Pubblicato nel 1844, il Discorso sullo spirito positivo si presenta come una sorta di manifesto programmatico del nascente positivismo, di cui Comte stesso è ritenuto l’iniziatore. Lo scritto si apre proprio con la disamina dei vari significati del termine “positivo”, che convergono nel definire un ambito di ricerca orientato verso il dato reale.
Discorso sullo spirito positivo
da A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, Laterza, Roma-Bari - 2000Considerata anzi tutto nella sua accezione più antica e più comune, la parola positivo designa il reale, in opposizione al chimerico: da questo punto di vista, essa conviene pienamente al nuovo spirito filosofico, caratterizzato dalla sua costante consacrazione alle ricerche veramente accessibili alla nostra intelligenza, con l’esclusione permanente degli impenetrabili misteri di cui si occupava soprattutto la sua infanzia.
In un secondo senso, molto vicino al precedente, ma tuttavia distinto, questo termine fondamentale indica il contrasto dell’utile con l’inutile: allora ricorda in filosofia la distinazione necessaria di tutte le nostre sane speculazioni al miglioramento continuo della nostra vera condizione, individuale o collettiva, invece che alla vana soddisfazione di una sterile curiosità.
Secondo un terzo significato in uso, questa felice espressione è frequentemente usata per qualificare l’opposizione tra la certezza e l’indecisione: essa indica così l’attitudine caratteristica di una tale filosofia a costituire spontaneamente l’armonia logica nell’individuo e l’accordo spirituale nell’intera specie, invece di quei dubbi indefiniti e di quelle discussioni interminabili che doveva suscitare l’antico regime mentale.
Una quarta ordinaria accezione, troppo spesso confusa con la precedente, consiste nell’opporre il preciso al vago: questo senso richiama la tendenza costante del vero spirito filosofico a ottenere dappertutto il grado di precisione compatibile con la natura dei fenomeni e conforme all’esigenza dei nostri veri bisogni; mentre l’antico modo di filosofare conduceva necessariamente a opinioni vaghe, in quanto non richiedeva una indispensabile disciplina mentale se non dopo una permanente soffocazione, appoggiata a una autorità soprannaturale.n
Nel Corso di filosofia positiva (1830-1842) Comte presenta un panorama della cultura scientifica dell’epoca, basato sulla convinzione che ogni campo del sapere evolva passando attraverso tre stadi derivanti dal diverso atteggiamento intellettuale con cui gli uomini cercano di spiegare la realtà che si trovano di fronte.
Corso di filosofia positiva
da A. Comte, Corso di filosofia positiva, Paravia, Torino - 1957
Nello stato teologico, lo spirito umano mira essenzialmente, mediante la ricerca, alla scoperta della natura intima degli esseri, delle cause prime e finali dei fenomeni; in una parola, tende alle conoscenze assolute. Si rappresenta i fenomeni come prodotti dell’azione diretta e costante di agenti sovrannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega le apparenti anomalie dell’universo.
Nello stato metafisico, che sostanzialmente è soltanto una modifica del primo, gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri nel mondo, e concepite come capaci di produrre tutti i fenomeni che cadono sotto la nostra osservazione, e la cui spiegazione consiste soltanto nell’assegnare a ciascun fenomeno l’entità corrispondente.
Infine, nello stato positivo, lo spirito umano, riconosciuta l’impossibilità di toccare nozioni assolute, rinuncia a indagare sull’origine e sul destino dell’universo, e tenta unicamente di scoprire, mediante l’uso ben combinato della ragione e dell’esperienza, le loro leggi effettive, ossia le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta allora in termini reali, non è altro che il legame stabilito fra i diversi fenomeni particolari e qualche fatto generale, il cui numero tende via via a diminuire in seguito al progresso costante delle scienze.n
Per Bentham le nozioni di utilità e piacere costituiscono il fondamento stesso della società, così che la virtù sociale non può consistere che nella ricerca di ciò che è utile. L’ispirazione dell’utilitarismo moderno è la filosofia “edonistica” di Epicuro, che restava tuttavia legata alla ricerca di una felicità puramente individuale mentre Bentham la traduce in ambito politico.
Trattati della legislazione civile e penale
da Grande antologia filosofica: il pensiero moderno, diretta da M.F. Sciacca, coordinata da M. Schiavone, vol. 19, Marzorati, Milano - 1971
La natura ha posto l’uomo sotto l’autorità del piacere e del dolore. Noi dobbiamo ad essi tutte le nostre idee; noi rapportiamo a questi due sentimenti tutti i nostri giudizi, tutte le nostre determinazioni della nostra vita. […] Questi due sentimenti eterni ed irresistibili devono essere il grande studio del moralista e del legislatore. Il principio dell’utilità subordina tutto a questi due moventi. Utilità è un termine astratto. Esso esprime la proprietà o la tendenza di una cosa ad evitare qualche male o a procurare qualche bene: male è sofferenza, è dolore, o causa di dolore; bene è piacere o causa di piacere. È conforme alla utilità o all’interesse di un individuo soltanto ciò che tende ad aumentare la somma totale del suo benessere; è conforme all’utilità o all’interesse di una comunità, solo ciò che tende ad aumentare la somma totale del benessere degli individui che la compongono. […]
La logica dell’utilità consiste nel partire dal calcolo, o dal paragone dei piaceri e dei dolori in tutte le operazioni del giudizio, e a non farvi entrare nessuna altra idea. Io parteggio per il principio dell’utilità, quando misuro la mia approvazione o la mia disapprovazione di un atto privato o pubblico sulla tendenza che esso ha a produrre piaceri e dolori; quando uso i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, buono, cattivo, come termini collettivi che racchiudono idee di certi piaceri e di certi dolori, senza dar loro alcun altro significato usuale, senza inventare definizioni arbitrarie, per escludere certi piaceri o per negare l’esistenza di certi dolori. n
Nel brano seguente, tratto dal secondo libro della Democrazia in America, Tocqueville mette in guardia dai pericoli di una “tirannia della maggioranza”; ad essa egli oppone una legge generale valida per tutta l’umanità, cioè la giustizia, in nome della quale deve agire la maggioranza.
La democrazia in America
da A. de Tocqueville, La democrazia in America, Bur, Milano - 1982
Io considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto; tuttavia pongo nella volontà della maggioranza l’origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso? Esiste una legge generale che è stata fatta, o perlomeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia.
La giustizia è dunque il limite del diritto di ogni popolo. Una maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la sua legge. La giuria rappresenta la società; deve essa avere più potenza della società stessa di cui applica le leggi. Quando dunque io rifiuto di obbedire ad una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare: soltanto mi appello non più alla sovranità del popolo ma a quella del genere umano.
Vi sono alcuni i quali osano dire che un popolo, negli oggetti che interessano lui solo non può uscire interamente dai limiti della giustizia e della ragione e che quindi non si deve avere paura di dare ogni potere alla maggioranza che lo rappresenta. Ma questo è un linguaggio da schiavi.
Cosa è mai la maggioranza, presa in corpo, se non un individuo che ha opinioni e spesso interessi contrari ad un altro individuo che si chiama minoranza. Ora, se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò anche per la maggioranza? [...]
Bisogna sempre, dunque, porre in qualche parte un potere sociale superiore a tutti gli altri; ma la libertà è in pericolo quando questo potere non trova innanzi a sé alcun ostacolo che possa rallentare il suo cammino, dandogli il tempo di moderarsi.
L’onnipotenza in sé mi sembra una cosa cattiva e pericolosa; il suo esercizio è superiore alle forze dell’uomo, chiunque esso sia; solo Iddio può essere onnipotente senza pericolo, perché la sua saggezza e la sua giustizia sono sempre eguali al suo potere. Non vi è dunque sulla terra autorità, tanto rispettabile in se stessa o rivestita di un diritto tanto sacro, che possa agire senza controllo e dominare senza ostacolo. Quando, dunque, io vedo accordare il diritto o la facoltà di fare tutto a una qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o re, democrazia o aristocrazia, si eserciti essa in una monarchia o in una repubblica, io dico: qui è il germe della tirannide; e cerco di andare a vivere sotto altre leggi.n