Stavo andando in vacanza, proprio come Jane Withers e Donald O’Connor. Papà Bailey mi aveva invitato a trascorrere l’estate con lui nel Sud della California, e io ero agitatissima all’idea. Data la sua tipica aria di superiorità, mi aspettavo che mio padre vivesse in una villa circondata da terreni con tanto di personale in livrea.
Mamma si diede da fare per aiutarmi a comperare qualcosa di estivo. Con il tono altezzoso che usano gli abitanti di San Francisco parlando di chi vive in climi più caldi, mi spiegò che tutto quello di cui avevo bisogno era un sacco di pantaloncini, calzoni sportivi, sandali e camicette perché «in pratica nel Sud della California la gente non mette altro».
Papà Bailey aveva una fidanzata, che aveva cominciato a scrivermi qualche mese prima; sarebbe venuta lei a prendermi alla stazione. Eravamo d’accordo di portare un garofano bianco come segno di riconoscimento, così feci conservare il mio nel frigorifero del vagone ristorante finché arrivammo nel paesino caldo dove viveva papà.
Passai velocemente in rassegna i bianchi lungo il binario e poi i neri che andavano su e giù. Non c’erano uomini alti come papà, né donne veramente affascinanti (vista la prima scelta di mio padre, ero giunta alla conclusione che tutte le sue donne successive avrebbero dovuto essere bellissime). Vidi una ragazzina con un fiore bianco, ma non poteva essere lei. Il marciapiede a poco a poco si vuotò mentre noi continuavamo a passare l’una di fianco all’altra. Alla fine lei mi fermò con un incredulo: «Marguerite?» La sua voce stridula, assai turbata, rivelava la sua età. No, non si trattava proprio di una ragazzina. Ero incredula anch’io.
Disse: «Sono Dolores Stockland».
Ero sbalordita, ma cercando di fare la persona educata dissi: «Salve. Mi chiamo Marguerite».
La fidanzata di papà? Doveva avere poco più di vent’anni. Il tailleur in tela crespa a righine, le scarpe con il tacco e i guanti dicevano che era seria e perbene. Era di altezza media, ma aveva il corpo non ancora formato di una ragazzina e se stava progettando di sposare nostro padre doveva essere rimasta sconvolta nel trovarsi di fronte una futura figliastra alta quasi un metro e ottanta e neanche bella. (Da quanto scoprii più tardi papà Bailey le aveva detto che i suoi figli avevano otto e nove anni ed erano proprio due amorini. Lei aveva un tale bisogno di credergli che, sebbene ci fossimo scritte in un periodo in cui avevo la mania dei paroloni e delle frasi contorte, era riuscita a ignorare l’evidenza.)
Io rappresentavo solo un altro anello di una lunga catena di delusioni. Papà aveva promesso di sposarla, ma continuò a rimandare sino a quando finì per sposare Alberta, un’altra donna del Sud bassa ed energica. Quando la conobbi, Dolores aveva l’atteggiamento tipico di una borghese nera senza poterselo permettere. Invece di possedere una villa con domestici, papà abitava in un campeggio per roulotte alla periferia di una città che era a sua volta la periferia di una città. Dolores viveva con lui e teneva la casa pulita e in ordine come una bara. Fiori finti spuntavano cerei dai vasi di vetro. Dolores passava dalla lavatrice all’asse da stiro. La sua parrucchiera poteva contare su assoluta fedeltà e puntualità. Non ci fossero state intrusioni, la sua vita sarebbe stata perfetta. Ma arrivai io.
Cercò in tutti i modi di trasformarmi in qualcosa che lei potesse accettare. Il suo primo tentativo, clamorosamente fallito, riguardò l’attenzione ai particolari. Mi chiese, mi invitò con lusinghe e infine mi ordinò di avere cura della mia camera. La mia volontà di accontentarla era ostacolata da una profonda ignoranza su come andasse fatto e dalla mia goffaggine nel maneggiare gli oggetti piccoli. La toeletta era ricoperta di donnine bianche con il parasole e cani di porcellana, cupidi panciuti e animali di ogni tipo in vetro soffiato. Dopo aver fatto il letto, spazzato per terra e appeso i vestiti, se e quando mi ricordavo di spolverare quel bric-à-brac, immancabilmente stringevo una statuina con troppa forza e le spezzavo le gambe, oppure non la tenevo abbastanza salda e la facevo volare in mille pezzi.
Papà non abbandonava mai la sua espressione impenetrabile e divertita. Godeva enormemente del nostro disagio. Senza dubbio Dolores adorava il suo imponente fidanzato, il cui modo di esprimersi (papà Bailey non parlava, declamava), infarcito di ehm, doveva esserle di qualche consolazione nella loro casa tutt’altro che borghese. Papà lavorava nella cucina di un ospedale della marina militare, e lui e Dolores dicevano che faceva il dietologo per la marina degli Stati Uniti. Il loro frigorifero era sempre colmo di prosciutti, mezzi arrosti e quarti di pollo freschi. Papà era un ottimo cuoco. Durante la prima guerra mondiale era stato in Francia e aveva anche lavorato come portiere all’esclusivo Breakers’ Hotel, il risultato erano frequenti cenette all’europea. Ci preparava spesso il coq au vin, costolette di prima scelta au jus e cotolette alla milanese con contorno. La sua specialità, però, erano i piatti messicani. Ogni settimana attraversava il confine per andare a prendere le spezie e le vivande che avrebbero onorato la nostra tavola, come il pollo en salsa verde e l’enchilada con carne.
Se Dolores fosse stata un tipo con i piedi per terra avrebbe scoperto che quegli ingredienti si trovavano facilmente anche in paese e papà non aveva bisogno di andare fino in Messico per fare la spesa. Ma lei non si sarebbe mai abbassata a passare davanti a uno di quei barbari mercados messicani, figuriamoci avventurarsi nella sua puzza. E poi suonava chic dire: «Mio marito, Mr. Johnson, dietologo della marina, ha fatto un salto in Messico a prendere qualcosa per la cena». Faceva colpo sulle altre persone chic che andavano a comperare i carciofi nel quartiere bianco.
Papà parlava bene spagnolo e, siccome io lo avevo studiato per un anno, riuscivamo a fare un po’ di conversazione. Credo che il talento per le lingue straniere fosse l’unica mia qualità capace di impressionare Dolores. Lei aveva la bocca troppo tesa e la lingua troppo ferma per tentare di pronunciare quei suoni strani. Bisogna ammettere, però, che il suo inglese, come ogni altra cosa che la riguardava, era assolutamente perfetto.
Per settimane fummo impegnate in una prova di forza durante la quale papà rimase a guardare, senza fischiare né applaudire, divertendosi un mondo. Una volta mi chiese se «mi ehm piaceva ehm mia madre». Credevo intendesse mia madre e risposi di sì, era bella, allegra e gentilissima. Disse che non stava parlando di Vivian ma di Dolores. Allora gli spiegai che non mi piaceva perché era cattiva, gretta e pretenziosa. Si mise a ridere, e quando aggiunsi che io non le piacevo perché ero alta, arrogante e non abbastanza pulita per lei, rise ancora più forte e disse qualcosa del tipo: «Be’, così è la vita».
Una sera papà annunciò che il giorno dopo sarebbe andato in Messico a comperare qualcosa per il fine settimana. Non c’era niente di insolito nelle sue parole, ma poi aggiunse che mi avrebbe portato con lui. Riempì il nostro silenzio attonito informandoci che un viaggio in Messico mi avrebbe dato la possibilità di esercitarmi con lo spagnolo.
Se il silenzio di Dolores poteva essere frutto della gelosia, il mio era dovuto ad autentica sorpresa. Mio padre non era mai stato particolarmente fiero di me e mi aveva sempre dimostrato ben poco affetto. Non mi aveva mai fatto conoscere i suoi amici né visitare i pochi luoghi caratteristici della California del Sud. Era incredibile che mi rendesse partecipe di qualcosa di così esotico come un viaggio in Messico. Be’, conclusi alla svelta, me lo meritavo. Dopotutto ero sua figlia e le mie vacanze si erano rivelate di gran lunga inferiori alle aspettative. Se solo avessi insistito per far venire anche Dolores, forse ci saremmo risparmiati una scenata di violenza che sfiorò la tragedia. Ma la mia giovane mente era piena di sé, e la mia fantasia fremeva al pensiero di vedere sombreros, rancheros, tortillas e Pancho Villa. Passammo una serata di tutto riposo. Dolores rammendava la sua biancheria perfetta mentre io fingevo di leggere un romanzo. Papà ascoltava la radio con un bicchiere in mano e intanto guardava quello spettacolo pietoso, ma questo lo capii in seguito.
La mattina partimmo per l’avventura nel paese straniero. Gli sterrati del Messico appagavano il mio desiderio di novità. A pochi chilometri dagli scorrevoli stradoni della California e dai suoi alti edifici, così almeno parevano a me, c’erano strade di ghiaia piene di buche che avrebbero potuto competere con i peggiori viottoli dell’Arkansas, e il paesaggio sfoggiava casupole di mattoni cotti al sole e baracche di lamiera. Cani magri e sporchi gironzolavano intorno alle case, mentre bambini pressoché nudi giocavano innocentemente con pneumatici usati. Metà della popolazione somigliava a Tyrone Power e Dolores Del Rio, l’altra metà ad Akim Tamiroff e Katina Paxinou, forse solo un po’ più grassi e vecchi.
Attraversato il confine, ci dirigemmo verso l’interno senza che papà desse alcuna spiegazione. Sebbene fossi sorpresa, non volevo cedere alla curiosità facendogli delle domande. Dopo qualche chilometro una guardia in uniforme ci fermò. Papà le rivolse un saluto familiare e scese dalla macchina. Allungò la mano nella tasca della portiera e prese una bottiglia di liquore che portò nel casotto della guardia. Andarono avanti a ridere e parlare per più di mezz’ora, mentre io ero rimasta seduta nell’auto a cercare di decifrare i suoni smorzati che mi giungevano. Alla fine uscirono e si diressero verso di me. Papà aveva ancora in mano la bottiglia, che però era piena solo a metà. Chiese alla guardia se voleva sposarmi. Il loro spagnolo era più smozzicato di quello che avevo imparato a scuola, ma riuscii a capirlo. Mio padre aggiunse come incentivo che avevo solo quindici anni. Subito la guardia si chinò e mi accarezzò una guancia. Prima doveva avere pensato che ero non solo brutta ma anche vecchia, mentre adesso l’uomo era attratto dall’idea che probabilmente nessuno mi aveva ancora usato. Disse a papà che mi avrebbe sposato e avremmo avuto «tanti bambini». Mio padre trovò quella promessa la cosa più divertente che fosse capitata da quando eravamo partiti. (Aveva fatto una risata fragorosa quando gli avevo spiegato che Dolores non aveva risposto al mio saluto perché non l’aveva sentito.) La guardia non si scoraggiò nonostante i miei tentativi di sottrarmi alle sue lunghe mani, e mi sarei rifugiata al posto di guida se papà non avesse aperto la portiera e fosse salito. Dopo molti adiós, bonitas ed espositas papà mise in moto e ripartimmo.
I cartelli dicevano che eravamo diretti a Ensenada. Percorrendo la polverosa strada serpeggiante sul fianco della montagna scoscesa, avevo paura che non avrei mai più visto l’America e non sarei più tornata alla civiltà, l’inglese e le vie larghe. Durante quella salita tortuosa papà beveva a piccoli sorsi dalla bottiglia e cantava brani di canzoni messicane. Alla fine scoprii che la nostra meta non era Ensenada, ma un posto a circa sette chilometri dalla città. Ci fermammo nel cortile di terra battuta di una cantina dove bambini mezzi nudi correvano in cerchio dietro a miseri polli. Il rumore dell’auto fece accorrere alcune donne sulla porta dell’edificio cadente, ma non distrasse dalle rispettive attività né i bambini sudici né le galline pelle e ossa.
Una voce femminile chiamò: «Baylee, Baylee». E all’improvviso uno stuolo di donne si assiepò sulla porta riversandosi in cortile. Papà mi disse di scendere e andammo loro incontro. Spiegò subito che ero sua figlia, e tutte lo trovarono di una comicità irresistibile. Ci condussero in una lunga sala con un bancone in fondo. Tavoli sbilenchi poggiavano su un precario pavimento di assi. Il soffitto catturò la mia attenzione. Strisce di carta di tutti i colori possibili e immaginabili oscillavano appena nell’aria quasi ferma, e proprio mentre le guardavo un paio caddero a terra. Nessuno sembrò accorgersene o, se qualcuno lo fece, evidentemente non gli importava che la volta celeste crollasse. Alcuni uomini sugli sgabelli al banco salutarono mio padre in modo confidenziale. Papà mi presentò dicendo a tutti il mio nome e l’età. Il formale «Como està usted?» imparato a scuola veniva accolto come la più incantevole delle espressioni. Mi davano pacche sulle spalle, stringevano la mano a papà e parlavano uno spagnolo stretto che non riuscivo a seguire. Baylee era l’eroe del momento; mentre si beava in quella aperta manifestazione di affetto lo vidi sotto una nuova luce. Il sorriso beffardo scomparve insieme con il modo di parlare affettato (sarebbe stato difficile infilare degli ehm in quello spagnolo così veloce).
Sembrava impossibile pensare a lui come a una persona sola, che cercava senza sosta nella bottiglia, sotto la gonna delle donne, nell’impegno in chiesa e nei lavori altisonanti qualche titolo per la sua “nicchia personale”, perduta prima della nascita e da allora mai più ritrovata. In quel momento capii che non era mai appartenuto a Stamps, e ancor meno alla famiglia Johnson, così lenta nell’agire e nel pensare. Doveva essere esasperante nascere con aspirazioni grandiose in un campo di cotone.
Nel bar messicano papà aveva un’aria rilassata che non gli avevo mai visto. Davanti a quei contadini non aveva bisogno di fingere. Così com’era, semplicemente se stesso, faceva già abbastanza colpo su di loro. Era un americano. Era nero. Parlava bene spagnolo. Aveva i soldi e beveva tequila con i migliori. Piaceva anche alle donne. Era alto, bello e generoso.
Si stava svolgendo una fiesta. Qualcuno infilò delle monete nel juke-box e a tutti i clienti vennero serviti dei drink. A me diedero una Coca-cola calda. La musica scaturiva dall’apparecchio, voci tenorili che si levavano ora tremule ora ferme per i passionali rancheros. Gli uomini si misero a ballare, all’inizio da soli, poi formando coppie tra loro, e di tanto in tanto una donna si univa al rito pestando i piedi. Mi chiesero di ballare. Esitai perché non ero sicura di riuscire a seguire i passi, ma papà annuì incoraggiandomi a provare. Passai almeno un’ora a divertirmi senza neanche accorgermene. Un ragazzo mi insegnò ad attaccare le strisce di carta sul soffitto. Prima di tutto bisogna masticare una gomma messicana fino a succhiare tutto lo zucchero, poi il candidato riceve dal barista qualche pezzo di carta e ci scrive sopra un proverbio o una frase romantica. Dopo di che tira fuori di bocca la gomma molle e la appiccica a un’estremità della carta. Sceglie la parte di soffitto più libera, mira a un punto e, mentre tira in alto la striscia, lancia un urlo raccapricciante da rodeo. Dopo un paio di tiri mancati e relativi gridolini, mi lasciai andare lacerandomi le tonsille con un grido degno di Zapata. Ero felice, papà era orgoglioso e i miei nuovi amici erano gentili. Una donna portò dei chicharrones (noi li chiamiamo ciccioli) avvolti in un giornale unto. Mentre mangiavo la cotenna di maiale fritta, ballavo, gridavo e bevevo Coca-cola dolcissima e appiccicosa, avvertii una sensazione di quasi abbandono che non avevo mai provato. A mano a mano che nuovi festaioli si univano alla baldoria, io venivo presentata come la niña de Baylee e subito accolta. Il sole del pomeriggio non riusciva a illuminare la stanza attraverso l’unica finestra, e l’insieme di corpi, odori e suoni si fondeva in una penombra aromatica e artificiale. Mi accorsi che non vedevo mio padre da un pezzo. «Dónde está mi padre?» chiesi all’uomo che ballava con me. Alle orecchie del paisano il mio spagnolo formale dovette suonare altezzoso quanto la domanda: «Ove si è recato il mio genitore?» posta a un montanaro dell’Ozark semianalfabeta. In ogni caso provocò una risata fragorosa, un abbraccio che quasi mi stritolò e nessuna risposta. Finito il ballo, mi feci largo attraverso la calca nella maniera più discreta possibile. Fui sopraffatta da un attacco di panico. Non era nella sala. Si era forse messo d’accordo con la guardia al passo? Capacissimo di farlo. Mi avevano drogato la Coca-cola. Ne ero talmente certa che mi sentii piegare le ginocchia mentre le coppie che ballavano si facevano indistinte. Papà se ne era andato. Probabilmente era già a metà strada verso casa con in tasca i soldi ricavati dalla mia vendita. Dovevo arrivare alla porta, che sembrava lontanissima. La gente mi fermava chiedendomi: «Dónde vas?» La mia risposta era impacciata e ambigua, qualcosa come: «Yo voy por ventilarme», cioè “vado a ventilarmi”. Non c’era da meravigliarsi se mi consideravano un fenomeno da baraccone.
Attraverso la porta aperta vidi la Hudson di papà parcheggiata in solitario splendore. Allora non mi aveva abbandonato. Ovviamente questo significava che non ero stata drogata. Mi sentii subito meglio. Nessuno mi seguì in cortile dove il sole del tardo pomeriggio aveva mitigato l’asprezza del mezzogiorno. Decisi di sedermi in macchina ad aspettarlo perché tanto non poteva essere andato lontano. Sapevo che era con una donna, e pensandoci bene era facile immaginare quale delle allegre senoritas si fosse portato via. Una tipa piccola e ben fatta dalle labbra rossissime si era incollata a lui con avidità non appena eravamo arrivati. Al momento non ci avevo fatto caso, però avevo notato la sua felicità. Ripercorsi tutta la scena con il pensiero. Era stata la prima a corrergli incontro, e lui aveva subito detto: «Questa è mia figlia» e «Parla spagnolo». Se Dolores l’avesse saputo si sarebbe rannicchiata nel suo manto di affettazione per morire con aria guardinga. Il pensiero di come si sarebbe sentita umiliata mi tenne compagnia a lungo, ma poi la musica, le risate e gli urli da Cisco Kid si intromisero nelle mie piacevoli fantasticherie di vendetta. Si stava facendo buio e papà doveva essere in una delle piccole baracche sul retro dove io non potevo raggiungerlo. A poco a poco, mentre riflettevo sulla possibilità di rimanere da sola in macchina tutta la notte, una sensazione di disagio si fece strada in me. Era una paura vagamente collegata al panico di prima. Il terrore non mi sommerse del tutto, ma si insinuò nel mio cervello come una fastidiosa paralisi. Avrei potuto tirare su i finestrini e mettere la sicura alle portiere. Avrei potuto sdraiarmi sul fondo della macchina e diventare piccola piccola. Impossibile! Cercai di arrestare il flusso di paura. Perché temevo i messicani? Dopotutto erano stati gentili con me e mio padre non avrebbe certo permesso che maltrattassero sua figlia. O forse sì? Come aveva potuto lasciarmi in quel bar puzzolente e andarsene con la sua donna? Gli importava di quello che mi succedeva? Neanche un po’, conclusi, e diedi libero sfogo all’isterismo. Una volta che le lacrime cominciarono a scendere, non potei più fermarle. Sarei morta in un cortile messicano. Quella persona speciale che ero, la mente acuta che Dio e io avevamo creato insieme, avrebbe lasciato questa vita senza una testimonianza del suo passaggio. Com’erano crudeli le Parche e com’era indifesa questa povera ragazzina nera.
Riuscii a distinguere la sua ombra nella semioscurità e fui sul punto di balzare fuori e corrergli incontro, quando mi accorsi che era sostenuto dalla donna bassa di prima e da un uomo. Barcollava, ma i due lo tenevano ben saldo e guidavano i suoi passi vacillanti verso la porta della cantina. Se fosse entrato saremmo potuti rimanere lì per sempre. Scesi e li raggiunsi. Chiesi a papà se non voleva salire in macchina e riposarsi. Mi mise a fuoco quanto bastava per riconoscermi e rispose che era proprio quello che voleva; era un po’ stanco e aveva voglia di riposare prima di tornare a casa. Riferì ai suoi amici le sue intenzioni in spagnolo e quelli lo condussero all’auto. Quando aprii la portiera del posto di guida disse che si sarebbe sdraiato un momento sul sedile posteriore. Lo infilammo dentro e cercammo di sistemargli le lunghe gambe per farlo stare comodo. Cominciò a russare mentre ancora lo stavamo mettendo a posto. Aveva tutta l’aria di essere l’inizio di un sonno lungo e profondo, e questo significava che avremmo passato la notte in macchina, in Messico.
Riflettei alla svelta mentre la coppia rideva e mi farfugliava qualcosa in uno spagnolo incomprensibile. Non avevo mai guidato prima d’allora, ma avevo osservato attentamente gli altri mentre lo facevano, e poi mia madre era la migliore automobilista di San Francisco. Così almeno diceva lei. Avevo un’intelligenza eccezionale e una buona coordinazione fisica. Certo che potevo guidare. Guidavano cretini e pazzi, perché non la brillante Marguerite Johnson? Chiesi al messicano di girare l’auto, sempre nel mio raffinato spagnolo scolastico, e mi ci volle un quarto d’ora per farmi capire. L’uomo doveva avermi domandato se ero capace di guidare, ma siccome non sapevo come si diceva «guidare» in spagnolo, continuai a ripetere: «Sì, sì» e «Gracias». finché lui salì e sistemò la macchina con il muso rivolto alla strada. Dalla mossa successiva mostrò di aver capito la situazione. Lasciò il motore acceso. Misi i piedi su acceleratore e frizione, agitai leggermente la leva del cambio e li sollevai. Con un rombo minaccioso riuscimmo a partire a sobbalzi.
Mentre avanzavamo sussultando sul ciglio della strada, l’auto quasi si fermò e io schiacciai di nuovo acceleratore e frizione. Rimanemmo fermi facendo un rumore tremendo, ma il motore non si spense. Intuii allora che per andare avanti dovevo sollevare i piedi dai pedali, e se l’avessi fatto di colpo la macchina si sarebbe messa a vibrare come una persona con il ballo di San Vito. Una volta compreso il principio della locomozione a motore, scesi lungo il fianco della montagna verso Calexico, distante un’ottantina di chilometri. È difficile capire come mai la mia fervida immaginazione e la tendenza a farmi prendere dal panico non mi abbiano suggerito scene cruente di schianti sanguinosi su un risco de Mexico. Posso solo pensare che tutti i miei sensi fossero concentrati nella guida dell’auto che procedeva a strappi.
Quando si fece completamente buio provai tutte le manopole, girandole e tirandole finché riuscii a trovare le luci. Mentre ero impegnata in quella ricerca la macchina rallentò e io dimenticai di premere i pedali; il motore gorgogliò, l’auto sussultò e si fermò. Un rumore da dietro mi avvertì che papà era caduto dal sedile (me lo aspettavo da chilometri). Tirai il freno a mano e studiai con attenzione la mossa successiva. Era inutile pensare di chiedere a papà. Se non lo aveva scosso la caduta, non sarei certo riuscita a farlo io. Era improbabile che passasse qualche macchina, non avevo visto veicoli a motore da quando avevamo superato il posto di guardia quella mattina. Eravamo in discesa, quindi con un po’ di fortuna saremmo potuti arrivare a motore spento fino a Calexico, o almeno fino alla guardia. Aspettai a mollare il freno finché non ebbi pensato a un modo per affrontare quell’uomo. Una volta raggiunto il casotto mi sarei fermata e avrei assunto la mia aria di superiorità. Gli avrei parlato come al contadino che era. Gli avrei ordinato di mettere in moto la macchina e prima di proseguire gli avrei dato come mancia un quarto di dollaro o magari un dollaro intero prendendolo dalla tasca di papà.
Decisa a portare a termine i miei piani, mollai il freno e riprendemmo a scendere. Continuai a tenere schiacciati anche frizione e acceleratore nella speranza di andare più veloce e, meraviglia delle meraviglie, l’auto si rimise in moto. La Hudson impazzì. Cercò di ribellarsi e, se avessi allentato il controllo anche solo per un secondo, nel tentativo di sbalzarmi dal sedile sarebbe saltata sul fianco della montagna con conseguenze disastrose. Era una sfida eccitante. Io, Marguerite, contro le forze della natura. Mentre giravo il volante e pigiavo fino in fondo l’acceleratore, stavo dominando il Messico, la potenza, la solitudine, la giovinezza, l’inesperienza, Bailey Johnson Senior, la morte, l’insicurezza e persino la gravità.
Dopo mille e una notte di sfide, la strada si fece pianeggiante e cominciarono a vedersi luci sparpagliate su ambo i lati. Qualunque cosa fosse successa dopo, avevo vinto. La macchina rallentò come un animale domato sul punto di arrendersi controvoglia. Pigiai ancora più forte e finalmente arrivammo al casotto della guardia. Tirai il freno a mano e mi fermai. Non avrei avuto alcun bisogno di rivolgere la parola a quell’uomo visto che il motore era acceso, ma dovevo aspettare che guardasse dentro e mi facesse segno di proseguire. Era occupato a parlare con alcune persone in un’auto rivolta verso la montagna che avevo appena sbaragliato. La luce del casotto mi permetteva di vederlo; era chino, con la parte superiore del busto completamente inghiottita dal finestrino aperto. Tenni la macchina pronta per la tappa successiva del viaggio. Poi la guardia si raddrizzò e mi accorsi che non era la stessa persona della mattina. La scoperta mi prese alla sprovvista, e quando l’uomo mi salutò con modi bruschi e disse secco: «Pasa», mollai il freno, misi giù tutti e due i piedi e li sollevai un po’ troppo in fretta. La macchina reagì in modo imprevisto. Balzò a sinistra oltre che in avanti, e con un paio di scatti rabbiosi si lanciò contro il fianco dell’auto che stava partendo. Il fracasso del metallo fu subito seguito da una raffica di parole in spagnolo che mi investì da tutte le direzioni. Ancora una volta, stranamente, non ebbi paura. Mi chiesi nel seguente ordine: ero ferita, qualcun altro era ferito, sarei andata in galera, che cosa stavano dicendo i messicani, e infine, papà si era svegliato? Potei rispondere subito alla prima e all’ultima domanda. Rinvigorita dall’adrenalina che mi aveva inondato il cervello mentre sbandavamo giù per la montagna, non mi ero mai sentita meglio, mentre il russare di mio padre fendeva la cacofonia di proteste fuori dal finestrino. Scesi dall’auto con l’intenzione di chiedere della policía, ma la guardia mi batté sul tempo. Disse una sfilza di parole infilandole una dietro l’altra come tante perline, ma tra di loro riconobbi policía. Mentre gli occupanti dell’altra macchina scendevano alla bell’e meglio, cercai di ricuperare il controllo e con gentilezza esagerata dissi forte: «Gracias, señor». La famiglia, una decina di persone di ogni età e corporatura, mi girava intorno, parlando animatamente e squadrandomi come se fossi stata una statua in un parco cittadino e loro uno stormo di piccioni. Qualcuno disse: «Joven», notando che ero giovane. Tentai di vedere chi era così intelligente. Mi sarei rivolta a lui o lei, ma cambiavano posizione tanto in fretta che mi fu impossibile individuare chi aveva parlato. Poi qualcun altro suggerì: «Borracha». Be’, dovevo senz’altro puzzare come una distilleria di tequila, dal momento che papà aveva soffiato fuori il liquore con i suoi respiri sonori e io avevo tenuto chiusi i finestrini per non far entrare l’aria fredda della sera. Ma non l’avrei spiegato a questi estranei neanche se avessi potuto. E non potevo. Qualcuno ebbe l’idea di guardare nella macchina, e uno strillo fece trasalire tutti quanti. La gente – sembravano centinaia di persone – si ammassò contro i finestrini e si sentirono altri strilli. Per un minuto pensai che fosse successo qualcosa di terribile. Forse al momento dello schianto... Mi affacciai al finestrino anch’io, ma poi ricordai il suono ritmico di mio padre che russava e mi allontanai impassibile. La guardia dovette pensare di avere fra le mani un grave delitto. Faceva gesti ed emetteva suoni come per dire: «Tenetela d’occhio» o «Non perdetela di vista». La famiglia tornò a circondarmi, questa volta non così vicina ma più minacciosa, e quando riuscii a distinguere una domanda coerente, «Quién es?», secca e con tutto il distacco di cui ero capace risposi: «Mi padre». Essendo persone abituate a stretti legami di famiglia e fiestas settimanali, capirono la situazione al volo. Ero una povera piccola che si stava prendendo cura del papà ubriaco rimasto troppo a lungo alla festa. Pobrecita.
La guardia, il padre e un paio di bambini piccoli si assunsero il duro compito di svegliare papà. Rimasi a guardare impassibile, mentre gli altri sfilavano formando un otto intorno a me e alla loro auto ammaccata. I due uomini scrollavano, scuotevano e tiravano mio padre, mentre i bambini gli saltavano sul petto. Se l’impresa riuscì, fu senza dubbio merito di questi ultimi. Bailey Johnson Senior si svegliò in spagnolo. «Qué tiene? Qué pasa? Qué quiere?» Chiunque altro avrebbe domandato: «Dove sono?» Evidentemente si trattava di una consueta esperienza messicana. Quando vidi che era abbastanza lucido mi avvicinai all’auto, con calma spinsi da parte la gente e, con l’alterigia di chi ha ridotto all’obbedienza una macchina ribelle e superato una montagna insidiosa, dissi: «Papà, c’è stato un incidente». Un po’ alla volta mi riconobbe e tornò a essere il mio papà pre-fiesta messicana.
«Un incidente, eh? Ehm, di chi è la colpa? Tua, Marguerite? Ehm, è colpa tua?»
Sarebbe stato futile raccontargli di come avevo dominato la sua auto guidandola per quasi ottanta chilometri. Non mi aspettavo che si congratulasse con me, e ormai non ne avevo nemmeno più bisogno.
«Sì, papà, sono andata a sbattere contro una macchina».
Non si era ancora tirato su del tutto, quindi non poteva sapere dove eravamo. Ma rimanendo là sotto tra i sedili, come se quello fosse il posto più naturale dove stare, disse: «Nel cassetto. Le carte dell’assicurazione. Prendile ed ehm dalle alla polizia, poi torna qua».
Prima che potessi formulare una risposta ferma ma educata, la guardia infilò dentro la testa dall’altra portiera. Disse a papà di scendere. Mai colto alla sprovvista, mio padre allungò una mano nel vano portaoggetti e tirò fuori le carte piegate e la mezza bottiglia di liquore che ci aveva messo. Fece uno dei suoi risolini forzati e scese molto adagio. Una volta in piedi, si ritrovò a torreggiare su tutta quella gente arrabbiata. Diede un rapido sguardo in giro per capire dove si trovava e qual era la situazione, poi mise un braccio intorno alle spalle dell’altro automobilista. Con gentilezza, senza assumere un’aria condiscendente, si chinò a parlare alla guardia, e i tre si avviarono al casotto. Dopo pochi minuti dalla baracca si sentirono scoppi di risa; la crisi era passata, e con essa anche il divertimento.
Papà strinse la mano agli uomini, diede un buffetto ai bambini e fece un sorriso accattivante alle donne. Poi, senza guardare le auto danneggiate, si adagiò dietro il volante. Mi invitò a salire e, come se non fosse stato ubriaco fradicio solo mezz’ora prima, prese senza indugio la strada di casa. Disse che non sapeva che fossi capace di guidare e mi domandò se mi piaceva la sua macchina. Ero arrabbiata perché si era ripreso troppo in fretta, e delusa perché non apprezzava la grandiosità della mia impresa. Risposi di sì all’osservazione e alla domanda. Prima di arrivare al confine tirò giù il finestrino; l’aria, benché gradita, era fredda e dava fastidio. Mi disse di prendere la sua giacca dal sedile posteriore e di mettermela. Entrammo in città avvolti in un silenzio gelido e riservato.