Max Ernst, Donna, vecchio e fiore, 1923-1924, New York, Museum of Modern Art (MoMA)
Dopo secoli di storia, l’ontologia sembra oggi aver perduto la propria identità disciplinare ed essere diventata un’etichetta cui viene convenzionalmente riportata una famiglia di problemi. Negli ultimissimi anni questa deriva è giunta persino a suggerire l’opportunità di un cambiamento di nome (come il termine “metametafisica”), o di accettare un’indifferente oscillazione tra “ontologia” e il più consolidato “metafisica” per raccogliere i problemi in questione ma i problemi che le si intitolano conservano un’innegabile coesione.
Nel consolidarsi della tradizione analitica tornano in primo piano diverse questioni riguardanti quella che dopo Wolff, considerato tra i padri della ripresa della metafisica in età moderna, è definita la “scienza dell’ente in generale”. La prima, tra le più notevoli, è l’antichissima disputa sugli universali, ossia la contrapposizione tra i sostenitori dell’effettivo darsi di entità quali ad esempio le proprietà (l’essere mortale), le essenze (l’umanità), o le relazioni (l’essere figlio), imputabili a una pluralità di individui (Socrate, Tizio, chi sta scrivendo queste righe ecc.), e i suoi negatori (i “nominalisti”) che ascrivono invece tali caratteristiche a entità mentali come i concetti o a termini linguistici generali (i nomi, paradigmaticamente) cui non corrispondono entità reali.
Nel riaccendersi della disputa emergono diverse proposte metodologiche, derivanti dall’enorme impulso fornito dai capostipiti della tradizione analitica a quelle che erano considerate le sue discipline basilari: logica, epistemologia, filosofia del linguaggio. Soprattutto, diventa centrale una strategia di fondo, consistente nel reimpostare questo e altri problemi, resistenti e irrisolti, alla luce della differenza tra il loro apparire in una formulazione linguisticamente e logicamente irriflessa (“grammaticale”) e il loro apparire in una versione più accuratamente istruita e formalizzata (“logica”). A partire da qui, il quadro delle discussioni ontologiche cambia profondamente rispetto alla tradizione, e non solo rispetto all’accuratezza con cui vengono condotte.
Questo lo si vede ancor meglio nel dibattito, sviluppatosi anch’esso all’origine della tradizione analitica, relativo alla predicazione di non esistenza, relativo cioè alla realtà dei referenti dei cosiddetti “nomi vuoti”, o delle entità fittizie. Per evitare, ad esempio, i paradossi dell’attribuzione di non-esistenza con la frase “Pegaso non esiste” occorrerà parafrasarla come “Non si dà il caso che esista uno e un solo cavallo alato”, ovvero “È falso che esista almeno un cavallo alato e che esista al più un cavallo alato”. Analogamente, per evitare l’attribuzione di esistenza a un universale come, ad esempio, il colore rosso con la frase “Questi due pomodori sono entrambi esempi del rosso” occorrerà parafrasarle come “Questo pomodoro1 è rosso1 e questo pomodoro2 è rosso2”, ammettendo una sufficiente somiglianza apparente tra le due tinte di rosso, che rimangono individuali.
Pegaso, frammento di un vaso attico a figure nere, fine VI sec. a.C., Monaco, Staatliche Antikensammlungen
Tuttavia lungo tutto il Novecento si viene rafforzando la più grave obiezione a tale strategia: ammesso che la forma grammaticale di un enunciato possa essere fuorviante e generare più o meno classici paradossi relativi all’esistenza, quali sono i criteri per decidere quando è veramente così? E quali sono i criteri rispetto a cui valutare l’adeguatezza di una parafrasi? Dopo l’apice raggiunto con la convinzione di Carnap di poter dissolvere ogni tradizionale (pseudo) problema metafisico mediante l’analisi linguistica, nella seconda parte del Novecento, nella scia di quella obiezione e grazie agli apporti della tradizione pragmatista (C.I. Lewis, Quine, Goodman ecc.), si è assistito a una vera e propria riabilitazione della metafisica nella filosofia analitica (e, con essa, dell’ontologia), in un panorama dove, accanto all’analisi logica e linguistica, vengono adoperati molti altri strumenti come gli esperimenti mentali, il ricorso all’intuizione, il rivolgersi alle conoscenze empiriche.
Oltre a ciò, per valutare il processo che ha portato all’attuale fioritura dell’ontologia nella filosofia analitica vanno attentamente considerati gli apporti della fenomenologia. La fenomenologia aveva già operato un risollevarsi dell’ontologia dalla parabola discendente iniziata con il kantismo, per almeno due ragioni. La prima consiste nel suo avere immesso nella discussione novecentesca diverse teorie metafisiche emerse nella scuola di Brentano (in cui spiccherà sempre più la figura di Meinong), dacché in area austrotedesca non era affatto occultato il significato minimo della “scienza dell’ente” già condiviso da un Suárez così come da un Wolff. L’altra ragione è lo specifico contributo della fenomenologia classica husserliana, intesa come studio delle strutture della coscienza in quanto esperite in prima persona. Infatti, pure in un quadro metodologico che intende mettere tra parentesi il problema dell’esistenza del mondo esperito, Husserl sviluppa risposte a problemi come quello del rapporto tra specie e individui (variante di quello del rapporto tra universali e particolari), o delle relazioni tra parti e tutto (la “mereologia” come branca tradizionalissima dell’ontologia), o del cosiddetto significato ideale.
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Strutturalismo
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La fenomenologia
In tale quadro teorico, però, negli anni Venti risultano dirompenti le riflessioni heideggeriane. Specie per lo Heidegger successivo a Essere e tempo, il pensatore cioè che si vuole pensatore della “svolta”, infatti, la visione fenomenologica va superata attraverso la comprensione di un essere che sarebbe collocato dietro agli enti oggetto della metafisica: una comprensione che va intesa come un’introduzione all’ontologia genuina. In questa proposta (al di là delle successive derive letterarizzanti importate dal passaggio dalla “fenomenologia esistenzialista” all’ermeneutica) si annida una questione seria che può forse essere illustrata al meglio richiamandone la distinzione tra ontico e ontologico. Secondo Heidegger, il pensiero metafisico (la considerazione ontica dell’essere) è segnato da tre “pregiudizi”: l’essere è universale (ovvero la categoria che comprende tutte le altre), è indefinibile, è autoesplicativo. Compito dell’ontologia è allora di riportarci alla questione originaria, “che cos’è l’essere?”, senza trattare l’oggetto di questa domanda come svuotato di senso dalla filosofia e senza considerare gli enti come meri rappresentanti di categorie particolari.
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Il primo Heidegger
In tutto ciò, tra le alterne vicende che vedono ignorarsi o contrapporsi le teorie analitiche di stampo anglosassone e le filosofie legate alle tradizioni di pensiero del “vecchio continente”, così come tra le proposte che vogliono dismessa o riabilitata la metafisica, il significato disciplinare di “ontologia” muta. Più o meno tacitamente, quella che si è costituita nella modernità come scienza dei predicati più generali dell’essere (la parte eminente, dunque, della metafisica) diventa un dibattito più o meno autonomo sul significato di “esistenza”, al punto che si propone come standard una storicamente inedita proposta di differenziazione dell’ontologia dalla metafisica che spesso si richiama all’immagine del catalogo. Diversi autori (tra i primi Quine), cioè, interpretano l’ontologia come risposta alla domanda “che cosa c’è?” e sostengono che risulti prioritaria sulla metafisica in quanto decide innanzitutto quali entità vadano considerate esistenti. Tale domanda può variamente articolarsi: perché affermiamo che gli dèi greci, le streghe o i membri del Circolo Pickwick non esistono? Esistono poi davvero i tavoli e le sedie, e in generale gli oggetti ordinari, oppure vanno considerate esistenti le sole particelle subatomiche che li costituiscono? Ed esistono le menti, oppure bisogna considerare esistenti in senso proprio soltanto i cervelli? Dopo aver posto queste domande, toccherà alla metafisica indagare la natura (il “che cos’è”) di ciò che rientra nella lista delle entità genuine.
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La filosofia analitica
Tuttavia, prima che la controversa immagine del catalogo degli esistenti si imponga sulla scena del dibattito filosofico, proponendo una nuova ragione per distinguere l’ontologia dalla metafisica, un altro dibattito si sviluppa sotto il titolo della prima, quello relativo ai criteri di esistenza, ovvero al cosiddetto “impegno ontologico”. Qui vale una differenziazione basilare diversa da quella tra ontologia e metafisica, tanto che in anni recenti e recentissimi si spinge per sostituire al primo termine, quasi fosse diventato obsoleto, quello di “metametafisica”. La differenza fondamentale sarebbe quella tra epistemologia e metafisica: tra l’indagine sul come verremmo a conoscere gli esistenti (e ad attribuire loro, come legittimamente pertinenti, determinate qualità e non altre) e quella sul come vadano qualificate tali entità prima e indipendentemente dalla nostra capacità di conoscerle. Un conto, cioè, sarebbe rispondere alla domanda sul come conosco il mio mal di denti, altro rispondere a quella su come deve essere (poniamo) un mal di denti perché possa essere conosciuto e detto esistente. In tale discussione, infine, va registrato un duplice orientamento. Secondo il primo, i criteri di esistenza vanno interpretati come principi discorsivi; e qui risultano celebri (e sempre controversi) quelli invocati da Quine (“essere è il valore di una variabile”, “non c’è entità senza un’identità”). Il secondo orientamento, invece, considera il criterio dell’esistenza come equivalente a uno o più criteri di esperibilità, risalendo al famoso argomento dei “cento talleri” invocato da Kant nella prima Critica contro la prova ontologica dell’esistenza di Dio, dove esistenza e concetto risultano radicalmente distinti, giacché il secondo permetterebbe di pensare a un oggetto semplicemente come possibile, mentre grazie alla prima il “contesto dell’esperienza totale” verrebbe accresciuto di “una percezione possibile di più”. Il che, per l’argomento kantiano, permetteva di pensare di avere in tasca cento talleri, sempre che quei talleri esistessero davvero.
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Dove sta Cappuccetto Rosso?Ontologia dei personaggi narrativi
Il termine “ontologia applicata” è entrato ormai stabilmente in uso nel campo dell’informatica, per descrivere il modo in cui schemi che descrivono entità vengono combinati in una struttura di dati che contiene tutte le entità rilevanti entro un dominio e ne descrive le relazioni. Dal punto di vista ingegneristico determinati programmi informatici possono sfruttare un’ontologia così intesa in varie maniere, ad esempio applicando tecniche per la risoluzione automatizzata di problemi, per simulare il ragionamento deduttivo in sistemi di intelligenza artificiale, per la costruzione di reti semantiche. Se si vuole, dunque, si tratta qui di ontologia solo in senso equivoco rispetto a quella che è così chiamata in filosofia, o al più si tratta di una disciplina così chiamata per una mera analogia con l’immagine del catalogo degli esistenti. In effetti, però, a guardare meglio, questa branca dell’ingegneria informatica mette in risalto problemi genuinamente filosofici messi in ombra dalle alternative ontologia/metafisica e epistemologia/ontologia, nonché dal dibattito sui criteri di esistenza che dominano la scena filosofica.
Il motivo è almeno uno e, per scorgerlo, conviene rivolgersi a quel particolare catalogo ontologico che era la scala naturae (ovvero la “grande catena dell’essere”) che comprendeva, digradando, la divinità, gli angeli e i demoni, gli astri e i pianeti, i sovrani e i nobili, gli esseri umani e animali, piante, pietre e metalli preziosi, minerali e altre sostanze. Nella sua somiglianza con le ontologie degli informatici, tale catalogo appare paradigmatico in quanto palesemente strutturato categoricamente e gerarchicamente. Al di là del suo trascurare questioni filosoficamente centrali come sono quelle dei criteri di inclusione e di correttezza descrittiva dei suoi elementi, la sua rigorosa strutturazione, cioè, rinvia a un problema che è stato tradizionalmente metafisico e poi posto al centro dell’ontologia moderna, ma è rimasto relativamente trascurato dall’ontologia novecentesca, sempre più incentrata, come si è visto, intorno al problema dell’attribuzione di esistenza: si tratta del problema della categorizzazione (reale o meno) degli enti, ossia della loro distribuzione e gerarchia in un sistema di generi e specie.