La nozione di esperimento mentale non è ambigua, eppure è difficile darne una definizione univoca. Un esperimento mentale non è un esperimento scientifico di tipo tradizionale, anche se ne condivide alcuni tratti. Tuttavia un esperimento mentale si distingue anche da un’analogia, da una metafora o da una rappresentazione concreta, esemplificativa, di qualcosa di astratto, altrimenti ogni forma di ragionamento finirebbe per essere identificabile come esperimento mentale.
Gli esperimenti mentali non sono esperimenti meramente immaginati, né sono esperimenti nei quali il pensiero sia l’oggetto dell’esperimento. Il senso di “mentale” nella nozione di “esperimento mentale” è relativo al metodo con cui viene condotto l’esperimento, non al campo cui si riferisce, che può anche essere quello psicologico. Anzi, da questo punto di vista, l’ambito piscologico, insieme a quello fisico, sono stati tra i più ricchi nel presentare esperimenti mentali, a differenza ad esempio della chimica o della biologia, dove, se non la scarsità, almeno la scarsa importanza degli esperimenti mentali è testimoniata dal non aver suscitato lo stesso clamore e gli stessi lunghi e intensi dibattiti che essi hanno suscitato in fisica e in filosofia della mente. Infine, un esperimento mentale non va confuso con una mera situazione controfattuale, perché quest’ultimo richiede un qualche elemento empirico-sperimentale nella sua formulazione, anche se in forma diversa da un esperimento vero e proprio.
La discussione sorta attorno a questo tema non è ancora giunta a una conclusione, ma resta centrale nel dibattito epistemologico contemporaneo, anche se le sue radici risalgono al Seicento. Se è vero infatti che la dicitura “esperimento mentale” non viene coniata fino all’Ottocento – è utilizzata per la prima volta dal fisico e chimico danese Hans Christian Ørsted (1777-1851) – essa costituisce l’espressione di un modo di fare scienza che era stato inaugurato nel XVII secolo ad opera di molti pensatori, tra i quali Galileo Galilei (1564-1642) con il suo “esperimento del gran naviglio”, Isaac Newton (1642-1727) e William Molyneux (1656-1698).
Per comprendere il ruolo cruciale rivestito dagli esperimenti mentali occorre rivolgersi sia al modo in cui sono stati storicamente interpretati, sia alle forme di pensiero che li hanno anticipati. I primi commentatori della nozione di esperimento mentale sono due epistemologi e scienziati: Pierre Duhem (1861-1916) ed Ernst Mach (1838-1916). Duhem per primo critica esplicitamente l’uso degli esperimenti mentali, arrivando ad affermare ne La teoria fisica, il suo oggetto e la sua struttura (1906) che essi dovrebbero essere banditi dalla pratica e dall’insegnamento della scienza. Mach ne discute in termini positivi ne La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883) e in Conoscenza ed errore (1905), sottolineando una sorta di continuità fra esperimenti mentali e reali almeno per quanto riguarda il metodo della variazione, che entrambi userebbero, e per il fatto che tutti e due si basano su conoscenze empiriche precedentemente acquisite e su una istintiva conoscenza umana che spinge il ragionamento a evitare situazioni impossibili o irrealizzabili. A tal proposito, Mach cita la dimostrazione della legge di equilibrio delle forze su un piano inclinato, formulata dal matematico fiammingo Simon Stevin (1548-1620). Se immaginiamo di mettere una catena di quattordici palle sui cateti di un triangolo rettangolo privo di attrito, possiamo ipotizzare che la catena scivoli in una qualche direzione o che sia in equilibrio. Ma, se consideriamo la parte della catena sotto l’ipotenusa vediamo che essa è ininfluente e che, se ci fosse moto, esso dovrebbe essere perpetuo.
Dall’impossibilità, secondo Mach istintivamente posseduta dagli esseri umani, di riscontrare un moto perpetuo in natura, si deduce per via puramente mentale che la parte di catena posta sui cateti è in equilibrio.
Altri due celebri commentatori del ruolo degli esperimenti mentali nella storia della scienza sono Alexandre Koyré (1892-1964) e Thomas Kuhn (1922-1996). Entrambi focalizzano la loro riflessione su Galileo. Koyré pone l’accento sul ruolo che l’a priori gioca nel pensiero di Galileo e trova in questo aspetto la chiave interpretativa dei suoi esperimenti mentali. Kuhn, invece, vede negli esperimenti mentali uno dei motori del divenire della scienza, soprattutto nella sue fasi rivoluzionarie, ovvero in quelle fasi di ristrutturazione teorica e riconcettualizzazione epistemologica – in relazione a situazioni empiriche già acquisite, ma che presentano anomalie – in cui gli esperimenti mentali, proprio perché puramente concettuali, assumono una funzione cardine nel ridefinire l’interpretazione del reale e nel mettere in discussione una metodologia scientifica stabilizzatasi come “normale”.
Una delle ragioni per cui nel corso della storia della scienza e della filosofia sono stati condotti esperimenti mentali sembra sia quella della loro impossibilità in linea di principio. Tuttavia, proprio marcando l’accento su questa impossibilità, gli esperimenti mentali hanno spinto la ricerca scientifica verso la formulazione di nuovi metodi di indagine. È il caso, ad esempio, delle evoluzioni della fisica quantistica del Novecento in risposta al paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen (EPR) sulla non-separabilità o non-località di sistemi fisici separati nello spazio, considerata inaccettabile da Einstein (1879-1955). Infatti, fu proprio la riformulazione – a opera di David Bohm (1917-1992) – di quel paradosso o esperimento mentale in termini che ne permettevano la realizzabilità dal punto di vista tecnico, inizialmente ritenuto irrealizzabile, a condurre alla formulazione delle disuguaglianze di John Stewart Bell (1928-1990), verificabili sperimentalmente e che si dimostrarono una prova a favore della meccanica quantistica.
Sono stati probabilmente anche i numerosi esperimenti proposti nell’ambito della filosofia della mente novecentesca a spingere verso la realizzazione di nuove metodologie di indagine dei processi mentali, come le recenti tecniche di neuroimaging, e si sono potuti superare almeno in parte quei limiti etici che un’indagine invasiva sul cervello ha posto fin dagli esordi di questo tipo di ricerche. Tra questi esperimenti ricordiamo l’esempio della stanza cinese di John Searle (1932), elaborato del filosofo americano per dimostrare che la capacità, propria di intelligenze artificiali di operare con combinazioni di simboli non implica la capacità di comprendere dei significati. Nell’esperimento citato, Searle immagina di essere rinchiuso in una stanza con delle scatole piene di ideogrammi cinesi, che egli ignora come linguaggio, e ricevere un manuale di istruzioni che prescriva come associare sequenze di ideogrammi tra loro. Se immaginiamo che dall’esterno delle persone introducano dei messaggi in ideogrammi, ai quali il filosofo risponda con sequenze di ideogrammi prescritte dal manuale, saremmo in presenza di una comunicazione che non si distinguerebbe da quella tra persone che parlino cinese. Eppure, l’individuo all’interno della stanza cinese ignora completamente il significato della lingua che sta utilizzando; manipola simboli formali secondo le regole contenute nel manuale, ma continua a ignorarne il significato. La conclusione è che “la sola manipolazione dei simboli non basta di per sé a garantire l’intelligenza, la percezione, la comprensione, il pensiero e così via”.
Il ruolo euristico degli esperimenti mentali è perciò indubbio. Essi possono ricoprire funzioni diverse: possono confermare o invalidare una teoria scientifica, proporre nuove ipotesi dal punto di vista teorico, facilitare la comprensione di una teoria attraverso le loro forza e struttura narrative; possono, infine, rendere più chiari taluni concetti di una teoria attraverso uno scenario molto intuitivo.