XXXIV

Giacomo da Villa Ferrigni, nel 1836, guarda la schiena arida del Vesuvio su cui non cresce altra pianta che la ginestra. Le stelle fiammeggiano in cielo e si specchiano nel mare lontano. Sembrano dei puntini quasi invisibili e invece sono immense, e rispetto a loro sono nulla la terra, il mare e la stessa galassia in cui gli esseri umani vivono. Dalla bocca del Vesuvio molti secoli prima uscirono, come da un utero tuonante, ceneri, pomice e sassi che scesero in bollenti ruscelli per il fianco della montagna e ricopersero, in un’immensa piena, le popolazioni stanziate sulla costa. Sullo strato di pietra, sotto cui sono sepolte le città antiche, ne sorgono altre e pascola la capra.

Sono passati più di mille e ottocento anni da quando è avvenuta la distruzione di Pompei ed Ercolano, ma il «villanello», che coltiva i vigneti che a stento allignano in quei terreni dalla zolla morta e incenerita, leva lo sguardo alla vetta che minaccia di distruggere di nuovo ogni cosa. Sale sul tetto e la notte osserva la lava riversarsi dal grembo che ribolle di fuoco sul dorso arenoso, su cui di lontano riluce la marina di Capri e il porto di Napoli e Mergellina. Il bagliore funereo rosseggia nell’ombra e riverbera per i colonnati mozzi e i teatri vuoti di Pompei. Il Vesuvio ha lasciato, al posto delle spighe biondeggianti di grano e dei campi fiorenti, le ceneri infeconde e la dura pietra, dove si nascondono la serpe e il coniglio. Lì dovrebbero recarsi coloro che sostengono le sorti magnifiche e progressive dell’umanità, per constatare di quale potenza è capace la natura e come è fragile l’uomo.

La civiltà, dopo la fine dell’età buia del Medioevo, era risorta ma il secolo di Giacomo vigliaccamente ha rifiutato il pensiero antico che era stato riscoperto durante il Rinascimento, quando si era capito che la natura è regolata da processi meccanici, e non si cura della felicità dell’uomo, e che l’esistenza è di per sé uno stato di sofferenza. Gli esseri umani, pur sapendo che sono nati per dover morire e che il fato li nutre di continue e incessanti pene, pensano con fetido orgoglio che sono stati fatti per godere e, addirittura, osano preconizzare l’avvento di «eccelsi fati» e di nuove felicità. La natura potrebbe distruggere l’umanità con un’epidemia, un maremoto, un terremoto e così non ne resterebbe neanche il ricordo; eppure questa continua a illudersi, schiava dell’ombra della propria superbia, di essere eterna. Un’umanità nobile e libera ammette invece il male che le è toccato in sorte, soffre con grandezza e non accusa delle sue sofferenze gli altri uomini, che gli sono fratelli nel dolore, ma la natura. Contro di lei, in un comune spirito di fraternità laico, si confedera e conduce una guerra comune, porgendo aiuto a quegli uomini che ne hanno bisogno.

La ginestra è il simbolo di questo ideale che dovrebbe animare la modernità, al posto di una sterile idea di progresso e di dominio sulla natura; ed è il simbolo anche di dignità, nonostante le avversità della vita, e di un disperato amore per l’uomo. Questa pianta è abitatrice dei deserti e cresce dove c’è la distruzione e il nulla. L’aveva già incontrata a Roma e l’ha ritrovata, come un segno premonitore d’indecifrabile e oscura speranza, a Torre del Greco, alle pendici del Vesuvio. Non è un caso che sia lì, perché ama i luoghi abbandonati dal mondo e infelici: consola nella disumanità del mondo e nella distruzione della natura, resiste alla morte e a qualunque disillusione. È un barlume che brucia nonostante il buio, una fiaccola che arde oltre la notte, un’intuizione dello spirito più che della ragione, capace di indurlo nonostante tutto a sperare. È una speranza tanto più forte quanto più lui è consapevole che è l’ultima: tra non molto, anche la ginestra dovrà piegare il capo innocente e non renitente per essere sommersa dalla lava, per sempre.

La lirica è stata composta nel 1836, a Torre del Greco. È una canzone libera di 7 strofe di endecasillabi e settenari.