"Chiedere cosa sia la filosofia non è una domanda accademica, perché la filosofia è di per sé una modalità peculiare con cui la vita comprende se stessa; e viceversa chiedere com’è la vita non è una domanda “personale” o “emotiva”, ma squisitamente ontologica."
Martin Heidegger negli anni Venti
Martin Heidegger nasce a Meßkirch il 26 settembre 1889. Iniziati gli studi teologia (durante i quali legge Il molteplice significato dell’ente secondo Aristotele di Franz Brentano), lascia dopo due anni per filosofia.
Nel 1913 presenta una tesi di dottorato su La dottrina del giudizio nello psicologismo, e nel 1915 lo scritto per l’abilitazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. La lezione per la libera docenza è su Il concetto di tempo nella scienza della storia. Nel 1914 si arruola volontario nella prima guerra mondiale, ma è congedato per motivi di salute. Nel 1917 sposa una giovane protestante, Elfriede Petri.
Nel 1919 diventa assistente di Husserl a Friburgo. Nel 1923 viene chiamato all’Università di Marburgo, dove resterà sino al 1928. Qui avviene l’incontro amoroso con la filosofa e scrittrice Hannah Arendt. Nel 1927 appare Essere e tempo.
Nel 1928 è chiamato a Friburgo come successore di Husserl. Nel 1933 assume il Rettorato (con un discorso su L’autoaffermazione dell’Università tedesca) e aderisce al Partito nazionalsocialista. Resterà in carica meno di un anno.
Caduto il regime, viene interdetto (fino al 1949) dall’insegnamento. Nel 1947 appare la Lettera sull’“umanismo”, in cui si rende nota la cosiddetta “svolta” del suo pensiero. I suoi interventi più importanti sono raccolti in quattro volumi: Sentieri interrotti (1950); Saggi e discorsi (1954); In cammino verso il linguaggio (1959) e Segnavia (1967). Ma bisogna ricordare anche le Dilucidazioni sulla poesia di Hölderlin (1944); Che cosa significa pensare? (1954); Il principio di ragione (1957); L’abbandono (1959) e il Nietzsche (1961).
Pochi giorni dopo la sua morte (Friburgo, 26 maggio 1976) appare l’intervista Ormai solo un Dio ci può salvare.
A partire dal 1975, su disegno dello stesso Heidegger, inizia presso l’editore Klostermann di Francoforte la pubblicazione dell’edizione completa (Gesamtausgabe) delle sue opere. A tutt’oggi è stata pubblicata più della metà dei 102 volumi previsti, suddivisi in 4 sezioni: I. “Scritti pubblicati in vita”; II. “Corsi universitari”; III. “Trattati inediti, Conferenze, Pensieri”; IV. “Indicazioni e Appunti”.
L’attività di ricerca del giovane Heidegger segue tre direzioni:
(1) un attraversamento critico della fenomenologia husserliana, intesa come l’unico metodo adeguato per sviluppare la ricerca filosofica – a patto però di intenderla come il modo in cui la vita comprende se stessa;
(2) la riscoperta del cristianesimo primitivo (soprattutto attraverso le lettere di san Paolo) come una modalità originaria di fare esperienza della finitezza dell’essere umano, cioè della sua temporalità e storicità – a patto però di intendere il cristianesimo non come farebbe un fedele, ma come farebbe un ateo;
(3) l’appropriazione del pensiero di Aristotele (soprattutto nell’Etica Nicomachea e nella Fisica), come una descrizione di quel movimento che costituisce l’essere della vita umana – a patto dunque di non seguire più l’interpretazione neoscolastica di Aristotele come preparazione alla teologia rivelata.
In ciascuna di queste tre direzioni possiamo ritrovare le due questioni che impegnano esplicitamente tutti i corsi tenuti da Heidegger negli anni Venti, e cioè: a) Che cos’è la filosofia? e b) Qual è il modo di essere della vita?
Chiedere cosa sia la filosofia non è una domanda accademica, perché la filosofia è di per sé una modalità peculiare con cui la vita comprende se stessa; e viceversa chiedere com’è la vita non è una domanda “personale” o “emotiva”, ma squisitamente ontologica.
La coappartenenza di queste due domande viene contrassegnata da Heidegger con un concetto originale rispetto a quelli che la storia del pensiero gli metteva a disposizione: il concetto di “vita fattuale”. La “fatticità” della vita non va intesa né come condizioni oggettive della vita (un “dato di fatto” di tipo biologico o storico, o uno stato di cose “effettivo”) né con i condizionamenti soggettivi o psicologici dell’io (le aspettative, i timori, i progetti che ciascuno di noi nutre), perché in questi casi la vita sarebbe concepita a partire da qualcosa di altro o diverso da sé. Essa significa piuttosto un modo d’essere originario della vita, e cioè il “come” essa vive ogni suo contenuto o situazione. In questo “come” Heidegger individua il livello ontologico più proprio dell’uomo: esso non coincide né con la coscienza, né con l’io, e non è comprensibile né con la metafisica né con la psicologia, ma solo attraverso quella più radicale e originaria considerazione della vita che è la fenomenologia.
Husserl aveva posto come tema una “fenomenologia dei vissuti” dell’io, e in particolare nella VI Ricerca logica (cui Heidegger presterà sempre un’attenzione particolare) aveva parlato della capacità dell’io di cogliere, con un atto di “intui-zione” o di “percezione” categoriale, la struttura essenziale degli oggetti sensibili, quindi il loro “essere” ciò che sono. In questo egli aveva certamente indicato, almeno agli occhi di Heidegger, il livello ultimo o originario della filosofia, individuato appunto in un atto intenzionale dell’io in cui si rendeva presente, come suo riempimento, l’essenza della cosa stessa. Ma poi Husserl con la pubblicazione delle Idee I (1913) aveva curvato la sua indagine in senso idealistico e trascendentale, identificando l’origine fenomenologica nella coscienza pura, cioè in quello che restava dopo aver operato la sospensione (epoché) del mondo così come esso ci si dà abitualmente. Ma per Heidegger ciò sembrava annullare proprio la novità e la radicalità del vedere fenomenologico. Bisognava dunque intendere e praticare la fenomenologia in maniera più radicale dello stesso Husserl, cercando non nella coscienza pura ma nella vita fattuale – sempre di per sé orientata a un rapporto con il mondo e, anzi, costituente essa stessa un mondo – il terreno originario della filosofia. La vita non va ingabbiata all’interno di strutture concettuali elaborate dalla nostra mente: al contrario, essa porta dentro di sé le categorie più adeguate per essere compresa.
Analizzando l’esperienza descritta in alcune Lettere di san Paolo (nel corso del 1919-1920 intitolato Introduzione alla fenomenologia della religione), Heidegger mette a fuoco il concetto di tempo così come è inteso, o meglio “vissuto” dalle comunità protocristiane, e cioè come la modalità più specifica dell’essere della vita stessa, che è appunto “fattuale” non perché “ha” il tempo, ma perché “è” il tempo. Questa temporalità – e con essa la finitezza della vita umana – non va intesa però come il segno del suo carattere “creaturale”, e quindi del suo rapporto di dipendenza dall’essere eterno (Dio), ma al contrario come il fatto che la vita è originariamente un rapporto con sé stessa, vale a dire non è qualcosa di “dato” o di “presente”, ossia non è un semplice “ente” già costituito in sé, che poi entri in rapporto con ciò che è altro da sé (il mondo, gli altri uomini, Dio), ma “è” temporalmente, cioè consiste nel movimento mai concluso di pervenire a se stessa.
Nell’esperienza della vita fattuale emerge un modo diverso di concepire il tempo, rispetto al modo “cronologico”, con cui noi abitualmente lo “contiamo”. Nella sua interpretazione di Paolo, Heidegger mostra come la seconda venuta di Cristo (o parusía) sia vissuta non come il rapportarsi a un evento futuro che debba ancora accadere, ma come una dimensione specifica con cui il cristiano vive il suo presente, continuamente de-centrato da sé stesso, in questo caso vivendo nella sobrietà e vegliando nell’attesa. Paolo non dice mai “quando” avverrà la seconda venuta che il cristiano attende; piuttosto egli individua in questa attesa il “come” della vita.
Questa interpretazione del nesso tra il tempo e la vita viene radicalizzata nella lettura che Heidegger farà dell’XI libro delle Confessioni di Agostino, lì dove si pone la domanda su “che cos’è il tempo”: la cosa più ovvia e scontata che ci sia, e insieme quella più difficile da definire nella sua essenza. La risposta data da Agostino è che il tempo non è qualcosa di misurabile in sé o un semplice metro di misura delle cose che passano, perché esso è misurato solo nello spirito (animus), e più precisamente ciò che misuriamo sono le impressioni che le cose che passano lasciano nello spirito. Heidegger interpreta questa posizione agostiniana così: “io misuro il ‘sentirmi’ nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. È il mio ‘sentirmi’ che misuro […] quando misuro il tempo” (Il concetto di tempo). Il tempo, dunque, appartiene alla struttura originaria della vita, come esperienza della propria fatticità.
Cassirer e Heidegger a Davos nel 1929
Eppure questa scoperta, una volta divenuta oggetto della teologia e della metafisica, ha perso secondo Heidegger la sua novità e la sua radicalità; e proprio per salvaguardarla bisogna ripensarla attraverso categorie filosofiche precristiane. Per capire sul serio Paolo e Agostino bisogna ritornare ad Aristotele.
Nel pensiero aristotelico accade secondo Heidegger la più decisiva auto-interpretazione della vita nei termini del “movimento”. Il nome stesso di vita fattuale cede il posto ad un nome più specifico e meno equivocabile, quello di “esserci” (Dasein) o “esistenza” (Existenz) che alla fine verrà a sostituire del tutto il precedente.
Aristotele costituisce una presenza costante e decisiva in molti dei corsi tenuti da Heidegger negli anni Venti, poiché nei testi del filosofo greco – soprattutto nell’Etica Nicomachea, nella Metafisica, nel De anima e nella Fisica – egli ritrova i concetti più appropriati per descrivere come si muove la vita. E la vita si muove sempre “prendendosi-cura” di qualcosa, cioè riferendosi sempre a oggetti, situazioni, dati presenti nel mondo (in ciò che Heidegger chiama un “commercio” con il mondo, ossia un “avere a che fare” con le cose) ma tendendo anche sempre a identificarsi con queste cose e quindi a perdersi in esse, perdendo con ciò la specificità del suo essere. Heidegger ne parla come di una tendenza a “cadere in rovina” o a “rovinare”, che non è una situazione occasionale o accidentale, ma appartiene alla vita come una sorta di “forza di gravità”, che la porta naturalmente a cadere e a decadere. Tale “forza di gravità” è il “come” strutturale dell’esistenza, quindi il perdersi o l’estraniarsi della vita appartiene al suo stesso essere. Da questo cadere dell’esistenza emerge – senza che intervenga nulla a invertire la prima tendenza, bensì come una naturale inversione del movimento esistenziale, quasi l’oscillazione di un pendolo – una sorta di “contromovimento, come preoccupazione da parte della vita di non perdere se stessa”, ed è qui che la vita “si temporalizza”, cioè emerge il carattere storico del suo essere.