XXXVII

È notte e Alceta e Melisso sono avvolti in una comunione totale, mitica, di sogno con la natura. Sono due pastori dell’Arcadia, appartengono al mondo della fantasia, l’unico in cui è possibile che i desideri si appaghino, la sola terra dove la felicità può avverarsi. I due guardano la luna che è sorta in cielo e che come una divinità notturna è risorta nella sua perenne ed eterna bellezza, con la sua struggente presenza e assenza. È in cielo, lontana, irraggiungibile. Alceta però si ricorda di quanto aveva sognato la notte prima e di come in un’altra dimensione, quasi parallela a quella in cui vive, l’ordine delle cose è stato alterato, turbato da una forza sconosciuta.

Le leggi ordinarie del mondo reale nel sogno sono state sconvolte, e attraverso la finestra che dava sul prato, in una proiezione di immagini che nascono l’una dall’altra – per un’intuizione e associazione alogica, per una sorta di visione e divinazione – ha visto la luna distaccarsi dal cielo e cadere precipitosamente verso la terra. Ciò che era lontano si è fatto per miracolo vicino. Quell’abbraccio fino ad allora negato con la madre si è fatto possibile, e l’ha vista avvicinarsi sempre più a lui e farsi grande nella sua discesa verso la terra. La luna da creatura del cielo, distante, è entrata a fare parte del mondo umano. Non era più oltre le cose, ma era nelle cose stesse, intrappolata nel loro divenire, e la sua corsa si è fermata in mezzo al prato. Lì ha perso qualunque vaga apparenza poetica e si è spogliata di tutta la sua bellezza. Si è deformata e ha assunto l’aspetto e le dimensioni di un secchio che brucia. Ha vomitato una nuvola incandescente di scintille come un carbone ardente che viene immerso e spento nell’acqua. Dopo un po’ si è spenta, si è annerita e ha esalato un fumo che si è diffuso tutto intorno. Alceta poi ha volto la testa verso il cielo, che è rimasto vuoto senza la presenza della luna. Nel punto dove è stata divelta è rimasto un barlume, un’orma, che gli ha suscitato nell’anima un terrore che ancora dura.

Alceta è uno spettatore dell’irreale, del sogno e dell’impossibile, di qualcosa che è avvenuto fuori di lui, ma che ha la sua origine nelle zone remote della sua coscienza. Ha visto la luna cadere sul suo prato e si è spaventato, e quella sensazione di smarrimento è ancora viva nel suo cuore. Il suo spavento però nasce dalla consapevolezza di aver violato qualcosa di sacro. Ha osato concepire l’immaginabile, il contatto con l’eterno, con la madre amata e odiata, e ha spogliato così la luna di tutta la sua aurea di divinità siderea e notturna.

A cadere nel suo giardino non è stata solo la luna, ma tutto un mondo di sogni e di illusioni, che è andato in frantumi nel momento in cui l’astro ha toccato terra. Alceta come Prometeo, anche se solo nelle regioni confuse e torbide della sua coscienza, ha osato sovvertire l’ordine naturale delle cose e così invece delle stelle cadenti, cosa che chiunque può ammirare in estate, nel suo giardino è caduta la luna. Di questa paura, ovvero della coscienza razionale di essere andato oltre il consentito, se ne ricorda però il giorno dopo, quando gli riaffiora alla mente il sogno. Pensa con orrore a quanto ha fatto e ha osato, lo veste di miti, lo adombra di lievi immagini, lo respinge di nuovo nelle regioni oscure della sua coscienza. Sa che ci sono cose che non possono assolutamente avverarsi nel mondo reale, che è meglio nascondere sotto la veste fantasiosa dello scherzo e che forse devono essere ricacciate, una volta esplorate, nelle regioni più remote del nostro essere. Sono i nostri fantasmi, ma anche il nostro desiderio impossibile di conoscenza, di comprendere il senso del tutto, di annullare la distanza tra noi e le cose, di trovare la risposta al senso del nostro dolore. Anche Melisso è consapevole di questo e con un sorriso bonario ricorda all’amico che c’è una sola luna in cielo e che nessuno l’ha mai vista cadere dal cielo, se non in sogno!

Il frammento è stato scritto nel 1819, a Recanati. Il metro utilizzato è l’endecasillabo sciolto.