Norman Rockwell, Il giorno delle elezioni, copertina di “The Saturday Evening Post”, 30 ottobre 1948
Lo scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger (1895-1998), nel suo saggio La mobilitazione totale (1930), descrive in termini efficaci un cambiamento epocale che segna la storia del Novecento: la sempre maggiore incidenza delle masse nella vita politica e sociale. La Grande Guerra, spiega Jünger, ha avuto un impatto psicologico generalizzato fino ad allora mai sperimentato. Essa si è rivelata una guerra popolare, non solo per avere implicato l’arruolamento di intere generazioni, ma anche per aver comportato la massima sollecitazione delle economie e delle industrie dei paesi partecipanti. Un coinvolgimento analogo delle masse si verifica anche in tempo di pace: la “mobilitazione totale” è tipica dell’età delle macchine e delle metropoli in cui l’attività dell’uomo si presenta come un processo lavorativo gigantesco e capillarmente diffuso. Jünger poteva concludere: “È uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti delle masse sempre più omologate su cui lo spirito del mondo getta la sua rete”. L’ingresso delle masse sulla scena della storia comporta radicali cambiamenti nei costumi, nella morale, nell’immagine che l’uomo ha di sé, nelle forme di comunicazione, nelle manifestazioni artistiche e culturali, nell’economia (dove produzione e consumo industriali si razionalizzano e si pianificano) e, inevitabilmente, anche nella politica: da un lato, i nuovi soggetti premono per un riconoscimento che le vecchie istituzioni non possono garantire; dall’altro, si strutturano modalità finora sconosciute di dominio politico e di mobilitazione su larga scala, capaci di reggere, contenere e indirizzare le spinte delle formazioni collettive.
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Per interpretare tali cambiamenti, la filosofia politica deve far ricorso a categorie capaci di comprendere i nuovi fenomeni. La categoria del totalitarismo è, in tal senso, tra le più significative e utilizzate nel dibattito filosofico e nel discorso politico. Il totalitarismo viene definito una forma politica che opera in assenza di controlli parlamentari, di contrappesi istituzionali e di vincoli costituzionali; è caratterizzato dalla presenza di un partito unico, con la conseguente privazione delle garanzie di libertà e del pluralismo, che sono proprie dello Stato di diritto. Si indica con questo termine una forma di potere capace di penetrare in profondità nella società di massa attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e di determinare i comportamenti di uomini che perdono in questo modo qualsiasi qualità e prerogativa personale, divenendo semplici entità omologate e intercambiabili tra loro, condizionate non solo nei compiti che devono svolgere ma anche nei bisogni che devono soddisfare.
Va rimarcato come di questa categoria si sia spesso abusato; soprattutto, l’impulso a volere raccogliere i fenomeni politici del Novecento in un unico concetto ha fatto sì che sotto questa etichetta abbiano trovato posto manifestazioni assai differenti tra loro. Caratterizzare come totalitari il regime nazista e quelli di stampo comunista insieme permette certo di cogliere alcuni aspetti strutturali comuni, ma rischia anche di far perdere di vista profonde distinzioni ideologiche e storiche. Va precisato inoltre che i teorici politici non si sono accordati sull’estensione da dare a questo concetto: se si è generalmente inclini a non considerare totalitari i regimi autoritari di stampo classico come il franchismo in Spagna o le dittature militari sudamericane, non ci si trova spesso d’accordo nel riconoscere o meno come tali il fascismo italiano o il comunismo cinese.
Carl Schmitt con la moglie Duska, 1934
Un nuovo e originale tentativo di definizione delle categorie politiche che tiene conto dei profondi cambiamenti di inizio secolo è quello compiuto da Carl Schmitt (1888-1985). Il nome di questo filosofo del diritto risulta tra i più discussi della storia della filosofia novecentesca a causa della sua compromissione con il nazionalsocialismo. È oggetto di dibattito se le sue tesi politiche, maturate precedentemente all’ascesa di Hitler, siano effettivamente da considerare alla stregua di una ideologia del nazismo. La dottrina politica di Schmitt è comunemente indicata con il termine decisionismo. Il fondamento di ciò che ha valore giuridico sta nella volontà del sovrano. La decisione in quanto tale crea il diritto: auctoritas, non veritas facit legem (“l’autorità e non la verità fa la legge”), dice Schmitt citando Hobbes (I tre tipi di pensiero giuridico, 1934). La decisione finale del sovrano crea il diritto, che dunque si dimostra slegato da qualsiasi vincolo: non è tenuto a essere dipendente da norme di etica e giustizia o da valori tradizionali. Convinto che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (Teologia politica, 1922), Schmitt indica talune dottrine teologiche come esempio delle sue teorie. Come in taluni concetti aprioristici relativi a Dio una cosa è giusta non perché risponde a un modello o a un valore ma semplicemente perché Dio la comanda, così anche la validità giuridica riposa solo sulla volontà del sovrano.
Da tali presupposti, secondo Schmitt, deriva che nel mondo contemporaneo Stato e società non rappresentano più sfere distinte come in passato. Il Novecento presenta come fenomeno peculiare la reale dimensione dello Stato totale in cui “tutto è politico, almeno virtualmente” (Il concetto di “politico”, 1927). La specifica distinzione che caratterizza ciò che è politico è quella tra amico e nemico: “Il fenomeno del ‘politico’ può essere compreso solo mediante il riferimento alla possibilità reale del raggruppamento amico-nemico”. Nella sfera pubblica, l’altro è lo straniero; il conflitto è caratterizzato da una intensità tutta particolare e può, almeno potenzialmente, spingersi fino alla guerra, essendo impossibile in linea di principio che esso venga risolto grazie al giudizio di un terzo soggetto imparziale o un sistema prestabilito di norme: “nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta”. Secondo Schmitt, “la guerra non è lo scopo e meta o anche solo il contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale”. Là dove vi è politica, dove vi sono raggruppamenti di uomini, è inevitabile che venga a stabilirsi la “distinzione fatale”. Le teorie di Schmitt annullano qualsiasi presupposto etico o giuridico che vincoli il sovrano e pongono le basi perché l’ambito del diritto possa, in linea di principio, rientrare nella dimensione politica, a sua volta consegnata al decisionismo del sovrano stesso.
Hannah Arendt (1906-1975), filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers si laurea a Heidelberg, dove intraprende la carriera universitaria. Nel 1933, a seguito delle leggi razziali, si rifugia esule a Parigi e poi, nel 1941, negli Stati Uniti, con incarichi di insegnamento a Chicago e alla New School for Social Research di New York (1967-1975). Il suo libro più noto è Le origini del totalitarismo (1951): la Arendt definisce come “totalitari” i regimi che annullano le libertà individuali e assorbono nello Stato ogni forma di associazione politica. Celebri anche i suoi scritti sull’antisemitismo: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) e Sull’antisemitismo (1973).
In Le origini del totalitarismo (1951), la Arendt parte dal presupposto che una rottura è sopravvenuta nel mondo contemporaneo: l’inizio del Novecento ha portato strutturali cambiamenti nella morale, nella politica, nei costumi, cambiamenti che avrebbero conosciuto l’apice negli anni Trenta e Quaranta del secolo, con il “totale collasso dell’‘ordine’ morale”. Questa cesura drastica rispetto al passato rende inutilizzabili le tradizionali categorie della filosofia politica per comprendere i fenomeni della contemporaneità. Nel suo aspetto più originale, gli atti del totalitarismo costituiscono “una rottura con l’insieme delle nostre tradizioni; essi hanno mandato chiaramente in frantumi le nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio morali”. Fenomeni radicalmente nuovi andavano spiegati con categorie altrettanto nuove.
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Sarebbe dunque fuorviante considerare i regimi totalitari del XX secolo (la Arendt si riferisce al nazismo e al comunismo staliniano) come forme di dittatura o di autoritarismo analoghe a quelle dei secoli passati. La presenza di un partito unico di massa, al cui vertice è posta la volontà del capo, fa cadere la tradizionale distinzione tra Stato e società e consente la penetrazione onnicomprensiva del terrore (diffuso attraverso il capillare controllo delegato alla polizia segreta) e dell’ideologia (forma superiore di legittimazione del potere totalitario derivante dalla “pretesa di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua idea”). La riduzione degli uomini ad automi obbedienti e intercambiabili comporta il loro isolamento reciproco, e la perdita della dimensione nobilmente e genuinamente politica. In gioco, chiarirà ulteriormente la Arendt nel successivo libro Vita activa (1958), vi è “la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”, attività che “corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”. Il totalitarismo mette in atto la soppressione del lato più elevato, autonomo, libero e veramente umano dell’agire, quello che riguarda la dimensione interpersonale; cancellata la sfera politica, gli uomini si riducono a “illimitate ripetizioni riproducibili dello stesso modello”. Di qui lo sforzo della Arendt di ridefinire le categorie morali e il concetto di responsabilità personale nell’epoca delle masse: esemplare di questa preoccupazione della Arendt è il concetto di “banalità del male”, spesso frainteso, con il quale la filosofa si preoccupa di mostrare come, nel Novecento, sia stato possibile che azioni mostruose possano essere state compiute da persone apparentemente normali – banali, appunto – non mosse da odio o perversità, ma semmai dalla passiva e meccanica accettazione ed esecuzione di ordini.
Tra i più importanti giuristi del Novecento, Hans Kelsen (1881-1973) e Carl Schmitt (1888-1985) attraversano il secolo appena trascorso ponendosi ai due estremi di un asse che, utilizzando una formula dello stesso Schmitt, connette e al tempo stesso separa “legalità” e “legittimità”: ebreo e fervente democratico Kelsen, cattolico, nazista e antisemita Schmitt, sostenitore di una concezione formale e proceduralista del diritto il primo, teorico di una sovranità soggettiva centrata sulla decisione al di sopra di ogni legalità il secondo.
La Reine Rechtslehre, o Dottrina pura del diritto, del 1934, rappresenta il tentativo da parte di Kelsen di elaborare una teoria oggettiva del diritto positivo che metta da parte ogni contaminazione con il giusnaturalismo e con le cosiddette “teorie imperativistiche” del diritto. All’approccio giusnaturalista Kelsen contesta il carattere arbitrario e soggettivo dell’ipotesi di un diritto naturale, all’imperativismo – che riconduce le norme a un comando – contrappone la distinzione tra la volontà che produce la norma, oggetto della storia o della sociologia, e il significato normativo della norma in quanto tale, il suo esprimere un “dover essere”. Essa stabilisce un nesso tra la pena e l’illecito o il delitto che può essere logicamente espresso nella formula “se X allora Y” in cui la forma “se…allora” non definisce un rapporto causale ma un significato normativo, ossia una imputazione. In altri termini, se sul piano della legge naturale i rapporti tra cose sono di causa ed effetto, per cui alla causa A deve necessariamente seguire l’effetto B, sul piano del diritto all’azione X deve obbligatoriamente seguire la sanzione Y: la sanzione non si trova, di fronte al delitto, in un rapporto di causalità, la concatenazione di questi due fatti viene istituita dalla legge stessa che classifica comportamenti o azioni stabilendo, per ogni azione, una sanzione corrispondente.
Per quanto riguarda l’origine della legge, Kelsen concepisce la norma come una proposizione che trae il suo senso e il suo valore dall’appartenenza a un ordinamento retto da una Grundnorm, una norma fondamentale, istituita da un corpo legislativo sulla base di un ordinamento preesistente, in un regresso all’infinito per cui il diritto, in un certo senso, si autoproduce: se non c’è legge che non sia statuizione, non c’è, d’altra parte, statuizione che non sia applicazione di una norma precedente.
Sul diritto come prodotto di una statuizione umana insisterà invece Carl Schmitt: per lui a creare diritto è una decisione che non deriva la sua forza giuridica da regole precedenti. Schmitt effettua una ricognizione circa il senso della politica e dello Stato che lo porta a evidenziarne la matrice teologica: tutti i concetti più importanti della moderna dottrina dello Stato, egli sostiene, sono concetti teologici secolarizzati. Il concetto di Dio onnipotente si traduce in quello dell’onnipotenza del legislatore nello Stato assoluto; ma teologica è anche l’idea del moderno Stato di diritto, traduzione politica del deismo, che esclude il miracolo dal mondo e dalle leggi di natura. Schmitt sostiene che la sovranità consiste nella facoltà di decidere nello e sullo stato di eccezione. Si tratta del concetto-limite di sovranità, che si applica a casi-limite, ma che tuttavia vale come concetto generale della dottrina dello Stato: solo in condizioni eccezionali è possibile vedere che cosa sia la sovranità.
Nel corso del Novecento, la tradizione liberale si trova stretta nella morsa delle ideologie e sottoposta a serrate critiche provenienti sia dagli studiosi conservatori, sia dalle posizioni ideologiche marxiste. Dalla critica alla visione liberale fatta da Schmitt prende per esempio le mosse il filosofo Leo Strauss (1899-1973), formatosi in un ambiente ebraico ortodosso e poi emigrato negli Stati Uniti con l’avvento del nazismo. Secondo Strauss, il liberalismo moderno è l’esito di un processo di decadenza e di svuotamento di contenuti politici. La difesa della sfera privata è dettata da paura e si sviluppa solo in un contesto relativistico, non essendo volta al perseguimento di valori comuni e unificanti. Da parte marxista, il rimprovero più ricorrente mosso al liberalismo è quello di essere un semplice riflesso ideologico del capitalismo, e dunque una teoria che di fatto giustifica lo sfruttamento del proletariato da parte delle classi economicamente egemoni. Più raffinate sono le osservazioni riconducibili agli esponenti della scuola di Francoforte, secondo i quali il liberalismo è una forma di dominio borghese destinata a sfociare in totalitarismo. Secondo Herbert Marcuse, per esempio, le stesse società industriali di massa capitalistiche e consumistiche (gli Stati Uniti in primo luogo) presentano aspetti totalitari. “Il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione politico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti” (L’uomo a una dimensione, 1964). Si verifica anche in questo caso il completo assoggettamento degli uomini alle logiche del consumo e di una produzione fine a se stessa, nonché la manipolazione dei loro bisogni attraverso i condizionamenti che derivano dai mezzi di comunicazione sempre più potenti.
Con la caduta dei regimi comunisti dell’Est (1989) e con la fine dell’Unione Sovietica (1991), la contrapposizione tra blocco occidentale e blocco comunista perde le sue ragioni storiche e si determina la crisi delle dottrine politiche di matrice marxista, riaffermando per contro la vitalità del liberalismo. Tornano in voga le teorie di autori che già nel corso del secolo si erano fatti critici, da un punto di vista liberale, dei totalitarismi sia di destra che di sinistra. L’epistemologo Karl Raymund Popper (1902-1994) pubblica nel 1945 la sua opera politica più nota, La società aperta e i suoi nemici. La filosofia della scienza di Popper sostiene un razionalismo critico e metodologico che si distacca dal razionalismo dogmatico della tradizione positivista: le ipotesi scientifiche – spiega Popper – hanno una validità soltanto provvisoria e possono sempre essere contraddette, e dunque controllate, dai fatti che possono falsificarle. Così, in politica, la libertà degli individui all’interno della società aperta deve essere garantita rigettando le pretese di pianificazione razionale e di conoscenza delle leggi che reggono la storia. Argomentazioni analoghe si ritrovano nell’opera dello studioso israeliano Jacob Talmon (1916-1980), che ha contrapposto la “democrazia totalitaria” alla “democrazia liberale”. La prima denominazione è riservata da Talmon a quelle forme di messianismo politico (originatesi nel corso del Settecento in particolare in Rousseau) che postulano “un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irrimediabilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere”. In nome di questo fine assoluto e unicamente valido, che ci si sente autorizzati a imporre anche con la forza, viene sacrificata la libertà individuale.
Vicino alle tesi di Popper, l’economista Friedrich August Von Hayek assume senza condizioni i presupposti del liberalismo e conduce una serrata lotta teorica contro le ingerenze dello Stato nella vita degli individui. Avversario acerrimo di ogni forma di pianificazione e centralizzazione in economia (dai piani quinquennali sovietici fino al welfare state delle democrazie occidentali), le sue proposte teoriche sono sistematicamente indirizzate a moderare e ostacolare il potere statale e a difendere la libertà individuale, l’iniziativa del singolo e la proprietà privata. Lo Stato non deve intervenire se non nelle funzioni di “guardiano notturno”, per proteggere la vita e i beni dei cittadini, lasciando che la società e il mercato si strutturino spontaneamente in virtù della libera iniziativa dei singoli.
Se negli autori appena ricordati il criterio con cui valutare la bontà di un ordinamento politico è dato dal rispetto della libertà individuale, nel caso del filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) tale criterio viene accostato a quello della giustizia. Una teoria della giustizia (1971) è appunto il titolo dell’opera più celebre di questo autore, che – anche a giudizio dei suoi critici – ha il merito di avere rivitalizzato il dibattito di fine secolo. L’obiettivo auspicato da Rawls è la realizzazione della maggior equità sociale possibile: “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Rawls tiene conto del tipico presupposto liberale, secondo il quale a ciascun individuo deve essere riconosciuta la più estesa libertà possibile, compatibilmente con una equivalente libertà negli altri individui. Oltre a ciò, la realizzazione dello Stato giusto implica che vi sia un intervento che possa riequilibrare le disparità che inevitabilmente vengono a generarsi. Per conseguire ciò, Rawls si rifà – attualizzandola e generalizzandola – alla classica teoria del contratto sociale, collocando gli individui in una condizione precedente alla società, a partire dalla quale vengono decisi e contrattati i criteri di giustizia che reggeranno la stessa. L’individuo, in questa “posizione originaria”, ignaro di quella che sarà la sua posizione sociale, sarà portato, secondo Rawls, a scegliere le soluzioni più eque. I critici di Rawls hanno imputato alle sue teorie una eccessiva astrattezza. Robert Nozick (1938-2002), teorico americano della politica, per esempio, muovendo da una posizione libertaria e anarchica, rimprovera a Rawls di non aver tenuto in debito conto come la ripartizione giusta dei beni non sia possibile senza considerare i reali, storici comportamenti degli individui nel processo produttivo.
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Il pacifismo
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Filosofia dell’Europa unita
Al centro degli interessi di Norberto Bobbio (1909-2004) è il nesso tra politica e cultura, che intercetta il tema più ampio di una valutazione complessiva della cultura filosofica italiana. Sollecitazioni giungono a Bobbio dagli anni della sua formazione, dalla complessa atmosfera culturale che si respirava nella Torino di Gobetti e Gramsci, città che aveva saputo produrre a un tempo il primo laboratorio antifascista e le prime prove di dialogo tra pensiero liberale e marxismo. L’educazione politica di Bobbio è stata, ad ogni modo, essenzialmente un fatto intellettuale: la scelta della militanza attiva nel Partito d’Azione durante la Resistenza matura in lui piuttosto tardi, nel 1943.
In una prima fase, la difesa della teoria liberal-democratica si salda in Bobbio a una concezione morale della persona come valore assoluto, di ispirazione laica e kantiana, di cui il giusnaturalismo ha posto le basi, con la sua teoria dei diritti naturali, e ha dato una declinazione politica. Bersaglio polemico di Bobbio sono le filosofie che, trascurando il problema fondamentale della politica – cioè, a suo avviso, il conflitto tra pubblico e privato, la tensione permanente tra potere dello Stato e autonomia della persona –, trasferiscono la discussione sulla libertà al piano metafisico. È il caso dell’idealismo, con le sue sintesi consolatorie tra reale e razionale che annullano i contrasti reali, ma anche dell’esistenzialismo e delle filosofie della crisi che, dilatando all’eccesso il paradosso della scelta, portano al ripiegamento individualistico, a fughe irrazionaliste e al disimpegno civile (La filosofia del decadentismo, 1944).
Nel passaggio da “una concezione etica della democrazia ad una procedurale”, che si consuma all’inizio degli anni Cinquanta, la riflessione di Bobbio subisce una biforcazione interna. L’esigenza teorica di uno studio scientifico del diritto e della politica, ispirato al pensiero di Kelsen, comporta una presa di distanza dal giusnaturalismo, incapace di distinguere il piano formale e pertanto universale della validità delle norme e degli ordinamenti giuridici, da quello del loro valore morale, che è sempre storicamente determinato. A tale esigenza rispondono gli scritti dedicati alla teoria generale del diritto (Studi sulla teoria generale del diritto, 1955; Teoria generale della norma giuridica, 1958; Teoria dell’ordinamento giuridico, 1960; Il positivismo giuridico, 1961; Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1965; Dalla struttura alla funzione, 1978). Di contro, la riflessione morale, impropriamente associata al piano immediatamente politico, viene attribuita alla filosofia in quanto essa è “assiologicamente orientata e impegnata”. Da qui prende forma l’idea di una piattaforma, morale e politica, comune agli uomini di cultura e che si contrappone da un lato alla cultura apolitica e dall’altro alla politica culturale dei partiti e alla figura dell’intellettuale organico. Il riconoscimento della superiorità del modello liberal-democratico, per aver saputo elaborare una teoria dello Stato e dei limiti del suo potere assente nella prospettiva marxista, è premessa indispensabile per consentire il dialogo tra le due tradizioni e l’integrazione dei diversi risultati nell’analisi del concetto di libertà, che Bobbio reputa auspicabile (Politica e cultura, 1955). La proposta confluisce poi nel programma del movimento del neoilluminismo.
Nella ricerca del filosofo torinese, la separazione netta tra piani di ricerca razionale a statuto cognitivo e ambiti di discussione sprovvisti di oggettività – come la riflessione morale e filosofica – rende difficile sostenere la prospettiva di un’etica dell’intellettuale costruita su basi puramente razionali. La sua condizione “paradossale di un illuminista pessimista” (come egli amava definirsi) lo spinge a impegnarsi nella ricostruzione del pensiero politico con gli studi dedicati alle sue figure-chiave, e soprattutto, nell’analisi e definizione di distinzioni concettuali divenute canoniche, attraverso le quali egli intende contribuire alla chiarificazione del lessico politico e alla razionalizzazione della vita pubblica con opere quali Quale socialismo? (1976), Il problema della guerra e le vie della pace (1978), Il futuro della democrazia (1984), Stato, governo, società: per una teoria generale della politica (1985), Destra e sinistra (1994).