Eduard von Hartmann, fotografia, Francoforte, Universitätsbibliothek Frankfurt am Main
Pubblicato durante quelli che sono definiti gli “anni ruggenti” della filosofia tedesca (quando l’egemonia della filosofia hegeliana, che celebra la razionalità del reale, è all’acme), Il mondo come volontà e rappresentazione è quello che si dice un fiasco clamoroso. Quasi tutta la prima edizione finisce al macero. Schopenhauer, che non è un accademico, accusa i professori di filosofia di avere ordito contro di lui una vera e propria congiura del silenzio. Ma la sua filosofia “controcorrente” si diffonde in maniera sotterranea e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, comincia a formarsi intorno a lui una ristretta cerchia di discepoli: gli “apostoli” e gli “evangelisti”, come lui li chiama. Apostoli erano coloro i quali non scrivevano su di lui, evangelisti coloro i quali prendevano la penna per difendere e far conoscere le sue dottrine. Finalmente aveva anche lui la sua “scuola”. Nessuno dei suoi discepoli diretti interpreta il suo pensiero in chiave pessimistica, cosa che fanno, invece, dopo la sua morte, intellettuali come Eduard von Hartmann, Philipp Mainländer e Julius Bahnsen.
L’ex militare e autodidatta Eduard von Hartmann (1842-1906) esordisce come filosofo nel 1869 pubblicando un libro che avrebbe riscosso un enorme successo e gli sarebbe valso l’offerta di ben tre cattedre universitarie: egli, fedele all’antiaccademismo del suo maestro, rifiuta. Il libro, dal titolo La filosofia dell’inconscio, si presenta come una trasformazione della filosofia di Schopenhauer, ottenuta innestando sul suo tronco elementi provenienti da Schelling e da Hegel.
La volontà cieca e ottusa di Schopenhauer, pensava Hartmann, a rigore non è in grado di volere alcunché. Occorre dunque ammettere che la volontà abbia un suo finalismo intrinseco, per quanto inconscio, che spetta alla filosofia portare alla chiarezza della coscienza. Ma per fare ciò bisogna innanzitutto fondare il pessimismo su basi rigorosamente scientifiche e poi smantellare tutte le illusioni del genere umano.
Hartmann procede alla fondazione scientifica del pessimismo, proponendo di effettuare un calcolo matematico del “bilancio eudemonologico” del mondo: in qualsiasi mondo esistente, se ai piaceri si sottraggono i dolori il bilancio eudemonologico sarà sempre negativo. In un mondo che non è, invece, tale bilancio sarà pari a zero. Dunque il non essere è preferibile all’essere e il finalismo inconscio della volontà consiste appunto nel suo tendere al non essere. In tal modo nel nucleo metafisico stesso della realtà si colloca, dunque, la garanzia della redenzione.
A differenza di Schopenhauer, che aveva affidato alla dimensione individualistica del Nirvana l’unica possibilità di redenzione dal dolore del mondo, Hartmann sostiene la necessità che il processo di liberazione dalla volontà, e dunque dal dolore, abbia una dimensione universale, che coinvolga l’intero genere umano. Ma per poter fondare una simile prospettiva, è necessario smascherare tutte le illusioni nutrite dall’umanità a proposito della felicità: l’illusione della felicità nella vita presente, l’illusione della felicità in una dimensione trascendente ed infine l’illusione della felicità nello sviluppo della storia dell’umanità. Solo quando giungerà a questo punto di consapevolezza, l’umanità sarà finalmente pronta per ciò che Hartmann chiama “il pieno abbandono della personalità al processo del mondo, per il raggiungimento del suo scopo, la redenzione generale del mondo”. Una redenzione nel nulla, le cui modalità di attuazione pratica restano però alquanto oscure.
Anche Philipp Mainländer (1841-1876) era un autodidatta: un impiegato di banca appassionato della filosofia di Schopenhauer e del pessimismo, che per lui si compendiava nella proposizione “Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo”. In un mondo dominato dal dolore, dalla sofferenza e dalla miseria, infatti, non ci può essere posto per nessun dio. Ma, nonostante tutto, Mainländer pensa che il mondo abbia in sé la tendenza a ricongiungersi all’unità precosmica di Dio: le ricerche della termodinamica sull’entropia (il concetto di entropia viene introdotto da Rudolf Clausius nel 1864 e in generale afferma che tutti i sistemi termodinamici evolvono spontaneamente verso il disordine) offrono secondo lui la conferma scientifica che il mondo è destinato al nulla e dunque alla redenzione finale. Ma si può e si deve fare qualche cosa per aiutare e accelerare questo processo.
Julius Friedrich August Bahnsen, fotografia, Francoforte, Universitätsbibliothek Frankfurt am Main
Mainländer individua tre vie per la redenzione: il socialismo, che eliminando i bisogni infiacchirebbe l’umanità preparandone la scomparsa; la castità generale, che alla lunga porterebbe all’estinzione del genere umano; infine il suicidio, che oltre a far ricongiungere immediatamente l’individuo col nulla originario, dovrebbe avere anche il significato di un atto esemplare. E questa è la via che egli effettivamente pratica. Nella notte fra il 31 marzo ed il 1 aprile 1876 Mainländer si toglie la vita, in un estremo gesto di coerenza, dopo aver ricevuto la prima copia del suo libro La filosofia della redenzione.
Non era un autodidatta, invece, Julius Bahnsen (1830-1881), un insegnante di liceo che aveva conosciuto personalmente Schopenhauer nel 1856 e da allora si era dichiarato suo seguace. Nella sua prima opera, Contributi alla caratterologia (1867), Bahnsen si ricollega alla metafisica della volontà per sviluppare uno studio approfondito delle singole volontà individuali: la scienza del carattere, che avrebbe dovuto servire come base di una pedagogia di impronta schopenhaueriana. Ma è nella sua ultima opera, La contraddizione (1880-1882), che svolge gli sviluppi della dottrina di Schopenhauer più interessanti per il tema del pessimismo, giungendo a escludere qualsiasi possibilità di redenzione. Per Bahnsen, infatti, il mondo è un “eterno tramonto”, che mai ha avuto inizio e non avrà fine. Banhsen, con la sua “realdialettica”, propone una versione talmente radicale del pessimismo post-schopenhaueriano da essere definita “miserabilismo”.
A partire dalla pubblicazione della Filosofia dell’inconscio di von Hartmann, nella cultura tedesca divampa una vivace polemica, nota come “controversia sul pessimismo”, nella quale intervengono i principali intellettuali del paese. Il pessimismo assume quasi i connotati di una moda culturale, efficacemente descritta in alcuni articoli del sociologo Georg Simmel. Eppure, a quell’epoca in Germania, almeno apparentemente, non c’era nessuna ragione per essere pessimisti: la Kultur germanica aveva avuto la meglio sulla civilisation latina nella guerra franco-prussiana, la Germania portava a compimento l’unificazione nazionale e celebrava la fondazione del Reich. Perché allora si diffondeva il pessimismo?
È questo l’interrogativo che si pone uno schopenhaueriano di vecchia data come Friedrich Nietzsche, che sviluppa le proprie riflessioni in una direzione antitetica rispetto a quella di Schopenhauer: l’essere è sempre preferibile al non essere, come insegnano i Greci attraverso l’arte tragica. Perciò, al pessimismo schopenhaueriano, che disprezza la vita e anela al non essere, Nietzsche contrappone l’affermazione tragica della vita, rappresentata dal dionisiaco. A Schopenhauer, del resto, Nietzsche riconosce il merito di essere stato il primo a porre, col suo pessimismo, il problema del valore e del significato dell’esistenza.
Philipp Mainländer, fotografia
Così è anche in un aforisma del quinto libro della Gaia scienza (seconda edizione del 1887), intitolato “Per il vecchio problema ‘che cosa è tedesco’” (af. 357), che contiene una specie di sguardo retrospettivo sullo sviluppo della filosofia tedesca che va da Schopenhauer allo stesso Nietzsche, ossia dal pessimismo al nichilismo. Scrive Nietzsche: “Un quarto problema sarebbe se anche Schopenhauer, col suo pessimismo, cioè con il problema del valore dell’esistenza, dovesse essere stato proprio un tedesco. Non lo credo. L’avvenimento, dopo il quale c’era da aspettarsi questo problema con tale sicurezza che un astronomo dell’anima avrebbe potuto calcolarne giorno e ora, il tramonto della fede nel Dio cristiano, la vittoria dell’ateismo scientifico, è un avvenimento totalmente europeo per il quale tutte le stirpi devono avere la loro parte di merito e di onore. Inversamente sarebbe da ascriversi proprio ai Tedeschi – quei Tedeschi al tempo dei quali visse Schopenhauer – di aver ritardato assai a lungo e con grandissimo pericolo questa vittoria dell’ateismo; Hegel, in particolare, fu il suo ritardatore par excellence […]. Come filosofo, Schopenhauer fu il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi Tedeschi abbiamo avuto”. Rispetto a Schopenhauer, il pessimismo post-schopenhaueriano costituisce per Nietzsche un evidente passo indietro: “Con ciò non alludo affatto a Eduard von Hartmann; è invece un mio vecchio sospetto, ancor oggi non del tutto dissipato, che egli sia per noi troppo abile, voglio dire che, da quel furbacchione matricolato par suo, non solo si sia sin da principio fatto beffe del pessimismo tedesco – che, alla fine, potrebbe eventualmente ‘legare’ per testamento ai Tedeschi l’esempio di come fosse possibile canzonarli al tempo della fondazione del Reich. Io però domando: deve forse ascriversi a onore dei Tedeschi la vecchia trottola Bahnsen, che per tutta la vita si è deliziato nel roteare attorno alla sua miseria realistico-dialettica e alla sua ‘sfortuna personale’ – sarebbe questo quel che è forse proprio tedesco? […] Oppure si dovrebbe annoverare, tra i veri Tedeschi, tali dilettanti e vecchie zitelle, quale il dolciastro apostolo della verginità Mainländer? […] Né Bahnsen, né Mainländer, e tanto meno Eduard von Hartmann danno un appiglio sicuro quanto al problema se il pessimismo di Schopenhauer, il suo sguardo terrorizzato volto a un mondo sdivinizzato, e diventato stolto, cieco, folle e problematico, il suo onesto terrore... non sia stato soltanto un caso eccezionale tra i Tedeschi, bensì un avvenimento tedesco […]. No i Tedeschi di oggi non sono pessimisti! E Schopenhauer fu pessimista, sia detto ancora una volta, come buon Europeo e non come Tedesco”.
In questo modo Nietzsche non solo ha reso esplicito e valorizzato il significato del pensiero di Schopenhauer nella storia della cultura europea dell’età moderna (considerandolo come la prima filosofia dopo la morte di Dio, come la prima espressione del nichilismo), ma ha anche indicato una efficace linea interpretativa di un fenomeno culturale altrimenti per molti versi inspiegabile: la diffusione del pessimismo filosofico nella Germania di fine Ottocento. Infatti, mentre in Europa si aggira lo spettro del comunismo, comincia ad avvertirsi la presenza di un ospite forse ancor più inquietante, chiamato nichilismo.