Pesare due etti di farina, esclusa la paletta, e versarli senza far polvere nei sottili sacchetti di carta era per me una sorta di avventura. Imparai a misurare a occhio quanta farina bianca o gialla, quanto pastone, zucchero o mais dovessi tirare su con la paletta argentea affinché la bilancia segnasse due etti o mezzo chilo. Quando ero precisissima, le clienti grate osservavano con ammirazione: «Sorella Henderson, lei sì che ha dei nipoti svegli». Se invece stavo un po’ indietro con il peso, le donne dagli occhi di lince dicevano: «Metticene ancora in quel sacchetto, bambina. Non tentare di fare la furba».
In quei casi mi punivo, in silenzio ma con tenacia. Ogni pesata imprecisa significava niente Baci avvolti nella carta argentata, le dolci gocce di cioccolato che amavo più di ogni altra cosa al mondo, dopo Bailey. E forse gli ananas in scatola. L’ossessione per gli ananas mi faceva quasi impazzire. Sognavo di quando sarei stata abbastanza grande da comperarne un intero cartone tutto per me.
Sebbene gli anelli d’oro sciroppati nei loro barattoli esotici fossero sui nostri scaffali tutto l’anno, noi li assaggiavamo soltanto a Natale. Momma usava il succo per preparare torte di frutta quasi nere. Poi rivestiva di anelli delle pesanti padelle di ferro incrostate di fuliggine e faceva ricche torte. Io e Bailey ne ricevevamo una fetta ciascuno, e io portavo in giro la mia per ore, mangiando la frutta un pezzettino per volta, finché non rimaneva altro che il profumo sulle dita. Mi piace pensare che la mia voglia di ananas fosse così sacra da impedirmi di rubarne un barattolo (potevo farlo) e mangiarmelo da sola fuori in giardino, ma sono sicura che, dopo aver soppesato il rischio di essere scoperta dall’odore, non avevo avuto il coraggio di provarci.
Fino all’età di tredici anni, quando lasciai l’Arkansas per sempre, l’Emporio rimase il mio luogo preferito. La mattina, vuoto e solitario, sembrava un pacco regalo pronto da scartare, portato da uno sconosciuto. Aprire i battenti era come sciogliere il fiocco di quel dono inaspettato. La luce entrava a poco a poco (eravamo rivolti a nord), posandosi sugli scaffali ricolmi di sgombri, salmone, tabacco, filo. Si lasciava cadere sul grande barile di lardo e a mezzogiorno, d’estate, il grasso si era ormai sciolto in una brodaglia spessa. Ogni volta che entravo nell’Emporio di pomeriggio, sentivo che era stanco. Solo io riuscivo a percepire il pulsare lento del suo lavoro svolto ormai per metà. Ma poco prima di andare a letto, dopo il viavai delle persone che avevano discusso per i conti, scherzato sui vicini, o erano semplicemente passate a «fare un salutino a sorella Henderson», la promessa di altre mattine magiche tornava a stendersi sulla famiglia in fresche ondate di vita.
Momma apriva qualche confezione di gallette croccanti e ci mettevamo a sedere intorno al ceppo per la carne sul retro. Io tagliavo le cipolle e Bailey apriva due o tre scatole di sardine lasciando colare tutt’intorno la fragranza di olio e pescherecci. Quella era la cena. La sera, quando eravamo soli, zio Willie non balbettava né tremava, né dava alcun segno della sua «afflizione». La pace delle ultime ore del giorno sembrava la garanzia che il patto di Dio con bambini, neri e storpi fosse ancora valido.
Dare il mais alle galline e mescolare il pastone asciutto e acido destinato ai maiali con gli avanzi della cena e l’acqua unta per i piatti rientravano nelle nostre mansioni serali. Alla luce del crepuscolo, io e Bailey sguazzavamo nel fango dei sentierini diretti al recinto dei maiali e, in piedi sulla prima asse dello steccato, gettavamo la ripugnante mistura agli animali riconoscenti. Questi ficcavano i teneri grugni rosa nella sbobba, grufolando e grugnendo di piacere. Grugnivamo sempre anche noi in segno di risposta, solo in parte per scherzo. Eravamo grati di avere alle spalle il lavoro più sporco e di esserne usciti inzaccherati di brodaglia puzzolente solo su scarpe, calze, piedi e mani.
Un giorno, mentre davamo da mangiare ai maiali, sentii un cavallo nel cortile davanti all’Emporio (in realtà avrebbe dovuto esserci un vialetto d’accesso, solo che non c’erano auto con cui accedervi) e corsi a vedere chi era venuto fin là di giovedì sera, quando persino l’amaro e tranquillo Mr. Steward, che possedeva un cavallo da sella, stava probabilmente riposando al tepore del fuoco in attesa che il mattino lo chiamasse ad arare il campo.
L’ex sceriffo sedeva a cavallo con disinvoltura. Quella noncuranza serviva a dimostrare la sua autorità e il suo potere persino sulle bestie. Figuriamoci sui neri. Non c’era neanche bisogno di dirlo.
La sua voce nasale risuonava monotona nell’aria tesa. Da un lato dell’Emporio, io e Bailey lo sentimmo dire a Momma: «Annie, di’ a Willie di non farsi vedere in giro stasera. Oggi un negro fuori di testa ha messo gli occhi su una donna bianca. Più tardi verranno i ragazzi». Anche dopo il lento trascinarsi degli anni, ricordo la paura che mi riempì la bocca di aria calda e secca e mi fece sentire il corpo leggero.
I “ragazzi”? Quelle facce di pietra e quegli occhi pieni di odio che ti incenerivano i vestiti addosso se per caso ti vedevano gironzolare di sabato sulla via principale. Ragazzi? Sembrava non avessero mai conosciuto la giovinezza. Ragazzi? No, piuttosto uomini coperti dalla polvere delle tombe e gravati da anni trascorsi senza bellezza né cultura. La mostruosità e il marciume di antichi orrori.
Se nel giorno del giudizio San Pietro mi chiedesse di rendere testimonianza del gesto di cortesia dell’ex sceriffo, non sarei in grado di dire niente in suo favore. La sicurezza con cui prevedeva che, sentendo dell’arrivo del Ku Klux Klan, mio zio e tutti gli altri neri sarebbero corsi a nascondersi tra gli escrementi delle galline era troppo umiliante. Senza aspettare il ringraziamento di Momma, uscì dal cortile, convinto che le cose procedessero come dovevano e sicuro di essere un galantuomo sempre pronto a salvare i servi meritevoli dalle leggi del paese, quelle stesse alle quali guardava con indulgenza.
Subito, mentre si udiva ancora il forte rumore degli zoccoli sul terreno, Momma spense le lampade. Parlò con zio Willie in tono duro e sommesso, poi chiamò Bailey e me nell’Emporio.
Ci disse di tirare fuori le patate e le cipolle dai loro contenitori e di togliere le pareti divisorie. Poi, con tremenda e tediosa lentezza, zio Willie mi diede il bastone dalla punta di gomma e si piegò per entrare nel recipiente vuoto, ora più spazioso. Ci mise un secolo per sdraiarsi, poi lo coprimmo con patate e cipolle, uno strato dopo l’altro, come per uno sformato. Nonna si inginocchiò a pregare nell’Emporio buio.
Fu una fortuna che quella sera i “ragazzi” non entrassero nel cortile insistendo perché Momma aprisse l’Emporio. Di sicuro avrebbero trovato zio Willie e l’avrebbero linciato. Lui continuò a lamentarsi per tutta la notte, come se avesse davvero commesso qualche atroce delitto. I suoni pesanti attraversavano la coltre di ortaggi e io mi immaginavo la sua bocca tirata in giù verso destra, con la saliva che bagnava i germogli delle patate novelle aspettando, come la rugiada, il tepore del mattino.