Un atteggiamento che attraversa se non tutte, almeno moltissime delle correnti filosofiche novecentesche e che non può essere riscontrato con tale ampiezza nei secoli precedenti […] è quello che è stato indicato come “svolta linguistica”.
È difficile fare la sintesi di un secolo in cui la maggior parte degli attuali abitanti del pianeta sono nati e vissuti, perché manca la distanza necessaria per filtrare, lasciare cadere personaggi, eventi, teorie, e ricordarne altri come fondamentali.
D’altra parte si potrebbero riassumere in una formula i caratteri fondamentali della filosofia del XIX secolo? Essa non potrebbe essere ridotta a quel fenomeno grandioso che fu l’idealismo, perché vi si potrebbe opporre la stagione del positivismo, ma si dovrebbe contemporaneamente citare la nascita del neotomismo e del marxismo – mettendo così in gioco degli opposti che sfuggono a ogni tentativo di conciliazione.
Altrettanto variegato si presenta il panorama novecentesco: l’eredità dell’idealismo continua ancora quasi sino a metà secolo – e con particolare successo in Italia attraverso il pensiero di Croce e Gentile – ma contemporaneamente si sviluppa un’intensa rivisitazione del pensiero di Marx, da Gramsci alla scuola di Francoforte e a Lukács.
Sin dall’inizio neokantismo, storicismo, fenomenologia, bergsonismo, psicoanalisi, neospiritualismo, esistenzialismo, pragmatismo o nuova filosofia della scienza – dove talora i pensatori più interessanti non sono filosofi ma per esempio fisici come Einstein e Heisenberg –, si contendono la scena in modo tale da non poter eleggere alcuna di queste correnti a modello della filosofia novecentesca.
Qualcuno potrebbe opporre (come tipica frattura del XX secolo) la distinzione tra filosofia analitica (nata e praticata in modo massiccio nel mondo anglosassone) e quella filosofia che gli analitici hanno definito come “continentale”. Ma filosofia continentale non è una caratterizzazione teorica bensì geografica, che vorrebbe designare il pensiero di origine europea in genere – componendo così un insieme abbastanza incongruo che ha tra i suoi ingredienti, per fare solo alcuni esempi, il marxismo e lo spiritualismo cristiano, Husserl e Whitehead, Heidegger e Adorno, Sartre e Habermas, Maritain e Foucault. Per cui in fin dei conti l’espressione “filosofia continentale” designerebbe soltanto tutto ciò che la filosofia analitica non riconosce come caratteristico del proprio canone.
Si deve pertanto tentare di indicare un atteggiamento che attraversa se non tutte, almeno moltissime delle correnti filosofiche novecentesche e che non può essere riscontrato con tale ampiezza nei secoli precedenti: questo atteggiamento è quello che è stato indicato come “svolta linguistica”.
Inizialmente si è parlato di svolta linguistica proprio per il canone analitico, andando a identificarne il momento aurorale nella filosofia britannica del linguaggio ordinario, in Russell, e poi in Wittgenstein, nel positivismo logico, sino a tutti i vari aspetti della filosofia americana – vedi per esempio il suo massimo rappresentante, Quine – dove l’analisi del linguaggio si avvale di strumenti logici, ovvero si applicano strumenti della logica formale sia al linguaggio scientifico che a quello comune. Questa filosofia è fortemente dominata da un concetto forte e oggettivo di verità.
Ma di svolta linguistica si può parlare anche per la filosofia detta continentale. Si pensi per esempio all’ermeneutica come filosofia dell’interpretazione, che va dall’attenzione rivolta al linguaggio dal secondo Heidegger sino a Ricoeur, dall’incontro tra filosofia e linguistica verificatosi con le varie correnti dello strutturalismo, alle varie teorie dell’interpretazione da Gadamer a Pareyson e, in tutt’altra chiave, alle discipline semiotiche e alla riscoperta di un pensatore come Peirce, dallo strutturalismo alla decostruzione e alle varie declinazioni del neopragmatismo, mentre a fenomeni comunicativi si rivolge l’attenzione della scuola di Francoforte. E infine, persino a inizio secolo Benedetto Croce definiva la sua estetica come “scienza dell’espressione e linguistica generale”.
Quello che molti analitici rimproverano tuttavia alla svolta linguistica continentale è non solo la sua incontrollata ampiezza d’orizzonti, e il suo esercitarsi su ampie porzioni testuali (opposti al rigore logico con cui l’altra corrente si limita ad analizzare precise porzioni minimali di un linguaggio per così dire costruito in laboratorio), ma di affrontare anche i fenomeni non linguistici come fossero testi e di non basarsi su un criterio oggettivo e verificabile di “verità” bensì di asserire che non esistono fatti ma solo interpretazioni.
La polemica è rozza, ha assunto talora l’asprezza di una guerra di religione e spesso non riesce a tenere conto di molte analogie e punti in comune tra i due lati della barricata: per esempio la teoria di Kuhn dei paradigmi scientifici pare molto più vicina alla filosofia continentale che alle forme più ortodosse di filosofia analitica e il neopragmatismo di Rorty appare più vicino alle teorie europee che sostengono il primato delle interpretazioni sui fatti che non all’ortodossia analitica, che anzi lo stesso Rorty mette in discussione.
Ma qui interessava soprattutto individuare una tendenza che pare caratterizzare gran parte delle diverse filosofie del Novecento. Probabilmente il fatto che del mondo e dell’uomo si possa parlare solo analizzando il linguaggio e altri mezzi di espressione e comunicazione, in futuro apparirà come la caratteristica saliente del pensiero novecentesco.