TEMI E PROFILI Il secondo Heidegger: la “svolta”

di Costantino Esposito

Una delle idee più caratteristiche del pensiero heideggeriano dopo la “svolta”, è che la verità non coincide mai solo con il manifestarsi delle cose.

Dall’inizio degli anni Trenta il pensiero di Heidegger comincia a maturare quella che egli stesso, nella Lettera sull’“umanismo” del 1946, ha definito come una “svolta”.

Rispondendo a una domanda postagli dall’intellettuale francese Jean Beaufret – “Come ridare un senso alla parola ‘umanismo’?”, particolarmente avvertita nella cultura europea dopo la seconda guerra mondiale – Heidegger insiste sul fatto che il concetto stesso di “umanità” è del tutto inadeguato a cogliere l’essenziale livello ontologico che contrassegna l’ente-uomo. In tutte le varie interpretazioni dell’umanità si è sempre partiti da “un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nella sua totalità” – e quindi da una metafisica.

Qui il termine “metafisica” indica la tradizione in cui viene dimenticata la questione della verità dell’essere. Tuttavia, per poter riproporre tale questione si deve andare al fondo nascosto di essa, per pensare – dentro la metafisica – ciò che la metafisica stessa non ha pensato o ha impedito di pensare.

Se dunque con l’analitica dell’esserci (Dasein) Heidegger aveva pensato l’uomo in maniera diversa dalla tradizione metafisica, alla fine egli scopre che la metafisica in realtà coincide con l’esserci stesso, il quale – proprio come la tradizione metafisica – dimentica e dà per scontato il senso originario dell’essere, ma al tempo stesso ne riapre continuamente la domanda. Così l’esserci va reinterpretato come il luogo di apertura della verità dell’essere – o come Heidegger si esprime – della “radura dell’essere”. Ma “questa svolta non è un cambiamento del punto di vista di Essere e tempo”, bensì l’accesso a quell’esperienza fondamentale da cui era nascostamente partita l’opera maggiore, e cioè l’esperienza dell’“oblio dell’essere” (Lettera sull’“umanismo”).

L’oblio dell’essere non è però un modo sbagliato o insufficiente di comprendere l’essere, ma fa parte della sua verità. Perciò si potrà passare dall’oblio dell’essere al “pensiero dell’essere”.

TESTO

T6: Martin Heidegger, L’essere

La verità come “alétheia

Il punto in cui questa “svolta” si è prodotta sono due scritti risalenti al 1930-1931. Nel primo – il testo rielaborato di una conferenza sul tema Dell’essenza della veritàHeidegger parte dalla concezione tradizionale della verità come adaequatio rei et intellectus, intesa come conformità di una cosa data al proprio concetto espresso in un’asserzione logica.

Ma in base a cosa, si chiede Heidegger, un’asserzione può concordare con una cosa, visto che si tratta di due enti diversi tra loro, vale a dire una “rappresentazione” conoscitiva e la cosa stessa rappresentata? In realtà, l’apparire della cosa che noi asseriamo vera “si attua entro un aperto, la cui apertura non è creata dal rappresentare”. È quest’“aperto”, non l’asserzione, il luogo proprio della verità, ed è solo nel comportarsi che nasce l’accordo tra l’asserire rappresentativo e la cosa: esso si origina nel nostro “essere liberi per ciò che è manifesto in un’apertura”, tanto da far dire ad Heidegger che “l’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà” (Dell’essenza della verità, § 3).

Heidegger elabora un’idea di verità – seguendo l’etimologia del termine greco alétheia, composto di alfa privativo (“non”) e lethe (“nascondimento”) – come “dis-velamento” o “svelatezza”. Quest’ultima va intesa come “un venire alla presenza che si schiude” da parte dell’ente in totalità, ed è “custodita” nell’esistenza dell’uomo, e cioè dalla sua stessa libertà, come “il lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell’ente in quanto tale”.

Questa considerazione della verità porta con sé due importanti conseguenze: la prima è data dal particolare rapporto che vige tra l’uomo e l’essere, che non è più inteso da Heidegger nei termini della “comprensione” di cui parlava Essere e tempo, ma piuttosto come lo stare esposti nell’aperto del disvelamento. La seconda è che custodire la verità da parte della libertà dell’esserci, non vuol dire solo permettere all’ente di venirgli incontro, ma anche e soprattutto lasciare nel nascondimento – cioè nella “velatezza” – l’ente in totalità, vale a dire l’essere stesso. Si tratta di una delle idee più caratteristiche del pensiero heideggeriano dopo la “svolta”, e cioè che la verità non coincide mai solo con il manifestarsi delle cose. È in un’originale lettura del mito della caverna, narrato da Platone nella Repubblica, che Heidegger ritrova il momento epocale del passaggio dalla concezione della verità come “svelatezza” (alétheia) a quella di verità come idéa, “visività”, in cui si compie ogni apparire degli enti. “Le idee sono ciò che ogni ente è”, e “l’idea di tutte le idee consiste nel rendere possibile l’apparire di tutto ciò che è presente in tutta la sua visività”. E difatti il “bene” (cioè la massima idea) sarebbe per Platone “ciò che fa risplendere tutto ciò che può risplendere”.

A partire da questo spostamento inizierà ad affermarsi una concezione del vero sempre più identificato con ciò che è “corretto” all’interno di un’asserzione, quindi come un prodotto delle nostre rappresentazioni: la correttezza del rappresentare e il riferimento alle idee come “valori” costituisce il tratto caratteristico della “umanità occidentale”, come la massima dimenticanza del “mistero” dell’essere.

L’essere come “evento”

Questa concezione della verità costitui-sce il cuore di quell’opera “segreta” che Heidegger redasse per se stesso tra il 1936 e il 1938, sotto il titolo di Contributi alla filosofia (Dell’evento).

L’idea fondamentale seguita da Heidegger nei Contributi è che si debba concepire l’essere non più, metafisicamente, come la “presenza” dell’ente, ma come un accadimento – un evento – che si sottrae a tale presenza e anche alla comprensione che può averne l’uomo: giunti infatti alla fine della metafisica, il pensiero scopre che gli enti sono “abbandonati” dall’essere, e che grazie a questo abbandono si può imporre il dominio degli enti, cioè la riduzione del mondo a calcolabilità e organizzazione tecnica, a cui corrisponde l’imporsi della cultura non come indagine ma come occultamento della verità.

Ma quello che Heidegger vuole proporre non è un’ennesima analisi sulla “crisi” dell’epoca moderna, quanto piuttosto individuare, proprio nell’abbandono degli enti da parte dell’essere un tratto essenziale della verità nascosta dell’essere, che consiste proprio nel ritrarsi rispetto all’ente. L’essere “è”, o, meglio, “si essenzia” nel “sottrarsi”.

Per indicare che il termine “essere” (Sein) significa ormai qualcosa di diverso rispetto alla tradizione metafisica, Heidegger lo scrive qui secondo la grafia arcaica (Seyn); ma anche l’“esserci” non va più pensato come l’ente comprendente o “progettante” l’essere, ma come la “radura”, “il luogo per il nascondersi” dell’essere, luogo in cui viene custodito l’evento del ritrarsi dell’essere, cioè la sua verità.

Perciò se da un lato bisogna “oltrepassare” la metafisica, andando oltre le sue modalità di pensare l’essere a partire dall’ente, dall’altro non si potrà mai fuoriuscire dal suo oblio, né strappare all’oblio qualcosa che è stata obliata. Se l’oblio custodisce l’essere come ritrarsi continuo, allora la metafisica andrà solo “superata”.

L’appello dell’essere nell’epoca della tecnica

Se la verità dell’essere è ciò che fonda ogni epoca storica determinandone il tratto essenziale e il destino necessario, qual è il tratto della nostra epoca, e quale il suo destino?

Il tratto essenziale della nostra epoca consiste nel carattere metafisico e il suo destino sta nella tecnica, intesa come il compimento della metafisica come nichilismo. La tecnica che domina il mondo occidentale non inizia per Heidegger quando tramonta l’antica concezione metafisica della realtà, ma appartiene all’essenza stessa di tale concezione, e quindi il suo dominio pervasivo altro non è che il compimento della metafisica.

La nostra epoca è chiamata l’epoca della tecnica in virtù di un’organizzazione sempre più pianificata del mondo, come strumento di una manipolazione calcolata della realtà naturale e di quella culturale e sociale da parte dell’uomo. Poiché la tecnica è un modo del disvelamento della verità dell’essere, l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico. La tecnica moderna per Heidegger è anzitutto “un modo del disvelare”, che non consiste semplicemente nella produzione delle cose, ma piuttosto “provoca” l’uomo a rapportarsi agli enti identificando il loro svelamento con l’utilizzo che se ne può fare come materiale d’uso, “fondo” accumulato per l’impiego. L’insieme di tutti i modi in cui l’uomo è chiamato a “porre”, disporre, produrre, e così via, viene chiamato da Heidegger il Ge-stell, che potremmo tradurre come “impianto” o “imposizione”.

Heidegger dunque non rifiuta la tecnica; al contrario, invita ad approfondire il mistero che essa veicola. Bisogna dunque pensare che “l’essenza della tecnica alberghi in sé la crescita di ciò che salva”, e quindi guardando a fondo l’impianto – inteso come un destino del dis-velamento – potrà forse “apparire nel suo sorgere ciò che salva”, secondo il verso famoso di Hölderlin: “dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il poeta tedesco è al centro di un colloquio che Heidegger inaugura negli anni Trenta, con lo scritto Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), e che giunge fino agli anni Settanta. Se “noi uomini siamo un colloquio” e quindi “l’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio”, allora la poesia, e quella di Hölderlin in particolare, viene intesa da Heidegger come la forma più autentica di linguaggio (“...poeticamente abita l’uomo...”, 1951). In essa l’uomo trova un luogo libero dalla chiacchera e da quella parola che occulta l’essere riducendolo a ente, a oggetto. Poetare significa disporsi ad accogliere l’appello dell’essere. La poesia non è dunque “inutile sentimentalismo” e “fuga nell’idillio”, ma piuttosto “la casa dell’essere” e “nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora.” (Lettera sull’umanismo).

Nichilismo e metafisica

Per Heidegger l’epoca della tecnica dispiegata è anche l’epoca in cui si manifesta l’essenza del nichilismo: un’essenza che non nasce dalla dissoluzione dei grandi sistemi metafisici, ma al contrario è presente sin dall’inizio della storia della metafisica, ed è quasi incubata in essa, nella misura in cui la metafisica si è sempre e solo occupata dell’essere dell’ente.

Il nichilismo può essere inteso fondamentalmente in due modi: uno è quello descritto e canonizzato da Nietzsche, come la svalutazione di tutti i valori; l’altro è quello che cerca di cogliere la sua essenza metafisica. Nietzsche stesso, secondo Heidegger, con la sua concezione del nichilismo ha pensato esplicitamente quel tratto fondamentale della metafisica occidentale che è la riduzione dell’essere a ente e della verità dell’ente a valore. Non solo dunque i vecchi valori svalutati, ma anche i nuovi valori posti dalla volontà di potenza rimangono essenzialmente metafisici. La storia del nichilismo e la storia della metafisica, quindi, si coappartengono in maniera essenziale, o meglio la prima costituisce il movimento nascosto all’interno della seconda.

E se finora la metafisica è sempre stata intesa come “onto-teo-logia”, cioè come trattazione dell’ente in quanto ente, e insieme del fondamento dell’ente (individuato sempre in un ente “sommo”), ora essa va pensata come la storia dell’assenza o mancanza dell’essere stesso.

L’essenza del nichilismo è dunque la sottrazione dell’essere (per indicare la quale Heidegger usa ora la scrittura essere barrato). Non si può uscire dall’oblio, ma ci si può raccogliere in esso: la salvezza dal nichilismo va dunque intesa da Heidegger come salvezza del nichilismo, cioè la custodia della chiamata silenziosa del niente.