell’esistenza, tormentato da sofferenze di ogni tipo e senza il conforto delle illusioni, fino a quando non giungerà quella notte che oscura tutte le altre, cioè la morte.
Scritta nel 1836 presso Torre del Greco, è una canzone libera costituita da 4 strofe di endecasillabi e settenari.