Si pongono allo studioso problemi metodologici ed epistemologici che sembrano mostrare i limiti dell’impostazione concettuale positivistica e richiedere approcci nuovi.
Le filosofie, tra loro molto diverse, che caratterizzano il periodo tra Ottocento e Novecento non si lasciano agevolmente inquadrare sotto un’unica etichetta e nemmeno presentano un denominatore comune di facile individuazione. Si è soliti dire che costituiscono una reazione al positivismo e alla sua esaltazione della scienza, ma benché ciò sia genericamente vero, è anche senz’altro riduttivo. Certo, la convinzione positivista che la metodologia delle scienze della natura sia l’unico procedimento in grado di produrre conoscenze valide e che il paradigma meccanicista debba rappresentare la forma privilegiata (se non addirittura esclusiva) di spiegazione dei fenomeni, diventa, al volgere del secolo, bersaglio di critiche severe; e anche la fiducia riposta nella scienza quale strumento di progresso illimitato e di miglioramento della vita umana si incrina, e con essa anche l’idea che la storia sia guidata dalla ragione. Tuttavia, per comprendere il mutamento di prospettiva che si registra in molti campi del sapere filosofico, conviene tenere presente un’osservazione più ampia, e allo stesso tempo più precisa, di Dilthey, non a caso uno dei protagonisti di quest’epoca. Scrive Dilthey: “nelle vene del soggetto conoscente costruito da Locke, Hume e Kant non scorre sangue vero, ma la linfa rarefatta di una ragione intesa come pura attività di pensiero. Al contrario, il mio aver avuto a che fare, da storico e da psicologo, con l’uomo tutto quanto, mi ha condotto a prendere per base questo essere nella molteplicità delle sue forze, questo essere volente, senziente e rappresentante, anche nello spiegare la conoscenza e i suoi concetti”.
Al di là del modo specifico in cui Dilthey la svilupperà all’interno della propria ricerca, tale osservazione dà voce a un’esigenza che attraversa molti campi del sapere filosofico tra la fine dell’Ottocento e l’alba del XX secolo: quella di superare la concezione astrattamente idealizzata dell’uomo ereditata dalla tradizione per prendere in carico l’essere umano nella molteplicità delle sue forze o – se non vogliamo dimenticarci di Freud, che nel 1900 pubblica L’interpretazione dei sogni – dei suoi impulsi. Se c’è qualcosa che autori tanto diversi come Dilthey e James, come Simmel e Bergson, per non ricordare che alcune delle figure più note, hanno in comune è questo sforzo di immettere “sangue vero” nel soggetto. E se è innegabile che ciascuno interpreta il compito alla propria maniera, secondo la propria idea di che cosa conti come “sangue vero”, dando così luogo a elaborazioni teoriche originali e assai differenti nella forma, nel metodo, nei risultati e persino nella radicalità con cui di volta in volta è condotta l’indagine, è altrettanto vero che nel loro complesso questi sforzi – che oltrepassano l’ambito di ciò che solitamente si intende con la formula, pur significativa, di “filosofie della vita” – fanno di questo periodo un eccezionale laboratorio filosofico. Proprio per evidenziare questa eterogeneità di prospettive, alla quale il pensiero del Novecento attingerà a piene mani, abbiamo scelto di seguire prevalentemente, in questa sezione, un criterio di orientamento geografico, indagando gli sviluppi dei dibattiti filosofici e delle diverse tradizioni in Italia, in Austria e Germania, in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Un terreno di riflessione di particolare importanza è rappresentato dagli studi storici, che nella seconda metà dell’Ottocento conoscono uno straordinario sviluppo. Qui, più che in altri campi del sapere, si pongono allo studioso problemi metodologici ed epistemologici che sembrano mostrare i limiti dell’impostazione concettuale positivistica e richiedere approcci nuovi. Appare sempre più chiaro, per esempio, che nozioni come quella di “legge”, di “verifica”, di “prova”, ecc., che sono di normale impiego nelle scienze della natura, risultano tuttavia inapplicabili alla conoscenza storica oppure impongono una radicale reinterpretazione. L’analisi di questo campo di studio porta così alla luce una forma di conoscenza che appare nettamente distinta da quella delle scienze naturali, e caratterizzata da oggetti, metodi e strumenti di indagine specifici. È la conoscenza delle scienze dello spirito, che rivendica per sé dignità e legittimità epistemologica pari a quella delle scienze della natura. Ciò significa che la scientificità della storia, e più in generale quella delle scienze dello spirito, non può più essere affidata alla possibilità di estendere anche a questi ambiti la metodologia delle scienze della natura in quanto unico modello valido di spiegazione, ma deve essere affidata a ciò che contraddistingue l’operare delle scienze dello spirito e che è fondato sul particolare tipo di relazione che, in questo campo, lega il soggetto conoscente all’oggetto da conoscere. A riprova della pervasività di questi temi e della centralità della riflessione sul soggetto può essere portata anche l’opera di un autore lontano dalle problematiche storiche e dalla prospettiva storicista come Peirce, le cui teorie sul linguaggio dei segni pongono quale riferimento imprescindibile del meccanismo comunicativo, tra segno e oggetto, il ruolo del soggetto interpretante, aprendo la strada alle indagini della semiotica novecentesca sul linguaggio dei media e della comunicazione. Come dirà Dilthey, aprendo una discussione destinata a continuare per tutto il Novecento, le scienze naturali sono quelle che “spiegano”, mentre le scienze dello spirito “comprendono”.