La Conferenza di Solvay. Essa pone le basi per la strutturazione formale della meccanica quantistica. In prima fila si riconoscono Max Planck, Marie Curie, Albert Einstein, Owen W. Richardson; in seconda fila Louis de Broglie, Niels Bohr; in terza fila Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, 1927
La fisica a cavallo tra il XIX e il XX secolo è attraversata da profondi cambiamenti. Sul finire dell’Ottocento, infatti, vasti settori considerati in precedenza ben distinti trovano efficace sintesi in particolare nella teoria elettromagnetica della luce, che unifica fenomeni di ottica ed elettrodinamica, e nella teoria cinetica e statistica dei gas. Il successo ottenuto dalla fisica (come dalla chimica) negli anni intorno al 1900 non deve però indurre a credere che la scienza di fine Ottocento sia immune da tormenti interni: gran parte dei suoi cultori auspica la riduzione di tutti i fenomeni fisici ai principi della meccanica, altri sostengono la necessità di superare il materialismo scientifico sostituendo al concetto di materia quello di energia, altri ancora contrappongono al riduzionismo meccanicistico la proposta di ridurre la meccanica all’elettromagnetismo. Alcuni fondamentali risultati sperimentali però trasformeranno rapidamente il panorama scientifico di riferimento.
Nel 1895 Wilhelm Conrad Röntgen osserva che dai raggi catodici (che si irraggiano da un catodo, ovvero da un polo con una carica elettrica positiva) si propagano altri raggi, detti “X”, che penetrano attraverso oggetti opachi alla luce e non appaiono classificabili né come materia, né come radiazione: essi non sono curvati da campi elettrici o magnetici, ma non risultano nemmeno soggetti a riflessione o rifrazione. Trascorreranno quasi due decenni prima che, grazie a Max von Laue (1879-1960), William Henry Bragg (1862-1942) e suo figlio William Lawrence (1890-1971), si dimostri la natura ondulatoria dei raggi X. Nel 1897 Joseph John Thomson (1856-1940) assume che i raggi catodici siano costituiti di “corpuscoli” che trasportano la stessa unità di carica degli ioni elettrolitici e deduce che siano circa mille volte più leggeri degli ioni di idrogeno. A tali particelle, in seguito denominate “elettroni”, sono attribuiti i ruoli fondamentali di componenti della struttura atomica e responsabili dell’interazione tra radiazione e materia.
Le ricerche sugli elettroni si intrecciano con quelle sulla radioattività. Nel 1896 Henri Becquerel (1852-1908) scopre che i sali di uranio impressionano lastre fotografiche. Un apporto decisivo proviene da Maria Skłodowska (1867-1934) e dal marito Pierre Curie (1859-1906), che si dedicano allo studio degli elementi radioattivi, scoprendo il polonio e il radio. I raggi emessi dalle sostanze radioattive sono di diversi tipi: Ernest Rutherford (1871-1937) dimostra che ve ne sono di meno penetranti, denominati “alfa”, e di più penetranti, detti “beta”. Questi ultimi sono deviati facilmente da campi magnetici, hanno carica negativa e il rapporto tra la loro carica e la massa coincide con quello dei corpuscoli di Thomson; si stabilisce perciò che i raggi beta consistono in un flusso di elettroni. Meno immediato sarà identificare i raggi alfa con nuclei di elio. Paul Villard (1860-1934) scopre infine nei raggi provenienti dal radio una componente “gamma”, che consiste in una nuova forma di radiazione elettromagnetica, simile ai raggi X.
Mesone
Il dibattito che si è sviluppato intorno al riduzionismo meccanicistico si trasferisce, in seguito alla scoperta dei raggi catodici, dei raggi X e della radioattività, alle nuove particelle che si ritiene compongano gli atomi. A sua volta, l’immagine elettromagnetica del mondo, secondo cui tutte le leggi della fisica vanno ricondotte a quelle dell’elettromagnetismo, è offuscata rapidamente dalla sua stessa complessità intrinseca, dal successo della teoria della relatività e dall’interesse per la teoria quantistica. Nel 1900, Max Planck introduce il concetto di “quanto”: la minima quantità di energia che la materia può scambiare con radiazione elettromagnetica di data frequenza. Nel 1905 Albert Einstein supera l’idea di Planck: egli stabilisce che a essere “quantizzato” è lo stesso campo elettromagnetico, piuttosto che i soli meccanismi che presiedono allo scambio di energia, e perviene per questa strada alla spiegazione dell’effetto fotoelettrico. Nelle mani di Niels Bohr, la teoria dei quanti assicura alcuni anni più tardi un contributo risolutivo a favore del modello nucleare di atomo, in cui agli elettroni sono associate, in contrasto con le leggi della fisica classica, orbite “stazionarie”.
Il 1905 è ricordato dagli storici come l’anno in cui Einstein, oltre ai risultati sull’effetto fotoelettrico (che gli varranno il premio Nobel nel 1921), pubblica i lavori sul moto browniano e sulla relatività ristretta. La sua spiegazione del comportamento di particelle colloidali in sospensione osservato nel 1827 dal botanico Robert Brown è sottoposta ad attenta verifica sperimentale da Jean-Baptiste Perrin, (che per questo otterrà il Nobel nel 1926). Più complesso è il contesto in cui viene elaborata la teoria della relatività. La teoria ondulatoria in voga nell’Ottocento prevede che la luce si propaghi attraverso l’etere, del quale tuttavia non si riesce a mettere sperimentalmente in evidenza l’esistenza. Peraltro, la scelta di un determinato sistema di riferimento come “privilegiato” (il moto rispetto all’etere era considerato come “moto assoluto”) – su cui insiste ancora Lorentz, che pure nel 1892 aveva definito nuove trasformazioni di coordinate estendendo il principio galileiano di relatività – introduce indesiderabili asimmetrie nella descrizione dei fenomeni fisici. Da qui prende le mosse Einstein per la sua radicale innovazione teorica: egli nega l’esistenza dell’etere, estende la validità della relatività galileaina tanto all’elettromagnetismo quanto alla meccanica (rinunciando a ridurre l’una delle discipline all’altra), e rifiuta l’idea di un sistema di riferimento privilegiato. Einstein assume inoltre che la velocità della luce sia invariante e costituisca un limite massimo per il cambiamento di posizione in funzione del tempo. Da tutto ciò, come egli mostra, segue la convenzionalità della simultaneità e la non assolutezza della distinzione fra passato, presente e futuro, che invece viene a dipendere dal sistema di riferimento, cioè dallo stato di moto dell’ente fisico rispetto al quale tale distinzione si determina. Con questo, si raggiunge finalmente una descrizione unitaria di tutti i fenomeni fisici relativi a sistemi di riferimento inerziali, cioè in moto rettilineo e uniforme uno rispetto all’altro.
Max Planck
Nel 1907, Einstein si chiede poi se il principio di relatività del moto sia valido anche per sistemi accelerati l’uno rispetto all’altro, e se l’unificazione di elettricità e magnetismo che aveva portato a termine poteva essere estesa alla forza di gravità. Con l’aiuto dell’amico matematico Marcel Grossmann e servendosi dei risultati di geometria differenziale ottenuti da Gregorio Ricci-Curbastro e Tullio Levi-Civita, nel 1916 egli giunge infine alla formulazione completa della teoria che risponde affermativamente a queste domande: la teoria della relatività generale. In tale teoria, la gravità non è più trattata come forza che si esercita tra corpi, ma come una proprietà dello spazio: il moto di a che normalmente si attribuisce ad una “attrazione” gravitazionale esercitata da b è ridescritto come il moto di a in uno spazio “curvato” dalla massa di b.
Più in generale, Einstein mostra l’assoluta equivalenza fra attrazione gravitazionale e accelerazione, e conclude che i sistemi inerziali sono quelli associati a osservatori che si muovono lungo le traiettorie più brevi nello spazio e nel tempo (le cosiddette “geodetiche”). Su queste basi, egli può formulare un principio di relatività ora veramente universale (nonché derivare l’equivalenza tra massa inerziale – grosso modo, la quantità di materia di un corpo – e massa gravitazionale – più o meno, l’intensità con cui un corpo risente dell’attrazione gravitazionale –, che in precedenza veniva solo assunta come un dato di fatto inspiegabile). Einstein calcola in prima approssimazione quelle che si riveleranno essere tre “verifiche cruciali” della teoria, riguardanti la precessione dell’orbita di Mercurio, la deflessione della luce nel passare vicino a un corpo dotato di massa e lo spostamento verso il rosso degli spettri stellari. Per quanto concerne il primo punto Mercurio, i calcoli colmano in buona misura la leggera discrepanza tra i dati sperimentali e le previsioni della meccanica classica; quanto al secondo, il valore della deflessione per effetto del campo gravitazionale del Sole ricavato da Einstein è esattamente il doppio di quello calcolato oltre un secolo prima da Henry Cavendish e, indipendentemente, da Johann Georg von Soldner nell’ambito della teoria corpuscolare della luce e trova riscontro sperimentale nei risultati di Arthur Eddington; infine, lo spostamento verso il rosso è effettivamente evidenziato nelle linee spettrali delle stelle. Questi due ultimi dati osservativi, tuttavia, non sono particolarmente accurati per i livelli di riferimento dell’epoca e il successo della relatività generale è decretato inizialmente più dalla coerenza logica interna che non dalle conferme sperimentali. La teoria di Einstein ha poi implicazioni di notevole portata per gli astronomi, che nell’ambito della cosmologia relativistica iniziano a elaborare modelli alternativi di universo.
Di non minore importanza rispetto ai risultati teorici appena illustrati sono i risultati sperimentali. Nel 1934 Irène Curie (1897-1956), figlia di Marie e Pierre, insieme al marito Frédéric Joliot (1900-1958) annuncia di aver ottenuto in laboratorio la radioattività artificiale; alcuni mesi più tardi Fermi (1901-1954) scopre un metodo molto efficiente di indurre la radioattività, che consiste nell’irradiare i vari elementi mediante neutroni precedentemente rallentati. A cavallo tra il 1938 e il 1939 si comprende che i neutroni sono in grado di provocare la rottura del nucleo di uranio: la strada verso l’utilizzazione dell’energia del nucleo è segnata.
Con una celebre lettera Einstein, consigliato da Leo Szilard, nell’estate del 1939 mette il presidente Franklin Delano Roosevelt al corrente delle potenzialità dell’uranio come fonte di energia e delle sue possibili applicazioni belliche. Gli Stati Uniti d’America costituiscono un rifugio per gli scienziati in fuga dalle dittature nazifasciste e molti di costoro accettano di collaborare attivamente ai piani nucleari del governo. Il 2 dicembre 1942 entra in funzione a Chicago la prima “pila” atomica costruita dall’uomo, in grado di estrarre in modo controllato energia dai nuclei di uranio; il 16 luglio 1945 è sperimentato il primo ordigno nucleare, nel deserto del New Mexico. Coloro che hanno contribuito alla costruzione della bomba sono divisi tra chi è a favore dell’uso bellico diretto e chi preferirebbe limitarsi a far assistere osservatori internazionali a una esplosione dimostrativa; ma ormai gli eventi seguono un corso inesorabile: il 5 agosto è bombardata Hiroshima, il 9 Nagasaki e il 14 agosto il Giappone accetta la resa incondizionata.
Docente di meccanica razionale e fisica matematica all’università di Firenze, Enrico Fermi (1901-1954) ottiene fama internazionale con le sue ricerche sulla meccanica delle particelle. In seguito a ciò è chiamato, nel 1926, all’università di Roma, dove viene istituita per lui la prima cattedra italiana di fisica teorica. Nell’Istituto di via Panisperna, Fermi crea un gruppo di collaboratori che comprende Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo. Le ricerche di quelli che saranno chiamati “i ragazzi di via Panisperna” si concentrano sull’uso di radiazioni formate da neutroni. Fermi scopre che sono soprattutto i neutroni lenti a penetrare con facilità nei nuclei. Sottoponendo allora la maggior parte dei nuclei conosciuti all’azione di neutroni rallentati da uno strato di acqua o paraffina, il fisico italiano riesce a ottenere un gran numero di isotopi radioattivi artificiali (l’isotopo è un atomo che possiede uguale numero atomico di un altro atomo, ma numero massa atomica diversa. Perciò due isotopi hanno le stesse proprietà chimiche – fanno parte dello stesso elemento – e differiscono per il numero dei neutroni presenti nel nucleo. Ad esempio 12C e 14C sono isotopi del carbonio con massa atomica 12 e 14).
I “ragazzi di via Panisperna”. Da sinistra: Oscar D’Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi, luglio 1934
Nel 1934, Fermi bombarda il nucleo dell’uranio nel tentativo di creare l’elemento numero 93. Grazie a questo e ad altri esperimenti, il 10 dicembre 1938 egli riceve a Stoccolma il premio Nobel per la fisica per “la scoperta di nuove sostanze radioattive appartenenti all’intero campo degli elementi”, anche se in realtà Fermi ha prodotto la scissione dei nuclei atomici. L’idea di Fermi di produrre l’elemento 93 attraverso il bombardamento dell’uranio con neutroni produce comunque dei risultati importanti nell’ambito della scoperta di nuovi elementi. Emilio Segrè pensa infatti che sia possibile ottenere l’elemento 43 – che sembra difficilmente rintracciabile per via naturale – bombardando l’elemento 42, il molibdeno.
Nel frattempo, il gruppo di via Panisperna si è in buona parte disperso: nel 1935 Rasetti si è trasferito in America, Pontecorvo a Parigi (e poi negli Usa, in Canada e infine in Unione Sovietica, dove diviene membro dell’Accademia delle Scienze e insignito nel 1963 del premio Lenin), Segrè a Palermo, mentre lo stesso Fermi nel 1938, da Stoccolma, vola direttamente negli Stati Uniti, dove si stabilisce (prendendo la cittadinanza americana nel 1944) e dove prosegue le sue ricerche aderendo al progetto Manhattan, legato alla realizzazione della prima bomba atomica.
Se durante la prima guerra mondiale i fisici hanno dato il loro apporto nell’artiglieria di precisione, nelle telecomunicazioni, nell’aviazione, nella costruzione di sottomarini e sonar, nel corso della seconda guerra mondiale contribuiscono in modo decisivo, oltre che allo sfruttamento dell’energia nucleare, alle tecnologie radar e alla missilistica. Il carattere mondiale del conflitto da una parte ostacola gli scambi scientifici internazionali, dall’altra assicura agli scienziati vasti sostegni governativi; anche a guerra conclusa, i fisici che hanno accantonato i loro impegni per contribuire ai progetti bellici sollecitano sostanziosi finanziamenti per le loro ricerche.
Niels Bohr nel suo laboratorio, 1922 ca.
Nel dopoguerra, favorita dalla vastità delle applicazioni tecnologiche, la fisica dello stato solido, che insieme ad altri settori sarà raggruppata sotto il nome di “fisica della materia condensata”, si afferma con vigore. Per quanto riguarda la cosmologia, i modelli statici sono ormai stati abbandonati in favore di un universo in espansione, ma si discute se tale espansione sia accompagnata da continua creazione di materia oppure proceda da un unico evento iniziale, per il quale Fred Hoyle nel 1950 conia (con accezione negativa, essendo sostenitore della prima soluzione, definita “dello stato stazionario”) l’espressione “big bang”. Si alimenta un dibattito di natura in buona parte filosofica, che arriva persino a coinvolgere argomenti di carattere politico e religioso. Per molti astronomi la definitiva rinuncia alla teoria dello stato stazionario giungerà nel 1965 con la scoperta della radiazione cosmica di fondo, interpretata come traccia “fossile” del big bang.
A partire dagli anni Cinquanta prospera anche il settore degli acceleratori, che permette di indagare le particelle già osservate nei raggi cosmici. Per alcuni decenni, in effetti, la fisica dei raggi cosmici si è identificata con la fisica delle particelle elementari e ha rappresentato l’unica fonte di informazione sulla costituzione intima della materia. Ora, grazie agli acceleratori, si arriva a produrre una pletora di nuove particelle, che superano in pochi anni il numero di cento e rendono impellente l’esigenza di una adeguata sintesi teorica, raggiunta grazie al cosiddetto “modello standard”: si tratta di una teoria coerente delle particelle elementari e delle loro interazioni, che comprende una teoria unificata delle interazioni elettromagnetiche e deboli e dell’interazione tra le particelle (i quark) che compongono protoni, neutroni e muoni. Oltre a quella relativa al bosone di Higgs, che sembra essere stata recentemente risolta dopo decenni di attesa, una questione lasciata in eredità dalla fisica del Novecento riguarda l’interrogativo se la lista delle particelle a noi note sia sostanzialmente completa, oppure se ne esistano di non ancora osservate. Al contempo, i fisici aspirano a una teoria completa, che tenga conto delle indicazioni quantistiche ma anche della gravità.
Con “meccanica quantistica” si indica in realtà un insieme di principi e idee elaborato dal fisico danese Niels Bohr (1885-1962) insieme ad altri fisici come Werner Heisenberg (1901-1976) e Wolfgang Pauli (1900-1958). Nel febbraio 1927 Heisenberg deriva il famoso principio di indeterminazione: con quanta maggiore precisione si misura la posizione di una particella, tanto più indeterminata sarà la misurazione dell’impulso, e lo stesso vale per la misurazione dell’energia e del tempo di rilascio di una particella.
Heisenberg considera queste relazioni come espressioni di un limite epistemico, un limite alla nostra possibilità di conoscere con precisione entrambe le proprietà in questione di una particella. Diversa sarà l’interpretazione che Bohr darà di lì a poco di queste stesse relazioni. Nel settembre 1927, al termine di un lungo e acceso dibattito con Heisenberg, Bohr presenta un articolo al Congresso internazionale di fisica tenutosi a Como in cui fornisce un’interpretazione ontologica delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg. Bohr, cioè, vede in queste ultime non un limite della nostra capacità di conoscenza, ma un limite oggettivo della realtà: è la natura stessa degli oggetti quantistici che fa sì che essi ci appaiano solo attraverso gli aspetti mutuamente escludenti e complementari di un’accurata descrizione spazio-temporale o di un’accurata descrizione dinamica. Viene dunque meno l’immagine classica di una realtà da sempre dotata di ben definite proprietà fisiche, indipendentemente dalle nostre capacità di osservazione e misurazione, e si afferma invece l’idea per cui esiste un’interazione non trascurabile tra l’oggetto e l’apparato sperimentale impiegato. Ha senso parlare di una particella dotata, per esempio, di una certa posizione solo ed esclusivamente in presenza dell’apparato sperimentale che rende possibile la misurazione di tale proprietà (apparato che è incompatibile con la misurazione accurata della proprietà impulso) e viceversa.
Su questi temi si incentra l’acceso dibattito tra Bohr ed Einstein, che ha luogo negli anni tra il 1928 e il 1930 e culmina con la pubblicazione nel 1935 di un famoso articolo da parte di Einstein, Podolsky e Rosen. In esso i tre fisici presentavano un vero e proprio paradosso per l’interpretazione della meccanica quantistica data da Bohr (nota anche come “interpretazione di Copenhagen”). Infatti, assumendo che la meccanica quantistica, come ritenuto da Bohr, fornisca una descrizione completa dei sistemi fisici microscopici – contenendo, per così dire, tutta l’informazione disponibile sulle proprietà di tali sistemi – si deve dedurre che alcune proprietà fisiche possono essere genuinamente ‘indefinite’ (si pensi, per assurdo, a qualcosa che non è né bianco né nero, bensì allo stesso tempo sia bianco che nero) ed essere rese ‘definite’ solo da una loro misurazione. Ma, come dimostrato in modo chiaro da Einstein e i suoi collaboratori, la teoria ci dice anche che esistono sistemi fisici tali che la misurazione delle proprietà di una particella in una determinata regione dello spazio, oltre a rendere definite le proprietà di tale particella, rende immediatamente definite anche (alcune delle) proprietà di un’altra particella, che si trova in una regione spaziale molto distante dalla prima e, di per sé, non è sottoposta ad alcun processo di misurazione. E questo costituisce un problema, dato che questa “comunicazione istantanea” sembra violare il postulato fondamentale della teoria della relatività, secondo cui nessun segnale può diffondersi, e quindi nessuna interazione può avere luogo, a una velocità superiore a quella della luce – la quale, per quanto grande, richiede sempre un tempo finito per spostarsi da una regione a un’altra. Da qui il paradosso: o l’interpretazione proposta da Bohr è corretta e la descrizione della realtà data dalla meccanica quantistica è completa, ma viola il principio relativistico di località (non esistono in natura segnali che viaggiano a velocità superiori a quella della luce); oppure salviamo la teoria della relatività e concludiamo che la descrizione della realtà data dalla meccanica quantistica è incompleta, ovvero un sistema fisico possiede un pacchetto ben definito di proprietà ma la meccanica quantistica nell’interpretazione di Copenaghen è incapace di descrivere tale pacchetto nella sua completezza. Qualsiasi sia la nostra scelta, sembra impossibile mantenere l’unità della fisica, cioè avere nello stesso tempo fiducia in entrambe le teorie fisiche più fondamentali a nostra disposizione. Per Einstein, la reazione ovvia era quella di scegliere il primo corno del dilemma e dichiarare l’incompletezza della meccanica quantistica nell’interpretazione di Copenhagen. Una possibilità potrebbe essere quella di negare che i sistemi in questione siano veramente composti da sottosistemi separati, e quindi che ci sia alcuna problematica interazione a distanza. Questo però implica una forma di “non-separabilità”, di fondamentale unità di sistemi fisici apparentemente frammentati e scomposti (come, per esempio, un sistema composto da un elettrone qui e un elettrone su Andromeda), che viola un’altra assunzione che Einstein riteneva fondamentale per la fisica – cioè che il mondo sia costituito fondamentalmente da sistemi fisici separati e che, quando non interagiscono in una forma compatibile con la relatività, sono di fatto totalmente indipendenti l’uno dall’altro.
Wolfgang Pauli e Niels Henrik David Bohr mentre fanno una dimostrazione all’Istituto di Fisica di Lund, in Svezia, 1954
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La teoria dei quanti
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Le teorie di unificazione
Il dibattito tra Einstein e Bohr sulla completezza della meccanica quantistica è una delle pagine filosoficamente più interessanti della storia della scienza del Novecento, e ha dato impulso a interessanti sviluppi teorici successivi. La critica di Einstein all’interpretazione di Bohr ispirerà le teorie delle variabili nascoste introdotte negli anni Quaranta-Cinquanta per restaurare l’immagine classica della realtà nel dominio quantistico. Con le disuguaglianze di John S.Bell negli anni Sessanta e gli esperimenti di Alain Aspect negli anni Ottanta, nuova luce è stata gettata sul dibattito sulla completezza della meccanica quantistica: un dibattito che prosegue, a distanza di settant’anni, e le cui implicazioni concettuali sono ancora oggetto di studio e d’indagine filosofica.