XL

Simonide aveva cantato il deserto dell’esistenza prima di Giacomo. La sua parola riaffiora dalle rovine del tempo che l’avevano sommersa. L’uomo antico parla per mezzo di quello nuovo, gli presta la sua voce, la sua mesta armonia, il suo ritmo cogitabondo, il suo ardore di verità, il coraggio di guardare in faccia la vita così come effettivamente è e di denunciare il male che gli appesantisce il cuore. Da quando ha cantato la fragilità dell’uomo l’ultima volta, in un’altra lingua, sono trascorsi secoli, e sulle vicende umane il fato inesorabile ha steso la sua nera mano. Tutto ciò che nasce sotto il sole è in balia di una forza negativa che lo fa perire e lo fa ritornare nel nulla da dove è venuto. Però una parte di lui, un frammento, una vaga traccia di ciò che è stato è scampato al naufragio, ed è ancora lì nel flusso della vita, pronto a cantare un’altra volta la vanità della vita umana e la falsa convinzione dell’uomo di poter dominare la natura e di essere eterno. Con la stessa carica profetica è lì per ricordare all’uomo che è nulla nell’universo e che neanche la civiltà che è rinata dalle ceneri di quella antica può renderlo felice, perché il vero arbitro di tutte le vicende umane è il fato. Anzi, la boria dell’uomo moderno è ancora più grande di quello antico, perché ha inventato la strada ferrata, l’energia elettrica, le fabbriche pensando che prima o poi riuscirà anche a trovare il modo per essere felice.

Gli uomini si illudono di essere i protagonisti della loro vita e che tutto ciò che fanno dipenda dalle loro scelte. Non sono in realtà liberi di decidere, e tutto ciò che accade sulla terra avviene per volere di Giove. La loro esistenza è come chiusa in una gabbia, e ogni bene e ogni male è frutto della volontà del cielo. Sono creature fragili e il tempo della loro vita è un soffio rispetto a quello dell’universo. La natura può spazzarli via in un baleno. L’evidenza dei fatti dovrebbe mostrare loro la precarietà della condizione in cui si trovano, ma la loro cieca natura si rifiuta di accettarla. Non pensano a vivere il presente ma si affannano e si preoccupano per le cose future. Coltivano la speranza, pensano che il domani riserverà loro grandi cose, e intanto l’oggi passa. Alimentano delle piacevoli illusioni e così si affaticano invano inseguendo beni passeggeri e fugaci. Alcuni cercano la gloria, altri la bellezza, altri l’amore, altri ancora l’illusione della ricchezza. Passano la loro esistenza nell’attesa di qualcosa che mai si realizzerà e attendono che gli sia propizio il domani.

L’esistenza umana è una successione infinita di dolori, e la vera saggezza è nell’affrancarsi dal comune errore di credere nelle speranze della vita. Solo l’uomo stolto può amare il proprio male con tanto amore e accettare la vita così come è stata data dagli dèi agli uomini. Quello saggio non crede in alcuna forma di felicità e non ignora le sofferenze che la natura continuerà a infliggergli anche nel futuro, motivo per cui non esita a liberarsi dell’ingombrante e dolente spoglia mortale che il fato ingrato gli ha donato.

Il frammento è una strofa libera di endecasillabi e settenari, composta a Recanati tra il 1823 e il 1824.