Giacomo veste i panni di quando era fanciullo e immagina di essere andato alla scuola delle Muse. Si spoglia di tutta la sua cultura ed esperienza e guarda la vita con leggerezza, con un tono leggero e vagamente riflessivo. Va oltre anche il proprio dolore e sorride, con gaia levità, di quel sonno bello e tremendo che è l’esistenza umana. Gioca con la parola e a ritroso fa un viaggio in quella che è stata la sua storia di poeta: tra il faceto e il serio immagina che una delle Muse lo prenda per mano, per un giorno intero lo conduca a vedere la sua officina e lì gli mostri tutti gli strumenti dell’arte. Lui meravigliato li guarda tutti con l’entusiasmo tipico dei giovani. Ha studiato i classici e pensa che gli ideali che muovono il mondo siano quelli di cui ha letto nei libri. Si aggira per l’officina e realizza che manca la lima. Si volge alla Musa e le domanda dov’è. Ma la dea gli dice che è consumata e oramai si scrive senza. Però insiste e le domanda perché non la rifà, quando si guasta o si spezza o quando è stanca. La Musa lo fissa. Sorride della sua ingenuità, della sua poca esperienza ma anche della sua fedeltà e onestà a un modo di essere e a un modello che non c’è più: gli dice che si deve rifare, ma non c’è il tempo.
Non siamo più nel mondo antico, che è finito per sempre, ma nell’Ottocento, nell’età dei commerci, dei treni che consentono agli uomini di viaggiare e di spostarsi in tempi velocissimi per andare da una città all’altra. Grazie al progresso tecnologico, si stampano le gazzette a milioni, e tutto ciò che non serve più bisogna accantonarlo in soffitta. L’uomo moderno dominerà la natura e sarà felice: gli scrittori non devono più seguire l’esempio degli antichi ma scrivere libri sentimentali, infarciti di pensieri filosofici, invenzioni e spirito poetico, senza curarsi della lingua. Non c’è tempo per rivedere i testi perché, nella società delle gazzette e dei giornali, bisogna scrivere rapidamente per informare le masse, non è più conveniente spendere ore e giorni per curare la lingua e lo stile delle proprie opere. La lima, il lavoro di revisione e di cesello continuo, lo studio degli antichi e la riflessione meditata sono diventate cose d’altri tempi, di uomini nostalgici del passato, e non della modernità. I libri di grande letteratura non devono essere dei capolavori o dei modelli per le generazioni successive, ma devono durare meno del tempo che l’autore impiega per raccogliere i materiali, organizzarli, comporli, e per scrivere.
Nel sorriso bonario della Musa, che ricorda a Giacomo fanciullo che non c’è più tempo per rifare la lima, c’è una serrata polemica contro gli scrittori italiani ed europei dell’Ottocento e contro la corruzione della lingua e del gusto. Gli italiani disprezzano gli scrittori greci e latini, che sono stati un esempio insuperato di grande letteratura, e lodano invece lo sterco sentimentale di romanzi e poesie che si scola dalle Alpi e viene vomitato sulle rive del mare. I giovani seguono l’esempio della moda romantica e non curano adeguatamente lo stile dei propri scritti. L’Italia un tempo era stata padrona del mondo, formidabile in terra e in mare, arbitra delle guerre e della pace, e non conserva di quel glorioso passato altro che la grandezza nelle arti e nella letteratura. Ma anche quelle ora giacciono nella miseria e nell’abbandono, e gli altri stati europei, che sono invidiosi della nostra lingua, della nostra letteratura e della nostra arte, si stanno adoperando per corrompere e viziare gli ingegni italiani, rendendo barbare e corrotte anche le lettere.
La lima perciò va rifatta e i giovani non devono seguire l’esempio della moda. Devono invece amare di più la propria patria, che ha bisogno di buoni libri per diventare ancora una volta nazione.
Questi versi, che compongono una strofa libera di endecasillabi e settenari, sono stati scritti nel 1828 a Pisa.