Sebbene i miei voti fossero molto alti (al mio arrivo da Stamps mi avevano fatto avanzare di due semestri), nella scuola superiore non riuscivo a sentirmi a mio agio. Era un istituto femminile vicino a casa mia, dove le ragazze erano più svelte, irruenti, perfide e prevenute di qualsiasi studentessa della Lafayette County Training School. Molte delle mie compagne nere venivano direttamente dal Sud, come me, ma avevano conosciuto o quanto meno sostenevano di aver conosciuto le luci sfavillanti della grande D (Dallas) o T (Tulsa, Oklahoma), e il loro linguaggio lo confermava. Camminavano impettite con un’aria di invincibilità e, assieme ad alcune messicane che nascondevano coltelli nelle alte capigliature alla Pompadour, intimidivano non poco le ragazze bianche e quelle nere e messicane che non sapevano mostrarsi intrepide. Per fortuna venni trasferita alla George Washington High School.
Era una bella scuola, situata su una collinetta nella zona residenziale bianca, a circa sessanta isolati dal quartiere nero. Per il primo semestre oltre a me c’erano solo altri due studenti neri, e in quell’atmosfera rarefatta cominciai ad amare di più la mia gente. La mattina, attraversare il mio ghetto in tram era uno shock terribile. Sapevo che presto avrei lasciato l’ambiente a me familiare; i neri che si trovavano sul tram quando ero salita sarebbero scesi tutti e io avrei dovuto affrontare da sola quaranta isolati di strade ordinate, prati ben curati, case bianche e bambini ricchi.
La sera, tornando indietro, provavo gioia, attesa e sollievo nel vedere il primo cartello che indicava BARBECUE o DO DROP INN o CUCINA CASALINGA, oppure le prime facce nere per la strada. Mi accorgevo di essere di nuovo a casa.
A scuola fu una delusione scoprire che non ero la più brava, e nemmeno tra i migliori. Gli studenti bianchi possedevano un vocabolario più ricco del mio e, cosa ancora peggiore, in classe avevano meno paura. Non esitavano ad alzare la mano per rispondere a una domanda dell’insegnante; anche quando sbagliavano lo facevano in modo aggressivo, mentre io dovevo essere ben sicura del fatto mio prima di richiamare l’attenzione su di me.
La George Washington High School fu la prima vera scuola che frequentai. Vi avrei solo perso tempo se non fosse stato per la singolare personalità di una brillante professoressa. Miss Kirwin era un raro esempio di insegnante innamorata del sapere. Non smetterò mai di credere che l’amore per il suo lavoro dipendesse non tanto dal suo affetto per gli studenti, quanto dal desiderio che almeno una parte del suo sapere trovasse dei depositari e potesse essere di nuovo condivisa.
Lei e la sorella nubile lavoravano nelle scuole di San Francisco da più di vent’anni. La mia Miss Kirwin, una signora alta, florida e prosperosa con i capelli grigio-azzurri, insegnava educazione civica e attualità. Alla fine del suo corso i nostri libri erano immacolati, con le pagine ancora intatte come quando ce li avevano distribuiti. Gli studenti di Miss Kirwin non venivano mai o quasi mai invitati ad aprire i testi.
Salutava ogni classe dicendo: «Buona giornata, signore e signori». Non avevo mai sentito un adulto parlare a dei ragazzi con tanto rispetto. (In genere gli adulti credono che una dimostrazione di stima diminuisca la loro autorità.) «Sul Chronicle di oggi c’era un articolo riguardo l’industria mineraria nella Carolina del Nord e del Sud (o qualche altra questione altrettanto distante da noi). Sono certa che l’avete letto tutti. Vorrei che qualcuno approfondisse l’argomento».
Dopo le prime due settimane nella sua classe, io e tutti gli altri studenti leggevamo entusiasti i giornali di San Francisco, le riviste Time, Life e tante altre. Miss Kirwin dimostrava che Bailey aveva ragione. Una volta, infatti, mio fratello mi aveva detto che «tutto il sapere è una moneta spendibile a seconda del mercato».
Non c’erano studenti preferiti. Niente cocchi della professoressa. Se un dato giorno le andava a genio un alunno, la lezione successiva questo non poteva contare su un trattamento speciale, e viceversa. Ogni volta ripartiva da zero cancellando il passato e si comportava come se anche per noi fosse lo stesso. Riservata e ferma nelle sue opinioni, non perdeva mai tempo in frivolezze.
Era stimolante invece che intimidatoria. Mentre alcuni insegnanti si facevano in quattro per essere carini con me – per dimostrarsi persone “di mentalità aperta” – e altri mi ignoravano del tutto, Miss Kirwin non sembrò mai accorgersi che ero nera e quindi diversa. Ero Miss Johnson e se davo la risposta giusta a una sua domanda non mi toccava niente più di un: «Esatto», come per ogni altro studente che rispondeva bene.
Quando anni dopo tornavo a San Francisco, andavo a farle visita in classe. Si ricordava ancora di Miss Johnson, una studentessa che aveva cervello e avrebbe dovuto sfruttarlo. Durante quelle visite non mi incoraggiava mai a trattenermi a lungo alla sua cattedra. Si comportava come se avessi altri professori da andare a trovare. Mi sono chiesta più volte se si rendesse conto di essere l’unica insegnante che ricordavo.
Non ho mai saputo perché mi diedero una borsa di studio per la California Labor School. Era un college per adulti, e molti anni dopo scoprii che era nella lista delle organizzazioni sovversive antiamericane. Ricevetti una borsa di studio a quattordici anni e un’altra l’anno successivo. Frequentavo i corsi serali di danza e recitazione con adulti bianchi e neri. Avevo scelto recitazione semplicemente perché mi piaceva il monologo di Amleto che cominciava con: «Essere o non essere». Non avevo mai visto una rappresentazione teatrale e non associavo il cinema al teatro. A dire il vero, le uniche volte che avevo sentito il monologo erano state quelle in cui lo avevo recitato a me stessa con tono melodrammatico, davanti a uno specchio.
Fu un’impresa dura tenere a freno il mio amore per i gesti esagerati e la voce carica di emozione. Quando io e Bailey leggevamo insieme le poesie, lui sembrava uno spietato Basil Rathbone e io una furibonda Bette Davis. Alla California Labor School un’insegnante dotata di polso e intuito mi fece troncare con il melodramma alla svelta e senza tante ulteriori cerimonie.
Mi costrinse a fare sei mesi di mimo.
Bailey e mamma mi spinsero a iscrivermi a danza, e in privato mio fratello mi disse che l’esercizio fisico mi avrebbe ingrossato le gambe e allargato i fianchi. Non avevo bisogno di altri incentivi.
La vergogna che provavo all’idea di muovermi in calzamaglia nera per una grande sala vuota non durò a lungo. Naturalmente all’inizio pensavo che tutti avrebbero fissato il mio corpo a forma di cetriolo con bitorzoli al posto delle ginocchia, bitorzoli al posto dei gomiti e, ahimè, bitorzoli al posto dei seni. Ma nessuno ci fece caso, e quando vidi l’insegnante volteggiare attraverso la stanza terminando con un arabesque rimasi affascinata. Avrei imparato a muovermi così. Avrei imparato a «occupare lo spazio» come diceva lei. Le mie giornate si snodavano tra le lezioni di Miss Kirwin, la cena con Bailey e mamma, la danza e la recitazione.
In quel periodo della mia vita gli oggetti della mia devozione avevano ben poco in comune tra loro: Momma con la sua compassata risolutezza, Mrs. Flowers e i libri, Bailey con il suo amore, mia madre e la sua allegria. Miss Kirwin e il suo sapere, i corsi serali di danza e recitazione.