Alla fine l’angelo del banco dei dolci mi aveva scoperto e mi stava infliggendo una penitenza atroce per tutti i Milky Way, Mound, Mr. Goodbar e Hershey con mandorle che avevo rubato. Avevo due denti cariati fino alla gengiva. Il dolore era più forte dell’effetto delle aspirine triturate e dell’essenza dei chiodi di garofano. Solo una cosa poteva aiutarmi, così pregai seriamente che mi fosse concesso di sedermi sotto la casa e lasciare che l’edificio mi crollasse sulla parte sinistra della bocca. Siccome non c’erano dentisti neri a Stamps, né medici se è per questo. Momma aveva sempre risolto il problema tirando via il dente (una cordicella con un’estremità legata al dente e l’altra arrotolata intorno al suo pugno), con l’aiuto di antidolorifici e preghiere. In questo caso particolare le medicine si erano rivelate inefficaci, non era rimasto abbastanza smalto per agganciarci una cordicella, e le preghiere venivano ignorate perché l’Angelo della Giustizia bloccava il loro passaggio.
Trascorsi un paio di giorni e di notti in preda a un dolore lancinante, considerando più sul serio che per gioco l’idea di saltare nel pozzo, finché Momma decise di portarmi da un dentista. Quello nero più vicino era a Texarkana, a quaranta chilometri di distanza, ed ero sicura che sarei morta molto prima di arrivare a metà strada. Momma disse che saremmo andate dal dottor Lincoln, proprio lì a Stamps, e lui mi avrebbe tolto il male. Disse che le doveva un favore.
Sapevo che c’erano diversi bianchi in paese che le dovevano dei favori. Io e Bailey avevamo visto i libri che mostravano come avesse prestato soldi sia ai bianchi sia ai neri durante la Depressione, ed erano ancora quasi tutti in debito. Ma non ricordavo di aver visto il nome del dottor Lincoln, né avevo mai sentito che avesse pazienti neri. Comunque, Momma disse che saremmo andate e mise dell’acqua sulla stufa per il bagno. Non ero mai stata dal dottore, così mi spiegò che dopo il bagno (che avrebbe fatto sentire meglio la mia bocca) avrei dovuto indossare biancheria pulita inamidata e stirata per bene. Il bagno non ebbe alcun effetto sul mal di denti, e a quel punto sapevo che il mio dolore era più forte di quello mai provato da chiunque altro.
Prima di uscire dall’Emporio, Momma mi ordinò di lavarmi i denti e sciacquarmi la bocca con un antisettico. La sola idea di aprire le mascelle serrate fece aumentare il male, ma dopo che mi ebbe spiegato che quando si va dal medico bisogna lavarsi dappertutto, specialmente la parte da visitare, mi feci coraggio e aprii la bocca. Appena sentii l’aria fresca sui molari, persi anche quel poco di ragione che mi era rimasta. Ero pietrificata per il dolore, i miei famigliari dovettero quasi legarmi per tirare fuori lo spazzolino dalla bocca. Non fu un’impresa facile farmi incamminare verso la casa del dentista. Momma rivolgeva la parola a tutti i passanti, ma non si fermava a conversare. Parlando al di sopra della spalla, spiegava che stavamo andando dal medico e che avrebbe «fatto quattro chiacchiere» al ritorno.
Fino allo stagno non ci fu altro che il dolore, un alone che mi avvolgeva per il raggio di un metro. Nell’attraversare il ponte che portava nel territorio dei bianchi, si fecero avanti frammenti di ragione. Dovevo smettere di lamentarmi e cominciare a camminare diritta. Bisognava sistemare il fazzoletto bianco intorno alla testa e annodarlo in cima. Se uno era sul punto di morire nel quartiere bianco del paese, doveva farlo con stile.
Dall’altra parte del ponte il dolore sembrò calmarsi, come se dai bianchi soffiasse una brezza che avvolgeva delicatamente quanto si trovava nelle loro vicinanze, inclusa la mia mandibola. La strada di ghiaia era più liscia, i sassi più piccoli e i rami degli alberi ricadevano fin quasi sulle nostre spalle. Se il dolore non diminuì, quelle visioni familiari eppure insolite mi ipnotizzarono al punto da farmi credere che l’avesse fatto.
Ma la testa continuava a pulsare con l’insistenza ritmica di una grancassa. Come faceva un mal di denti a passare di fianco alla galera, sentire le canzoni dei prigionieri, i loro blues e le loro risate, e non uscirne cambiato? Come facevano un paio o persino un’intera bocca di radici arrabbiate a incontrare un carro pieno di bambini bianchi straccioni, sopportarne lo snobismo idiota e non sentirsi meno importanti?
Dietro l’edificio in cui si trovava lo studio del dentista correva un sentierino usato dai domestici e dai commercianti che rifornivano il macellaio e l’unico ristorante di Stamps. Io e Momma seguimmo il vialetto fino alle scale sul retro dello studio del dottor Lincoln. Mentre salivamo i gradini per arrivare al secondo piano, il sole splendente trasformò quella giornata in una dura realtà.
Momma bussò alla porta e una ragazza bianca venne ad aprire mostrandosi sorpresa nel vederci lì. Momma disse che voleva vedere il dottor Lincoln e le chiese di riferirgli che c’era Annie. L’altra chiuse la porta con fermezza. L’umiliazione di sentire Momma parlare di sé alla ragazza bianca come se non avesse un cognome era pari al dolore fisico. Era terribilmente ingiusto avere mal di denti e mal di testa e allo stesso tempo dover sopportare il pesante fardello di essere nera.
Era sempre possibile che il male si placasse e magari i denti cadessero da soli. Momma disse che avremmo aspettato. Sotto il sole cocente, ci appoggiammo alla ringhiera instabile del pianerottolo del dentista e rimanemmo così per più di un’ora.
Il medico aprì la porta e guardò Momma. «Allora, Annie, che cosa posso fare per te?»
Non vide il fazzoletto intorno alla testa né notò la mia faccia gonfia.
Momma disse: «Dottor Lincoln. Si tratta di questa mia nipotina qui. Ha due denti cariati che la stanno facendo diventare matta».
Aspettò che attestasse la verità della sua affermazione. Lui non fece commenti, né a parole né con l’espressione del viso.
«Sono quasi quattro giorni ormai che ha tutto ’sto male, e oggi ho detto: “Signorina, si va dal dentista”».
«Annie?»
«Sì, signore, dottor Lincoln».
Stava scegliendo le parole nello stesso modo in cui si cercano le conchiglie. «Annie, sai che non curo i neri, la gente di colore».
«Lo so, dottor Lincoln. Ma questa qui è solo la mia nipotina, non le darà nessun guaio...»
«Annie, ognuno ha la sua politica. In questo mondo è necessario avere una politica. Ebbene, la mia politica è che non curo gente di colore».
Il sole aveva cotto l’olio sulla pelle di Momma e sciolto la vaselina nei suoi capelli. L’unto la rendeva lucida mentre si sporgeva fuori dall’ombra del dentista.
«Mi sembra, dottor Lincoln, che potrebbe anche occuparsene, non è altro che una piccina. E mi sembra che forse mi deve un paio di favori».
Il dentista arrossì leggermente. «Favore o non favore. I soldi ti sono stati restituiti tutti e questo chiude la faccenda. Spiacente, Annie». Aveva la mano sulla maniglia. «Spiacente». Proferì in tono un po’ più gentile il secondo «Spiacente», come se lo fosse davvero.
Momma disse: «Non insisterei così tanto se fosse per me, ma non posso accettare un no. Non per la mia nipotina. Quando è venuto a chiedermi i soldi non ha mica dovuto supplicarmi. Me li ha chiesti, e io glieli ho prestati. Be’, quella non era la mia politica. Il mio mestiere non è prestare denaro, ma lei stava per perdere questa casa e io ho cercato di aiutarla a uscire dai guai».
«Ho pagato, e anche se alzi la voce non mi farai cambiare idea. La mia politica...» Lasciò andare la maniglia e fece un passo verso Momma. Eravamo tutti e tre pigiati sul piccolo pianerottolo. «Annie, la mia politica è che preferirei ficcare la mano nella bocca di un cane piuttosto che in quella di un negro».
Non mi aveva guardato neanche una volta. Si voltò e rientrò nella casa fresca. Momma controllò la rabbia per qualche minuto. Dimenticai tutto tranne la sua faccia che per me era quasi nuova. Si allungò in avanti e afferrò la maniglia, poi con la sua solita voce sommessa disse: «Sorella, va’ di sotto. Aspettami. Arrivo subito».
Sapevo che il più delle volte discutere con Momma non serviva a niente. Così scesi le scale ripide, timorosa di guardarmi indietro e allo stesso tempo di non farlo. Mi voltai quando sentii sbattere la porta, ma lei era sparita.
Momma entrò nella stanza come se fosse sua. Con una mano spinse da parte quella stupida infermiera e proseguì a grandi passi verso lo studio del dentista. Era seduto sulla sua poltrona intento ad affilare i miseri strumenti e rendere ancora più amare le medicine. Gli occhi di Momma bruciavano come carboni ardenti e le braccia erano diventate lunghe il doppio. Il dentista alzò lo sguardo su di lei un attimo prima che lo agguantasse per il colletto del camice bianco.
«Alzati in piedi quando vedi una signora, sprezzante farabutto». La sua lingua era diventata più sciolta e le parole risuonavano ben chiare. Chiare e secche come tuoni.
Il dentista non aveva altra scelta che mettersi sull’attenti. Dopo un minuto chinò la testa e la sua voce si fece umile. «Sì, signora, Mrs. Henderson».
«Mascalzone che non sei altro, credi di esserti comportato come un gentiluomo parlandomi in quel modo davanti a mia nipote?» Non lo scuoteva, sebbene avesse la forza per farlo. Si limitava a tenerlo dritto.
«No, signora, Mrs. Henderson».
«No, signora, Mrs. Henderson cosa?» Allora gli diede una lievissima scrollatina, ma data la sua forza quel gesto gli fece ciondolare la testa e le braccia. Balbettava molto più di zio Willie. «No, signora, Mrs. Henderson, mi dispiace».
Mostrando solo una punta di tutto il suo disgusto, Momma lo scaraventò di nuovo sulla sua poltrona. «Bando alle dance, tra poco sarai il dentista più dispiaciuto con il quale mi sia mai capitato di fare quattro chiacchiere». (Aveva una tale padronanza della lingua che poteva permettersi di scivolare nel gergo colloquiale.)
«Non ti ho chiesto di scusarti davanti a Marguerite perché non voglio che sappia del mio potere, ma ora ti ordino: lascia Stamps prima del tramonto».
«Mrs. Henderson, non posso prendere tutti i miei apparecchi...» Adesso tremava spaventosamente.
«Bene, ecco infatti il mio secondo ordine: non farai mai più il dentista. Mai più! Quando ti sistemerai in un altro paese, sarai un vegetariano che si prenderà cura di cani con la rogna, gatti con il colera e vacche con l’epizoozia. È chiaro?»
La saliva gli scorreva giù per il mento mentre gli occhi si riempivano di lacrime. «Sì, signora. Grazie per non avermi ucciso. Grazie, Mrs. Henderson».
Momma, che era diventata una donna alta tre metri con le braccia lunghe due metri e mezzo, tornò normale e disse: «Non mi devi ringraziare, canaglia, non mi darei la pena di uccidere uno come te».
Uscendo sventolò il fazzoletto verso l’infermiera e la tramutò in un sacco giallo zafferano pieno di mangime per polli.
Mentre scendeva le scale, Momma aveva l’aria stanca, ma chi non si sarebbe stancato passando quello che aveva passato lei? Mi venne vicino e mi sistemò il fazzoletto (avevo dimenticato il mal di denti; sapevo solo che mi stava toccando con delicatezza per non risvegliare il dolore). Mi prese per mano. La sua voce era sempre la stessa. «Avanti, sorella».
Immaginavo che andassimo a casa dove lei avrebbe preparato un infuso per eliminare il dolore e magari mi avrebbe anche dato dei denti nuovi. Denti nuovi che mi sarebbero spuntati dalle gengive durante la notte. Mi condusse verso il drugstore, che era nella direzione opposta rispetto all’Emporio. «Ti porto a Texarkana dal dottor Baker».
Dopotutto ero contenta di aver fatto il bagno e aver messo il borotalco. Era una sorpresa meravigliosa. Il mal di denti era diminuito trasformandosi in un dolore sopportabile, Momma aveva annientato il bianco cattivo e stavamo partendo per Texarkana, noi due sole.
Sul pullman Momma scelse un posto in fondo, vicino al corridoio, e io sedetti accanto a lei. Ero molto orgogliosa di essere sua nipote ed ero sicura che mi avesse trasmesso un po’ della sua magia. Mi chiese se avevo paura. Scossi la testa e mi appoggiai al suo fresco braccio scuro. Non era possibile che un dentista, specialmente un dentista nero, osasse farmi male. Non se c’era Momma. Durante il viaggio non successe niente, tranne che Momma mi mise un braccio intorno alle spalle, un gesto davvero insolito per lei.
Prima di addormentarmi le gengive, il dentista mi mostrò la medicina e l’ago, ma anche se non l’avesse fatto non mi sarei preoccupata. Momma era in piedi proprio dietro di lui. Aveva le braccia conserte e controllava tutto quello che faceva il dottore. Una volta estratti i denti, mi comperò un cono gelato a un drugstore. Il viaggio di ritorno fu tranquillo, a parte il fatto che dovevo sputare in una piccolissima tabacchiera vuota che Momma aveva preso apposta per me, ed era un’operazione difficile tra i sobbalzi e gli scossoni del pullman sulle nostre strade di campagna.
A casa, Momma mi diede una soluzione salata calda e quando mi sciacquai la bocca mostrai a Bailey i buchi vuoti con il sangue raggrumato simile al ripieno di una torta. Disse che ero proprio coraggiosa, allora presi lo spunto per raccontare del faccia a faccia con quel miserabile dentista bianco e degli incredibili poteri di Momma.
Dovetti ammettere che non avevo sentito la conversazione, ma cos’altro avrebbe potuto dire se non quello che avevo detto io? Cos’altro avrebbe potuto fare? Bailey concordò con la mia analisi senza troppa convinzione e io mi precipitai nell’Emporio tutta contenta (in fondo, ero stata male). Momma stava preparando la cena e zio Willie era sulla soglia appoggiato allo stipite. Lei diede la sua versione.
«Il dottor Lincoln ha fatto proprio l’arrogante. Ha detto che preferiva mettere la mano in bocca a un cane. E quando gli ho ricordato il favore, se l’è scrollato di dosso come un ciuffo di cotone. Allora ho mandato giù la bambina e sono entrata. Non ero mai stata nel suo studio, ma ho trovato la porta della stanza dove cava via i denti, e c’erano lui e l’infermiera che confabulavano. Sono rimasta là ferma finché si è accorto di me». Fracasso di pentole sulla stufa. «È saltato su come uno che siede sulle spine. Mi fa: “Annie, te lo ripeto, non ho nessuna intenzione di curare la bocca di una negra”. Io ho detto: “Qualcuno deve pur farlo”, e lui: “Portala a Texarkana dal dentista di colore”, ed è stato allora che gli ho detto: “Se lei mi dà i miei soldi potrò permettermelo”. Lui mi fa: “Ho già pagato tutto”. Io ho risposto che aveva pagato tutto tranne gli interessi. E lui: “Non ce n’erano di interessi”. Allora ho detto: “Adesso ce n’è. Per saldare il debito mi deve dieci dollari”. Sai, Willie, non era mica giusto, perché i soldi glieli avevo prestati senza interessi.
«Ha detto a quella scemetta piena di arie di darmi dieci dollari e di farmi firmare una ricevuta di “pagato a saldo”. Me li ha dati e io ho firmato. Anche se il debito l’aveva già saldato, ho pensato che se faceva l’infame, allora doveva pagare».
Momma e suo figlio andarono avanti un bel po’ a ridere della cattiveria del bianco e di quanto aveva fruttato a lei il suo peccato.
A me piaceva di più, molto di più, la mia versione.