Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la letteratura si confronta con la realtà rispondendo a un inedito senso del tempo. Se l’Ottocento si era distinto per la “serietà”, per il modo con il quale aveva spesso deposto il fantasioso romanzesco (il romance della tradizione inglese) per concentrarsi sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, sul racconto realistico dell’esperienza vissuta, con i primi decenni del nuovo secolo si impongono fattori legati a una nuova percezione del tempo, del passato come del presente, indubbiamente rappresentativi di un periodo sconvolto da innovazioni e scoperte negli ambiti della scienza e della tecnica.
L’Europa è scossa da fremiti di velocità, un concetto che scardina la percezione ordinaria di spazio e tempo. Nel segno di un oggi accelerato e cangiante, si esorta a essere quanto mai moderni, sensibili al mutare dei tempi, e la lingua e la letteratura, gli stili, non si sottraggono alla regola: ne è un esempio la tensione avanguardistica propria dei futuristi italiani. Le note prescrizioni del Manifesto tecnico della letteratura italiana (1912) non lasciano dubbi al riguardo: per l’autore, Filippo Tommaso Marinetti, ispirato dall’“elica turbinante” del velivolo che sta conducendo, è necessario sconvolgere l’assetto della grammatica tradizionale, “distruggere la sintassi”, abolire aggettivi, avverbi, segni di punteggiatura, servendosi di “analogie vastissime”, di una “immaginazione senza fili” capace di offrire visualizzazioni istantanee e spericolate dell’oggetto da descrivere. Le rivendicazioni marinettiane abbracciano un progetto rivolto al pensiero del futuro, a cercare di abbreviare la distanza che separa l’uomo dal suo domani.
Più in profondità si muovono le grandi sperimentazioni moderniste che coinvolgono l’Europa dei primi decenni del Novecento, e che cercano di riconnettere le pieghe profonde della coscienza all’origine dei traumi nel passato (sono anni profondamente segnati dalla ricerca psicoanalitica di Sigmund Freud), la complessità del momento presente al significato della memoria. Del tutto originale e sorprendente è il modo con il quale la scrittura si rapporta alla dimensione del tempo: i romanzi esemplari di questo periodo flettono la linearità consueta del racconto, interrompono la progressione ordinata delle vicende per introdurre spostamenti, dislocazioni, cesure, interruzioni, narrazioni a ritroso (in consonanza con una tecnica presto elaborata dal cinema, il flashback). La percezione del tempo nei personaggi, in particolare, subisce notevoli trasformazioni: accanto a un tempo oggettivo, storicamente determinato, si affaccia sulla pagina la consistenza di un tempo soggettivo, esperito dalla coscienza dei personaggi e da essi avvertito, nei termini del filosofo francese Henri Bergson, come durata, come flusso che si anima nella mente di chi vive o rivive sensazioni, slegate a loro volta dallo scorrere del tempo effettivo, misurabile.
L’influsso di un tale “tempo interiore” sul racconto è stato rilevato da un grande critico tedesco, Erich Auerbach, in opere come Alla ricerca del tempo perduto (1912-1927) di Marcel Proust e Gita al faro (1927) di Virginia Woolf. In particolare, nel ciclo romanzesco di Proust si individua la precisa volontà di rimediare alla perdita del proprio passato, di riafferrare il capo delle storie, dei personaggi, dei luoghi che hanno segnato la formazione del narratore, redimere, in una parola, il tempo perduto. Lungo i sette libri di cui si compone l’opera, Proust affida a un disegno non lineare, ma casuale (a quella che teorizza come la “memoria involontaria”) l’evocazione di tutto un mondo altrimenti scomparso per sempre: semplici dettagli della vita quotidiana, come i frammenti di un dolcetto, una madeleine, inzuppato nel tè, richiamano alla mente per analogia un momento vissuto nel passato (l’infuso di tiglio della zia Léonie), i colori, le case, i sensi tutti di un luogo d’infanzia, la Combray delle vacanze estive, in Dalla parte di Swann. Ancora, nel libro conclusivo, Il tempo ritrovato, il narratore riconnette le pietre sconnesse del cortile di palazzo Guermantes, nelle quali inciampa, a un episodio simile avvenuto a Venezia anni prima: di qui, tutta una serie di ricordi viene messa in moto, associando personaggi ormai lontani nel tempo a una convivenza irreale con chi resta, dove i morti rivivono in un presente continuo, sospeso. Il loro tempo è stato così riscattato; il narratore ha vinto la sua personale sfida contro il tempo, concludendo la narrazione prima della fine della propria esistenza, esattamente come per lo scrittore la parola “fine” apposta alla propria opera, cui si dedica per lunghi anni, coincide con la propria morte. Nella natura insignificante e occasionale della memoria involontaria si può scorgere la distanza tra Proust e Bergson: per il filosofo si tratta di una memoria pura, che possiamo recuperare con un movimento volontario dell’intelletto, in qualsiasi circostanza; per Proust, al contrario, l’ampio edificio del ricordo costituito dalla Recherche è tutto sorretto dall’attesa di istanti isolati, distanziati tra loro nel tempo e sottratti a una precisa volontà di sistemazione.
In Gita al faro di Virginia Woolf, è ancora la coscienza del personaggio principale, la signora Ramsay, ad accentrare su di sé i movimenti della scrittura: ma, a differenza di quanto avviene in Proust, nel romanzo siamo di fronte a una mente che sovrappone diverse idee, a un fulmineo flusso di coscienza che interrompe di continuo il tempo della narrazione. È un tempo franto, occupato da digressioni, da fughe nel presente o nel recente passato che riflettono la velocità con la quale il tempo della coscienza muove da un pensiero all’altro – molto più rapido, in questo, dei meccanismi del linguaggio verbale e della scrittura. In un altro romanzo di Woolf, l’azione si sposta nel cuore del modernismo, le strade di Londra percorse da Clarissa, la Signora Dalloway (Mrs. Dalloway, 1925) dell’alta società cittadina, dove è il suono cadenzato del Big Ben a scandire il tempo soggettivo del personaggio, a ritmare l’alternanza al suo interno di pensieri ordinari, relativi all’organizzazione di una cena, e di quelli suscitati dal ritorno dall’India di un’antica fiamma, Peter Walsh. Il momento culminante del ricevimento di Clarissa coinciderà con il suicidio di un giovane reduce dal fronte, Septimus Warren Smith, seguito in parallelo dalla narrazione.
In Virginia Woolf il moderno scenario urbano riflette le “miriadi di impressioni” del personaggio, il suo tempo moltiplicato: non diversamente, nello stesso decennio James Joyce comprime i mille avvenimenti dell’Ulisse (Ulysses, 1922) all’interno di una giornata qualsiasi, il 16 di giugno del 1904, a Dublino. Se nel monologo interiore della signora Ramsay in Al faro è ancora reperibile una trama di associazioni mentali leggibile, con Ulisse “la tecnica del molteplice riflettersi della coscienza e della stratificazione dei tempi viene applicata nel modo forse più radicale”, come afferma Auerbach, caricandosi di variegate valenze simboliche – riferimenti a episodi omerici, della teologia biblica, della filosofia e della letteratura della tradizione. Il tempo interiore del protagonista, l’uomo qualunque Leopold Bloom, novello Ulisse, è attraversato da innumerevoli sensazioni, da preoccupazioni lavorative, politiche, erotiche. Il flusso di coscienza (stream of consciounsness), reso attraverso la tecnica del monologo interiore, è come una sorta di “stile della metropoli” oltre che dei personaggi.
Il dibattersi della coscienza intorno alla memoria contrassegna invece un’opera di Joyce paradossalmente legata alla descrizione di Dublino come centro della paralisi, capitale della stasi storica di una nazione: i racconti Gente di Dublino (1914) e, in maniera più specifica, il racconto intitolato Eveline, in cui la protagonista, spinta dal desiderio di andarsene insieme al suo innamorato, rivivrà i ricordi di una felicità familiare perduta che la tratterranno a terra; il racconto conclusivo, I morti, è imbastito sulla descrizione di una malinconica serata presso le anziane sorelle Morkan. Gabriel, loro nipote, assisterà all’affiorare di uno sconvolgente ricordo della moglie Gretta, che racconterà di una passata storia d’amore evocata da una canzone risuonata durante la cena e a suo tempo cantata, in una simile notte nevosa, alla sua finestra da un giovane che, innamorato di lei e malato, mise a repentaglio la sua vita. Il passato mina dunque le certezze e la sonnolenta vita quotidiana dei piccoli dublinesi indagati da Joyce – e in generale, di tutta la borghesia europea.
L’anno successivo all’uscita di Ulisse, il 1923, Italo Svevo dà alle stampe dopo 25 anni il suo terzo romanzo e, ancora una volta, sceglie la Trieste degli uomini comuni per ambientarvi le vicende di un inetto, al centro di La coscienza di Zeno. Rispetto ai suoi illustri paralleli europei, l’opera non si concede al dominio del monologo interiore per attuare, di contro, un rapporto con il tempo narrato del tutto peculiare. La struttura romanzesca è improntata al registro di quel diario che il dottor S. richiede al suo paziente, Zeno Cosini, come terapia psicanalitica. Ma l’ordine delle vicende è volutamente sconvolto; il paziente, visibilmente in malafede, richiama alla memoria grandi episodi della sua vita senza subordinarli a un ordine progressivo; il romanzo si lega così, nel suo costruirsi, a singoli nuclei tematici; come nota Mario Lavagetto, “il discorso procede libero, non paga pedaggi alla cronologia del racconto”. Nella sua cognizione della malattia, Zeno guarda indietro ai momenti rivelatori del passato, senza trarne indicazioni né benefici per il presente, mentre si convince che la salute, incarnata dalla moglie Augusta, risiede nel rifugiarsi all’interno del presente, sfuggendo all’erosione delle certezze borghesi che lo scorrere del tempo porta con sé, al flusso della coscienza. Il tempo di Zeno è allora una sorta di “tempo malato”, mai risolto, inghiottito dai rimandi prolungati al futuro, come accade per il celebre episodio dell’ultima sigaretta, da salti all’indietro, o dall’azione della morte che sottrae le figure intorno al personaggio, confinandolo in una sorta di presente continuo delle vicende. In ultimo, il futuro: è su una scena che si impone per la sua portata apocalittica che il romanzo si conclude, sulla previsione di un ordigno terribile che sconvolgerà fatalmente una vita umana “inquinata alle radici”, segnando la grande distanza della visione di Svevo da quella di Proust. Il tempo, agli occhi di Zeno, appare irredimibile, irrecuperabile.
Ma, forse, il prototipo di quelli che un filosofo, Paul Ricoeur, definisce Zeitromane, “romanzi sul tempo”, è La montagna incantata (1924) di Thomas Mann. Nel romanzo, il giovane ingegnere Hans Castorp rimane bloccato in un sanatorio montano, il Berghof, per sette anni, durante i quali diviene parte di un mondo di malati sospesi al di fuori della vita reale, dove scorre il tempo degli orologi. La stessa attrazione che nutre, all’interno del mondo isolato nel suo incantamento, per la sfuggente Claudia Chauchat è parte di un sentimento nel quale l’eros si compenetra a un senso morboso di sfinimento, a presagi di morte. Il mondo concluso del Berghof si aprirà per Hans al richiamo del tempo della vita, coincidente con l’anno 1914, nel quale scenderà dal sanatorio verso la pianura, per immettersi nell’esperienza della guerra. Lo scenario di distruzione mondiale che Svevo evoca nel finale di Zeno coinciderà, per il reduce, con gli orrori della guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale è uno spartiacque fondamentale per la periodizzazione della letteratura novecentesca: nell’opera di Primo Levi risuonano intatte le cupe note della deportazione, vissuta in prima persona dall’autore, nel campo di sterminio di Auschwitz. In Se questo è un uomo (apparso in una prima versione nel 1947), Levi aggrega singoli racconti della sua prigionia, descrivendo il senso di stasi, di confinamento in un tempo bloccato. La percezione temporale del sopravvissuto assume, in maniera sempre più accentuata, le connotazioni di memoria e di testimonianza. Ancora in ambito italiano non si può non ricordare la straordinaria testimonianza poetica costituita da una raccolta di Vittorio Sereni, Diario d’Algeria (1947); si ricorderà inoltre il precedente poetico della Grande Guerra riflessa nelle intense, fulminee e cesellate liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti, composte tra il 1914 e il 1919, nella quale spiccano i versi composti durante la prigionia: il ricordo afferma l’inquietudine del periodo, ma anche segni di vita, di speranza, come l’immagine consolatoria che raggruppa i compagni di sventura: “Rinascono la valentia / e la grazia. / Non importa in che forme – una partita / a calcio tra prigionieri: / specie in quello / laggiù che gioca all’ala”.
Gli anni che seguono la fine del conflitto segnano anche, in Italia, la necessità di fare i conti con l’orrore alle spalle e di ricostruire un senso plausibile per quanto è accaduto nel frattempo. Due romanzi legati al mondo della Resistenza piemontese sono imperniati su questa ricerca della verità: La luna e i falò di Cesare Pavese (1950) con il ritorno del trovatello Anguilla nelle Langhe, ora illuminate dai falò di morte dei partigiani, ai quali è stata sacrificata una delle “signorine” (le figlie del sor Matteo presso il quale lavorava prima di migrare verso l’America), Santa, accusata di collaborazionismo; e Una questione privata di Beppe Fenoglio (1965) con il ritorno di Milton che cerca, in un romanzo breve tra i più alti del Novecento, di ritrovare la figura amata di Fulvia e di comprendere l’intrecciarsi della sua vicenda con quella dell’amico Giorgio. Il filo del passato amoroso e quello della recente storia politica animano incessantemente la ricerca quasi proustiana del giovane, fino a consegnarlo al fuoco mortale dei Tedeschi.
Lo spettro che si agita accanto ai ricordi del secondo dopoguerra europeo è allora quello dell’amnesia, dell’assenza di ricordi: la cinematografia tra gli anni Cinquanta e Sessanta lo esplica in Hiroshima mon amour (1959) e Muriel, il tempo di un ritorno (1963), entrambi di Alain Resnais, o ne Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, ma si potrebbe giungere sino a L’uomo senza passato (2002) di Aki Kaurismäki.
Rispetto alla prima metà del secolo, alle sue vertiginose sperimentazioni, queste opere presentano un rapporto meno caotico e disorientante, più composto e ortodosso, rispetto al tempo della narrazione: lo scopo primario resta quello di illuminare il passato per mezzo di una memoria precisa e analitica.
Si prepara così la strada agli anni del postmoderno e al ritrovato piacere per il racconto che esso esprime, recuperando non di rado espressioni stilistiche tradizionali. In mezzo a questa tendenza, però, si distinguono alcune opere che propongono un ritratto del passato problematico, tutt’altro che risolto. Con W o il ricordo d’infanzia (1970), Georges Perec fonde in un libro peculiare diverse direzioni di racconto: una storia della propria infanzia, che ruota intorno a un nucleo generativo, la perdita della madre, e un romanzo d’avventure vissuto da Gaspard Winckler, alter ego dell’autore, che sbarca in un’isola al largo della Terra del Fuoco dominata da un severo codice olimpico, da competizioni sportive che sfociano in una sadica disciplina. L’avventura e l’utopia servono a Perec per stornare da sé un eccessivo rigore autobiografico e allo stesso tempo divengono territori immaginari dove disseminare tracce, segni che rimandano alla sua infanzia, alla condizione erratica delle sue origini ebraiche.
Anche nella narrativa mitteleuropea degli ultimi decenni del Novecento l’insistenza sulla memoria si fa più avvertita: può ancora prendere la forma di un ritorno sui luoghi del passato da parte del protagonista, come l’indagine sull’inspiegabile suicidio della madre in Infelicità senza desideri (1972) dell’austriaco Peter Handke. Oppure può tradursi in un lamento, una “irritazione”, un’espressione di sdegno senza interruzioni, da parte di un narratore che ha covato per anni il proprio odio nei confronti di una società borghese meschina e viziata (il quale riprende da Montaigne l’idea che “nulla è più difficile, ma anche più utile, dell’autodescrizione”). È il movente dei romanzi di Thomas Bernhard, che concepisce il racconto come modo per affidare alla meditata violenza della parola il coacervo di memorie che riaffiorano dall’Austria provinciale descritta dai suoi monologhi (Perturbamento, 1967; L’origine. Un accenno, 1975; Il freddo. Una segregazione, 1981; A colpi d’ascia. Un’irritazione, 1984). Poco prima della sua prematura scomparsa, un professore di letteratura tedesca contemporanea in Inghilterra, Winfried Georg Sebald, si impone all’attenzione internazionale per la straordinaria qualità di un romanzo-labirinto quale Austerlitz (2001). Attraverso la figura di un professore di storia dell’architettura, Jacques Austerlitz, dimentico del proprio passato, Sebald progetta un recupero a ritroso di luoghi e storie del Novecento, sempre filtrato dalla prodigiosa capacità di raccontare del personaggio, ricreando dal vuoto della storia figure, immagini, insegne di negozi, stanze di biblioteche, che il lettore ritrova sotto forma di fotografie accluse al testo. Con Austerlitz il Novecento sembra chiudersi, nel tentativo di restituire alcuni punti fermi al problematico dibattito sul potere della memoria.